Oxford è talmente noiosa che ieri mattina, per la prima volta nella mia vita, ho assecondato l’impulso assassino di entrare in un grande magazzino e di acquistare qualsiasi abito ritenessi anche lontanamente indossabile – per una complessiva spesa di trentadue sterline e mezza, circa quarantotto euri, che acquista una certa notevolezza se si pensa che da Primark, dove mi sono servito, un pantalone di discreta fattura costa quattro sterline, e una polo due e cinquanta. Tuttavia le trentadue sterline e cinquanta erano il prezzo necessario da pagare non solo per sottrarsi al gorgo della noia del weekend, quando si è troppo stanchi per lavorare e troppo stronzi per fare qualsiasi altra cosa, ma soprattutto per provare l’ebbrezza dell’ingresso in un mondo parallelo, quasi mai raggiunto da quelli che come me affogano da anni negli studi umanistici, fatto di persone normali che al sabato mattina non hanno che fare ma non lo sanno, perché sono felici e consumisti e cercano di acquistare tutto quello che possono spendendo il meno possibile al dettaglio e il più possibile all’ingrosso, sapendo magari che in prospettiva ci sono alcune cose che non utilizzeranno già mai (nel mio caso, la camicia violetta che ho scoperto nascosta in una delle due enormi buste ondeggiando in mezzo alle quali sono tornato, mogio mogio, al college.
“So you read the Guardian, then?”. Oxford è talmente noiosa che, a meno di voler spendere ogni giorno trentadue sterline e cinquanta in vestiti inutili, la cosa più divertente che si possa fare è leggere il giornale. Nella fattispecie, la mia ex collega anglocanadese è notevolmente sorpresa del fatto che un conservatore-monarchico-teocratico della mia risma non legga il Daily Telegraph bensì il Guardian (di domenica l’Observer) che è di orientamento progressista-snob. Ci sono due ragionevoli spiegazioni a questo evento meraviglioso. La prima è che, pur non essendo progressista per un cazzo, sono oltremodo snob. La seconda è che in Inghilterra leggo il Guardian (o meglio: the Guardian) per la stessa ragione per cui in Italia leggo il Foglio (o meglio: the Foglio), ossia perché è il giornale meglio scritto che ci sia sul mercato, anche se devo ammettere che le poppute signorine sulla terza pagina del Sun (o meglio del the Sun) costituiscono una quotidiana tentazione.
Ciò di cui si vanta particolarmente il Guardian, che non a caso è progressista e snob, è la netta distinzione fra la notizia e le opinioni al proposito. Se pure non ci hanno mai pensato, un ottimo slogan per lanciare il Guardian sarebbe che ci trovi le notizie di tutti gli altri quotidiani, e i commenti che non trovi in nessun altro quotidiano. Ieri, ad esempio, la notiziona da prima pagina era un’intervista a Gordon Brown. Com’è noto, Gordon Brown sta per abbattersi sulla Gran Bretagna non appena, fra un mesetto circa, Tony Blair gli lascerà la poltrona da primo ministro, e intorno alla poltrona tutta la casa di 10 Downing Street. Per chi non lo sapesse, Gordon Brown è una delle tre persone che riuscirebbero a governare peggio di Prodi (le altre due sono Ahmadinejad, che non è cattivo ma lo disegnano così, e il conte Attilio, cugino di Don Rodrigo). Per di più, Brown è pure scozzese: ragion per cui in Inghilterra lo ritengono una disgrazia più o meno inevitabile, soprattutto i laburisti. Se non che gli inglesi non lo sanno, ma anche loro hanno un Walter Veltroni (o meglio: Valter Weltroni): si chiama David Miliband, è giovane, dicono che sia carino e ha l’enorme merito politico di avere un blog. Inoltre ha il pregio non trascurabile di chiamarsi David come Cameron, e di poter così sperare in qualche confusione nelle sacche più rincoglionite del sempre più preponderante elettorato conservatore. Altri suoi pregi non mi vengono in mente. Ah, è meglio di Gordon Brown.
Non che ci voglia molto, a dire il vero. L’intervista di Brown sul Guardian (o meglio: the intervista di Brown), rivelava ieri già nel solo titolo che “la Gran Bretagna s’è disamorata della celebrità”, o meglio – spiega il povero Brown, ritratto di profilo con un’espressione sconsolata e la didascalia, giuro, “guardando il futuro” – la Gran Bretagna s’è disamorata delle persone che sono famose per la loro stessa celebrità, per essere passate in tv senza meriti particolari; la Gran Bretagna ha imparato ad apprezzare il lavoro sotterraneo e a valorizzare la serietà dei civil servants. Gli inglesi non lo sanno, ma qualche spin doctor di Gordon Brown dev’essersi accorto che questi è perfino peggio di Prodi e ha deciso di superare il maestro, riproducendone pari pari l’ultima (apparentemente vittoriosa) campagna elettorale. Ripensate al marzo 2006: lo slogan di Prodi era “La serietà al governo” (perché poi andasse in giro strombazzando su un tir giallo canarino non è dato saperlo); la contrapposizione che l’Unione rivendicava nei confronti della Casa delle Libertà era sostanzialmente: “noi siamo persone serie, voi venite votati dai teledipendenti”. Insomma, ieri the Guardian sembrava the Repubblica.
“Così tu leggi il Guardian, eh?”. Tant’è vero che gli editoriali, che si conclamano separati dalle notizie, a pagina 30 (titolo: “Getting serious”) individuavano più che un parallelismo l’incarnazione dell’amore per la celebrità a buon mercato. E qual era? Andare a comprare i vestiti da Primark. Giuro, l’ho letto cinque volte prima di rendermi conto che non si trattava di un’allucinazione (come invece quella di aver preso stanotte il caffè col Papa). Stando a the Guardian e stando a Gordon the Brown, l’Inghilterra si sta disamorando della celebrità facile e della televisione vacua e degli sconti di Primark (cinque mutande a due sterline e cinquanta, mica pizza e fichi), e se ce l’avesse si disamorerebbe anche di Berlusconi. L’Inghilterra, questa landa di mattacchioni, sta diventando seria, come Gordon Brown vorrebbe apparire nella foto in prima pagina nella quale guarda il futuro con l’intensità del plurisuicida.
Oxford è un posto talmente noioso che non c’è nemmeno una diciassettenne che, come invece avvenuto a Durham, abbia pensato bene di approfittare dell’assenza dei suoi genitori per dare un enorme party nell’enorme tenuta in cui abita, dandone notizia su MySpace. Se non che qualcuno è intervenuto cambiando il senso dell’annuncio, che alla fine suonava grossomodo: vediamoci a Durham per devastare la tipica casa posh e altoborghese. Risultato: i genitori tornano e trovano la figlioletta (e soprattutto la casa) immersa in vomito, etc., etc.; e tutto ciò che il giorno prima era sano improvvisamente era rotto, per danni complessivi che ammontano a ventimila sterline, molto più delle trentadue e cinquanta che ho colpevolmente speso ieri. Domanda legittima: anche questa diciassettenne, a detta di Gordon Brown, si è finalmente disamorata della facile celebrità? A vedere la foto sembrerebbe di no, anche se il the Guardian non specifica se i suoi vestiti (e soprattutto i suoi occhialoni da sole, che la rassomigliano a Jeff Goldblum ne La Mosca, o meglio: The Mosca) siano stati comprati da Primark. In tal caso, anche se dovrei sentirmi in concorso di colpa, i miei acquisti non mi impedirebbero di pensare che avere figli cretini alle volte è il prezzo della democrazia. Della benevolenza, della tolleranza, dell’openmindness; della serietà, per certi versi. Chi sfascerà the Inghilterra, Primark o Gordon Brown?
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