Devo recensirlo in fretta perché fra un paio d’ore incontro un’amica e glielo presto senza indugio, diffondo il verbo, a stento ho potuto aspettare di finire di leggerlo. Io raramente presto un libro, poiché il più delle volte non mi sembra il caso di ammorbare la vita altrui con le cose che piacciono a me e magari non a loro; anzi il più delle volte se un libro mi piace evito a bella posta di prestarlo in giro basandomi sul presupposto che sicuramente la gente, di qualsiasi risma o provenienza, non capirebbe, non apprezzerebbe, deluderebbe me e pure il libro se esso avesse (come io talvolta sospetto) capacità di sentimento. Ma Shalimar the Clown, come buona parte dei libri di Salman Rushdie (in Italia è stato più che ragionevolmente tradotto Shalimar il Clown da Mondadori), ha un carattere di universalità che rende possibile, praticabile, auspicabile perfino il prestito. Perciò ho fretta, prima di cambiare idea.
Non solo non presto libri quasi mai, ma ho in odio la sottolineatura. Mi ricorda la gente che studia sul serio, e la vita è tropo corta su questa misera terra per studiare sul serio; studieremo in Paradiso, se la gloria del Signore ci annoierà, oppure all’Inferno, se scopriremo come sospetto che le donne bellissime in una maniera o nell’altra si salvano. Studieremo in Purgatorio, eventualmente, qualora venissimo informati che verremo sottoposti a un esame di abilitazione celeste (Dante, Paradiso XXIV, 52-53: “Di’, buon Cristiano, fatti manifesto: / fede che è?”); fin quando siamo su quello che Beckett chiamava l’escremento sublunare limitiamoci a leggiucchiare, e non sottolineiamo affatto. Proprio proprio, quando troviamo la parola tramortente, il pensiero sconvolgente, il climax travolgente possiamo – come faccio io con estremo pudore – azzardare un’orecchia al bordo della pagina corrispettiva. Si tratta di una soluzione estrema che va presa solo in caso di estrema necessità, ossia quando si sa che lasciar scorrere un discorso, una frase o una parola sarebbe una perdita irrimediabile. Leggendo Shalimar the Clown ho fatto sei orecchie, il triplo di quante io stesso non ne abbia, già soltanto nella prima parte, che dura quarantuno pagine dell’edizione inglese. Poi molte altre, fino a pagina trecentonovantotto.
L’amica anglocanadese che fra un ora e tre quarti mi aspetta per il caffè spera di parlarmi della sua recente gita a Firenze ma non sa che verrà sommersa da mie reiterate esclamazioni per ogni orecchia del libro che le sto a sua insaputa (e probabilmente contro il suo volere) prestando. Per evitare di perdere l’unica amica che ho a Oxford (sono quello che gli inglesi definirebbero subtle tactician) sarà bene che mi organizzi cercando, se non di selezionare, quanto meno di sistematizzare le orecchie, e di lì organizzare il discorso.
Prima di ogni altra cosa, però, dovrei portarla da Caffè Nero che è il posto più buio del mondo, con delle comodissime ed enormi poltrone che ti lasciano sprofondare nell’oblio di ogni ubbia e con il sottofondo incrociato di musica a un volume leggermente più alto di quello che servirebbe a un sottofondo e il vociare indistinto dei clienti frammezzo al quale si distingue il vociare specifico degli italiani, il cui riconoscimento linguistico viene preceduto dalla consapevolezza che quando chiacchierano gridano come ossessi. A quel punto, dovrei chiederle se ritiene possibile leggere in tale barocco puttanaio qualcosa di più sofisticato della terza pagina del Sun, generalmente composta da una donna nuda e il suo nome (il nome della donna nuda, non della mia amica). Risponderebbe con ogni verosimiglianza di no; ma è un errore, poiché soltanto dopo aver finito di leggere d’un fiato le quarantuno prime pagine (con annesse sei procurate orecchie) di Shalimar the Clown mi sono accorto di star leggendo in pieno Caffè Nero. La musica c’era. Gli italiani c’erano. Però la prosa di Salman Rushdie, la prosa originale intendo (ma scrive talmente bene che anche i suoi traduttori, volessero pure, non riuscirebbero a rovinarla) ha il timbro ipnotico di un girotondo che ti incolla nel suo bel mezzo, così che tu giri e guardi e non vedi altro che il girotondo stesso - e quando smetti ti gira la testa e vomiti sulle tazzine degli italiani seduti al tavolo di fianco.
Manca un’ora e mezza, devo affrettarmi. Potrei sussumere le orecchie sotto varie etichette significative, ad esempio: le citazioni. Se Salman Rushdie fosse un bravo scrittore infilerebbe le citazioni fra virgolette, o in corsivo, o nel discorso di un personaggio particolarmente colto, o all’esergo di ogni capitolo; ma Salman Rushdie sta a un bravo scrittore come Nicole Kidman sta a una bella ragazza e le citazioni compaiono quando e dove meno ce le si aspetta, camuffate, mimetizzate nel ritmo del testo e silenziosamente speranzose di farsi riconoscere. Shakespeariane a pagina 15 (traduco pro domo mea: “era il fantasma di suo padre”); joyciane a pagina 238 (“La neve continuava a cadere, a cadere pesante, su tutti i vivi e i morti”); bibliche a pagina 380 (“ti schiaccerò col calcagno”). A che servono queste citazioni?, mi chiederà la mia amica per fare conversazione. Non a far mostra della cultura dell’autore, non a far sentire ignorante il lettore, ma a rendere la storia specifica - un ex ambasciatore americano in India viene assassinato dal suo autista – una parte del tutto, di più, una serratura sbirciando nella quale è possibile vedere il taglio universale del mondo intero, della storia, della letteratura.
A quest’uopo cade perfetta l’orecchia di pagina 24: “Gorbaciov sembrava Mosè, pensò, il profeta incapace di entrare nella terra promessa”. In una riga c’è tutto: la tragedia del singolo; il parallelo asimmetrico con la Bibbia; un giudizio politico implicito (Gorbaciov stava cercando di rendere terra promessa la terra dove già viveva) con annesso slittamento spaziotemporale (non più di geografia si tratta, ma di storia); l’ironia di Salman Rushdie nel mischiare l’alto e il basso, il consueto e il difforme (come quando ne I Versi Satanici genialmente s’inventò la dea del cinema indiano, Grace Khali). Poi c’è l’inciso pensò che attacca la retta Gorbaciov, che procede per fatti suoi, alla circonferenza chiusa in sé stessa della storia privata della figlia dell’ambasciatore, la quale lo vede in tv e pensa.
Un’ora e un quarto: ce la farò? La trama di Shalimar the Clown, in disgraziata mano altrui, avrebbe potuto diventare romanzo d’azione, romanzo rosa, romanzo storico, romanzo di maniera. Rushdie mette tutto insieme; e soprattutto crea un caledioscopio di situazioni tale che il lettore venga portato per mano in mondi paralleli e diversissimi che, a ben guardare, nascondono un fondo comune. C’è l’India, ovviamente, ma c’è l’America dove vive la figlia dell’ambasciatore, c’è l’Europa in fiamme dell’infanzia di quest’ultimo. Il suo discorso anzi sulla storia dell’originaria Alsazia (orecchia gigantesca a pagina 138) è un capolavoro di prosa ritmata, è un florilegio di storia reinterpretata, è un occhiello di retorica su una giacca elegantissima. E non solo è istruttiva, ma vive anche del parallelismo col destino dell’India (“...proprio perché veniva dall’Alsazia sperava di essere capace di capire l’India almeno un poco, stante che la parte del mondo dove era cresciuto era parimenti stata definita e ridefinita nei secoli da frontiere cangianti, subbugli e slogature, decolli e ritorni, conquiste e riconquiste...”) che a sua volta assume un senso quando si fronteggiano i destini inconciliabili dell’ambasciatore e del suo autista, Shalimar il clown, che affondano il proprio passato nella lotta per la resistenza, e che come per gli animali (stavo per dire, come nei combattimenti di cervi che la tv inglese ieri ha trasmesso in prima serata, facendomi quasi rimpiangere Panariello) prevedono un solo sopravvissuto ma in cui, a differenza degli animali, non sempre il sopravvissuto coincide col vincitore. Persone e luoghi, piuttosto, sembrano coincidere ed essere le une lo specchio degli altri. Quando l’ambasciatore parla con la sua amante, lei gli racconta di suo marito chiamandolo Kashmir, e ne loda (orecchia a pagina 197) “le montagne, le valli, i giardini, lo scorrere dei ruscelli, i fiori, i cervi, i pesci” – tutta roba di cui con un po’ di esercizio si può trovare rispondenza nel corpo di uno sposo giovane e ben messo.
Salman Rushdie è uno scrittore talmente autoconsapevole non solo da essere in grado di partecipare alle riprese di Bridget Jones senza sentirsi né onorato né sminuito (a dire il vero nella stessa scena compare anche lord Archer, che in seguito venne incarcerato, ma non per la sua recitazione; ecco, diciamo che lord Archer sta a un bravo scrittore come Renée Zellweger sta a una bella ragazza) – dicevo prima di distrarmi (e sono già le quattro), è uno scrittore talmente autoconsapevole da sapere con estrema padronanza che un romanzo è un libro che è composto di parole che si servono di una lingua. La lingua che Rushdie usa, l’inglese, è la lingua del colonizzatore. La maniera in cui la usa non è la maniera del colonizzato; piuttosto quella del geografo, dell’uomo capace con un solo sguardo di racchiudere un’intera nazione entro i suoi confini politici ed entro i propri confini percettivi. Quando Shalimar il Clown arriva in America, l’orecchia a pagina 11 ci informa che “il suo inglese era meramente funzionale. Probabilmente non avrebbe capito queste stesse parole, meramente funzionale”. Mirabile esempio di scrittura che racconta e che guarda sé stessa al contempo, il vagabondo testo di Rushdie si rivela già a pagina 9 (orecchia nell’angolo basso), quando la vicina russa della figlia dell’ambasciatore dichiara nel suo inglese stentato che rendo piano: “Non vivo oggi né in questo mondo né nello scorso, né nell’America né in Astrakan. (...) Una donna come me vive in qualche posto nel mezzo. Fra i ricordi e le faccende quotidiane.” In due righe Rushdie traccia il diagramma cartesiano storico e geografico, il principium individuationis spaziotemporale, e al contempo lo rigetta, lo supera e rifiuta – visto che stiamo già usando il latino – di trovarvi un ubi consistam.
Dov’è Rushdie, dove si colloca il suo romanzo, qual è la lingua di Shalimar the Clown? È la stessa, potenzialmente incomprensibile e anonima, adombrata nella lite a pagina 205 fra l’ambasciatore e la sua amante indiana, quando “l’inglese di lei era migliorato e lui aveva imparato anche la sua lingua. Nei momenti di maggior vicinanza, talvolta, avevano dimenticato in che lingua parlassero; le loro due lingue fuse in una sola”. L’ambivalenza fra language e tongue, la mistura delle parole e la fusione del bacio, danno la dimensione amorosa della leggera ma continua, piacevole violenza che Rushdie esercita sull’inglese, invadendolo e colonizzandolo, piegandolo ai propri bisogni, sottoponendolo ai propri desideri, cavalcandolo come sa fare solo un vero scrittore – senza lasciare mai che si ribelli, che si spezzi, che lo disarcioni. Scrivendo rende il linguaggio un abito su misura; altrimenti si sarebbe limitato a battere sulla tastiera.
Che ora è? Mancano quarantacinque minuti. Quasi quasi tolgo le orecchie, raddrizzo le pagine, rivergino il libro.
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