L’altra mattina mi sono svegliato molto riposato, ma proprio estremamente riposato, tanto da stupirmi io medesimo per essermi svegliato così beatamente riposato prima ancora del trillo della sveglia, fissato per le sette e mezza; salvo poi accorgermi che erano le nove meno venti e che la sveglia in questione giaceva sul pavimento, squacquerata come un orologio di Dalì, dove l’avevo plausibilmente gettata dormendo ancora nell’impeto di un’inaudita violenza sonnambulistica.
Poi mi si è staccato il portachiavi dal resto delle chiavi che sarebbe stato suo etimologico dovere portare e supportare, quindi ho trascorso mezza mattinata a ripararlo; rimandando indefinitamente il momento del bucato, arrivato il quale la lavatrice, una Rex Avanti rimasta piuttosto indietro, mi ha rinfacciato l’indiscreta apertura del portellone pisciandomi acqua rancida sulle pantofole. Me la sarei tenuta, non fossi poi dovuto correre in bagno a far pipì a seguito delle forti emozioni provate, rilevando il mancato funzionamento dello sciacquone nonostante che io seguitassi forsennatamente a premere il pulsante dello scarico: ciò che mi costringe da un bel pezzo, nell’attesa del salutare manutentore, a curiose acrobazie idrauliche con secchi.
Di fronte a questa rivolta degli oggetti mi sono sentito impotente; di fronte all’ammutinamento congiunto e senza motivo apparente di tutto ciò che mi circonda e risulta destinato a servirmi, di tutte le cose inanimate che da me traggono vita, ragion d’essere e senso teleologico – mentre senza di me non sarebbero che nuda materia, e zitta, e ferma – per la prima volta nella mia vita ho capito come deve sentirsi di giorno in giorno Romano Prodi.
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