[Gurrado è stanco, sfatto, sfinito: con l'offensiva finale di quattro articoletti per il suo blog ha fatto cadere il Governo. Come potete pretendere che vi intrattenga, e scriva fregnacce su quando faceva il Liceo e c’era già un Governo Prodi – come se non fosse bastato, peraltro? Pertanto oggi Gurrado resta silente, tutto preso nei suoi crucci politici, e lascia che Silvia G racconti senza disturbo alcuno, né fisico né psicologico. D’altra parte Gurrado non ha avuto l’onore di veder cadere Prodi, secondo l’abitudine, ai beati tempi del Liceo, ma alla fine della sua prima settimana da universitario; gioia che invece Silvia G ha provato da liceale, guadagnandosi gloria sempiterna nell’atto di aprire il giro di consultazioni private col suo perspicuo parere racchiuso in un messaggino rimato e ritmato: Giro giro tondo, casca il mondo, casca il Governo, d’altronde nulla è eterno. Nemmeno io, temo.]
Gurrado, il liceo Voltaire è un luogo in cui è facile entrare, ma da cui è difficile uscire; non solo in riferimento alle avversità che il corso di studi classici presenta, e alle conseguenti difficoltà che si incontrano nel tentativo di portarlo a termine, superando l’Esame di Stato e lasciando per sempre le scuole superiori. Tuttavia, la frase può anche essere interpretata alla lettera: una volta varcati i cancelli del liceo Voltaire, l’impresa di uscirne prima del suono dell’ultima campanella si rivela sempre alquanto problematica. Nonostante tutti gli studenti vengano forniti all’inizio dell’anno di un apposito libretto personale, contenente decine di permessi di entrata e uscita fuori orario, la burocrazia interna regna sovrana e dissuade chiunque dal proposito di utilizzarli, se non in caso di estrema necessità.
Capitò un giorno che la sottoscritta Silvia G, dovendosi recare dal dentista (giustificazione classica, ed essendo io iscritta ad un liceo classico, accettabilissima), decidesse di compilare arditamente uno dei suoi permessi di uscita fuori orario, e di lasciare quindi l’edificio scolastico prima della fine delle lezioni. Poiché la visita era fissata per le undici, consapevole che lo studio dentistico distava dalla scuola poco più di un chilometro, fissai l’orario di uscita per le dieci e trentacinque, cioè all’inizio della ricreazione. Consegnato che ebbi il mio permesso in segreteria per farlo firmare dal sommo dirigente scolastico, mi fu comunicato appena due ore dopo che quest’ultimo si era assentato per cause ignote, e che la vicepreside era misteriosamente sparita con lui, creando gran scompiglio tra i corridoi (e soprattutto turbando non poco il professor Barocchi, marito della stessa vicepreside, che da anni paventava una relazione adultera tra la moglie e il superiore). Non mi rimaneva quindi che cercare per le classi del liceo il vice-vicepreside professor Rulli, persona alquanto irritabile, che detestava l’idea di essere interrotto nel bel mezzo di una lezione. Attesi dunque che la campanella della ricreazione suonasse e che la lezione finisse per presentarmi al suo cospetto; l’omone, gigantesco e burbero, firmò il permesso d’uscita con studiata lentezza, non mancando di commentare sarcasticamente la banalità della mia giustificazione.
Ottenuta che ebbi la sospirata firma, tornai in classe, prelevai il mio zaino, mi misi la giacca e feci per uscire. Un pensiero improvviso, tuttavia, mi sovvenne: il permesso doveva essere controfirmato dall’insegnante di quell’ora, o la bidella non mi avrebbe mai concesso di varcare il portone. Era però suonata la campanella della ricreazione, ragion per cui nessun mio insegnante, per almeno un quarto d’ora, si sarebbe presentato in classe e avrebbe posto la sua firma sul foglietto verde. Non mi restava che immergermi nell’orda disordinata di studenti che sempre affolla i corridoi durante l’intervallo e cercare la professoressa Pedro. Quest’ultima però, raffinata buongustaia grande amante del caffè e della cioccolata calda, mal sopportando l’idea di adattarsi allo squallore delle macchinette automatiche, aveva lasciato l’edificio scolastico per concedersi una pausa caffè nel bar lì vicino, impedendomi così di raggiungerla. Decisi dunque di esporre il mio dramma alla bidella di turno, la quale non macò di ricordarmi che, senza un permesso firmato dal docente, non mi sarei potuta allontanare dall’edificio per nessuna ragione. Le feci notare che, per coprire il tratto di strada che mi separava dalla docente in questione, avrei dovuto far uso di un nuovo permesso di uscita e ripetere dunque tutte le operazioni. Rise, e seguitò a spazzar per terra.
Si erano fatte le dieci e cinquantacinque, e della professoressa Pedro, nessuna traccia. Testimoni affermarono successivamente di averla intravista mentre chiacchierava col barista sudamericano del caffè vicino alla scuola (il quale le offriva di continuo nuovi tipi di cioccolata calda aromatizzata, che lei puntualmente accettava), del tutto dimentica dei suoi doveri di insegnante. Indispettita dal fatto che proprio quel giorno la mia professoressa di fisica avesse deciso di battere la fiacca, quando in una qualsiasi altra mattinata la cosa non mi avrebbe causato nessun disturbo, andai a cercare l’Allori, insegnante di storia dell’arte, che aveva tenuto la lezione precedente all’intervallo. La segreteria mi informò che anch’essa aveva lasciato l’edificio, poiché il suo turno si era concluso con la terza ora. Uno strano sentimento di stizza cominciò dunque a impadronirsi della mia persona.
Era nel frattempo tornato il preside, accompagnato, come di consueto, dalla fidata vice. L’orologio segnava ormai le undici e mezza, e il mio appuntamento era inevitabilmente stato prorogato; non intendevo tuttavia demordere. Bussai alla porta dell’ufficio del sommo dirigente, brandendo il foglietto verde e richiedendo formalmente il suo permesso di lasciare l’istituto. Egli mi studiò da capo a piedi con fare sospettoso, certo che il mio proposito di uscire in anticipo fosse animato dalle peggiori intenzioni, e chiese di vedere la firma dei miei genitori sul permesso. Risposi dunque che, essendo maggiorenne, la firma non era necessaria. Replicò che in quanto membro della Terzaddì, non poteva fidarsi della mia parola, poiché la sezione non godeva certo di una buona fama. Fui costretta a dettargli il numero dell’ufficio di mia madre, la quale, come la professoressa Pedro, era in pausa caffè e aveva staccato l’apparecchio. Cercammo dunque di rintracciare mio padre; quest’ultimo, oberato di lavoro, non solo si disse ignaro del mio appuntamento col dentista, ma rispose anche malamente al sommo dirigente, il quale decise all’improvviso di fidarsi della mia parola, e di aprirmi le porte del Voltaire.
Erano le dodici e diciannove di un martedì mattina; undici minuti dopo, sarebbe suonata l’ultima campanella, che indicava la fine delle lez [Nota di Silvia G, stante la latenza di Gurrado: su questo punto della pagina è caduto il Governo, per cui il manoscritto termina qui]
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