giovedì 8 dicembre 2011

E io avevo vivamente confidato, mentre Berlusconi annunziava quest'estate la terza o quarta manovra correttiva col cuore che gli grondava sangue, nell'abolizione ultima e definitiva di ogni ponte così che il mio compleanno non finisse stritolato nell'abbraccio mortale fra il giovedì dell'Immacolata e il sabato della settimana corta; avevo auspicato un normale compleanno lavorativo, scandito dai doveri d'ufficio e in qualche modo salvato dalle distrazioni della scrivania obbligatoria poiché le feste in generale mi rattristano, ogni compleanno che passa mi angoscia sempre più manco fossi una diva Lancome, e l'evenienza che il mo compleanno cada all'inizio del piano inclinato che conduce alle feste mi renderebbe compagnia francamente infrequentabile se non provvedessi io stesso non dico a isolarmi, per carità (l'adolescenza è finita da un pezzo) ma quanto meno a evitare ogni contatto ulteriore allo stretto necessario, di modo tale da non dover sentirmi ripetere ognora da ignari: "Gurra', ma che hai? Oggi sei incagabile".

Avevo tuttavia sbagliato i miei conti a priori e non solo perché il decreto antiponte della sanguinolenta manovra di Berlusconi si è perduto nei meandri della sesta o settima manovra correttiva altrui, ancor più sanguinolenta nonché lacrimosa; m'ingannavo soprattutto perché avevo dimenticato che il 9 a Pavia è il giorno del patrono san Siro che lo rende automaticamente festivo nonostante che fra una manovra e l'altra mi era parso di sentire che avrebbero abolito anche le festività patronali accorpandole alla domenica (di sicuro non le hanno abolite a Gravina dove ci si è concessi tre giorni di festa in onore di San Michele, dopo di che l'amministrazione comunale è stata commissariata per manifesta incapacità). Invece niente: festa l'8, festa il 9 e tutto ciò mi riconduce al mio primo compleanno pavese, il diciottesimo peraltro, quando ero ancora fresco di arrivo qui e mi ero ritrovato a festeggiare la raggiunta maggiore età con un party a sorpresa - organizzato ovviamente non da me, sarò anche un po' nevrotico ma qui si tratterebbe di schizofrenia - pieno di giovanotti pressoché sconosciuti, se non fosse stato per la contingente adiacenza spaziotemporale accademica, che non avevo mai visto prima e non avrei mai più visto poi, e sebbene non si possa insinuare che ciò sia un male è senz'altro una tristezza senza pari.

Pazienza, è la dura vita dell'emigrante d'ingegno e da mo me ne sono fatta una ragione. Fatto sta che ho smesso di lavorare sei ore fa e, sit venia verbo, questo ponte non abolito mi ha già cacato il cazzo quando mancano tre giorni e mezzo prima di poter tornare ad avere un ruolo e un senso in ufficio invece che star qui, come domani, a guardare la cassettiera e/o la radio a transistor (che appena alzo il volume si mette a gracchiare orrendamente, è made in chissà dove) mentre mi faccio forza per non elencare a memoria chi chiama e chi non chiama, chi si ricorda e chi non si ricorda, chi da quest'anno non mi fa più gli auguri e chi invece inizia a farmeli senza prima esplicitare eventuali secondi fini (non si può mai dire, la vita è breve et pleine d'anicroches.

Dice: ma se il ponte è iniziato stamattina non avresti dovuto avere smesso di lavorare venticinque ore fa e non già sei? Ben trovato; ma giunto che sono a un'età in cui la data di nascita non si nasconde ancora ma il compleanno non si festeggia più (meglio gli onomastici; meglio l'assunzione collettiva, anonima perché omonima, di tutti gli Antonio alle porte della luminosa estate nell'ancor più luminosa gloria del Santo) ho ritenuto opportuno accettare con gioia la commissione di un articolo da consegnare improrogabilmente entro stasera, festa o non festa; poi, siccome appunto sono nevrotico, prima ho chiesto di prorogare la consegna al mezzogiorno di domani e poi l'ho consegnato allo scoccare del mezzogiorno d'oggi. Dico che ho accettato con gioia, anzi quasi con entusiasmo (alé), perché si trattava alfine di un pezzo umoristico, anzi satirico, come non ne facevo da tempo; e nonostante un po' di ruggine iniziale sono stato lieto di agnoscere veteris vestigia flammae, come diceva il poeta, di incamminarmi nuovamente sulla strada che quand'ero adolescente mi portava a chinarmi sulla prima superficie piana a mia disposizione per scrivere prosette in cui dileggiavo baroccamente chi mi stava attorno, alternando saggiamente l'iperbole all'anticlimax; oppure che quand'ero universitario mi spingeva a intingere la penna nel risentimento traendone rime nella gran parte dei casi di scintillante sconcezza, sinceramente velenose, immancabilmente perfide nell'inchiodare chi conoscevo bene a ciò che magari sapevo solo io e chi non conoscevo affatto a ciò che riuscivo a intuire da una qualche mossa azzardata mentre credeva che nessuno vedesse.

Ora, il punto non è che più mi piace essere umoristico più riesco a sembrare umoristico mentre sono bilioso, né che più faccio ridere chi mi legge più in realtà sono solo e curvo sul mio quadernetto a organizzare un vasto atto di anarchia onanistica che lasci dietro di sé una scia d'inchiostro in cui ogni risata, ogni sorriso, ogni ghigno strappato a chi mi legge è in realtà un colpo d'ascia contro il compleanno, zac, il ponte, zac, la dura vita dell'emigrante d'ingegno, zac, insomma contro tutto ciò che mi circonda e non sopporto, così che quando il pezzo satirico viene pubblicato tutti (tutti quei pochi che lo leggono, s'intende) iniziano a spellarsi le mani per quanto sono brillante e quanto faccio ridere e quanto dev'essere divertente vivere con me, e di conseguenza io che a stento accetto la fedele compagnia del televisore mi irrito per la loro ingenuità e divento ancora più incagabile, non bastassero già il compleanno e le feste e la perniciosa combinazione fra i due.

Io dunque mi annoio così tanto durante i ponti che, di gran lunga stufo perfino di giocare col consueto adombramento genetliaco, stavolta ho iniziato ad annoiarmi già prima che il ponte iniziasse davvero, già mentre scrivevo detto articolo satirico e conservavo un'espressione perfettamente seria mentre imaginavo quante risate si sarebbero fatte i lettori immaginando quante risate secondo loro mi sarei fatto io scrivendolo; e mi annoiavo talmente che, di punto in bianco, ho cancellato tutto quello che avevo faticosamente scritto e ho deciso di ricominciare il tutto strutturandolo sulla base di un'implicita citazione da Dickens, implicita quanto si vuole visto che non ne facevo il nome ma in realtà abbastanza esplicita nella forma da far capire al lettore più analfabeta che dev'esserci qualcosa sotto (e per fortuna anche dalla redazione alla quale è toccata l'anteprima mi è stato confermato che si capiva, altrimenti c'era il rischio che cancellassi ancora tutto e ricominciassi in maniera più cristiana perché a furia di scrivere cose che nessuno capisce si finisce per non venire più pagati o, se la va, per diventare un autore di filosofia contemporanea), se non che poi la struttura della citazione implicita mi è parsa fin troppo esplicita e allora ho deciso di inserire nell'articolo una colta zeppa o meglio tre o quattro ammicchi ad Arbasino, oscuri a sufficienza da non consentire nemmeno a me di stabilire con certezza se fossero tre oppure quattro, e che sicuramente non verranno mai colti da nessun lettore e probabilmente nemmeno da Arbasino, più probabilmente ancora perché Arbasino non lo leggerà nemmeno questo famigerato pezzo satirico che mi ha salvato la mattinata, uno mica può leggere tutto (l'ho imparato perfino io sulla mia stessa pelle): così che alla fine mi sono visto costretto, per fronteggiare l'ansia montante da vigilia autoreferenziale, a scrivere quest'altro pezzo anzi metapezzo a mio uso e consumo, cantandomi e sentendomi la litania degli invisibili ammicchi ad Arbasino incastonati nella citazione implicita ad Dickens; un pezzo che se niente niente fossi nato americano mi avrebbe visto salutato come minimo quale vero erede di David Foster Wallace (ogni tanto ne nasce uno) e per il quale invece non mi saluterà nessuno, tutt'al più mi saluterò da solo, in quanto morirà sulle sterili pagine virtuali di questo mio blog, testata dalla quale non mi dissocio mai abbastanza, testata sulla quale ho da mesi ritenuto giunta l'ora di proibire ogni sorta di commento perché, cazzarola, o si trattava di critiche preconcette e ottuse espresse con sintassi incerta, e quindi erano inutili, o si trattava di complimenti in cui mi si incitava al grido di "Gurra', si' 'nu ggenie", e quindi erano altrettanto inutili se non dannosi, perché posso anche accettare l'idea della disgrazia di essere un genio (non si può mai dire), è solo che alla lunga non mi comprendo proprio.