domenica 20 novembre 2011


Novembre, andiamo. È tempo di occupare. O, meglio, di okkupare con la k, secondo la grafia che sui dazebao viene riprodotta pari pari dai tempi di Cossiga e che dal segnare un elemento di aggressiva rottura col passato è diventata il precipitato stantio della più rassicurante adesione a una tradizione reiterata e immutabile contro ogni progresso. Novembre: non si capisce perché, ma ogni anno la sommossa studentesca casca nello stesso mese, alle prime brume, quando il freddo si fa pungente e l’asserragliarsi fuori orario in un’aula si ammanta dello stesso torpore del rintanarsi in un grembo materno, al riparo dagli elementi e da ogni contrarietà. Mai come quest’anno però il tempismo è infelice. Dodici mesi fa Berlusconi era il nemico di abbattere che giustificava ogni nefandezza, ma quest’anno la festa a base di monetine e champagne è appena stata consumata. Allora imperversava l’iconografia di una Gelmini arcigna nella sua beata ignoranza, mentre oggi non si può riempire in fretta e furia i cartelloni di caricature di Francesco Profumo, sempre ammesso che si riesca a distinguerlo da Ornaghi, Balduzzi o Terzi di Sant’Agata. Nel 2010 il governo stava per cadere (si avvicinava il fatidico 14 dicembre) e a colpi di cortei si poteva rintuzzare una volta per tutte la riforma universitaria di là dal fossato della crisi istituzionale; oggi il governo s’è appena insediato e, con tutte le possibili cattive intenzioni, non ha ancora avuto il tempo materiale di attuarne mezza. Nulla rende lampante il pessimo tempismo di quest’anno più dell’inattualità di terminologia e simbologia. Nel 2008 la marea montante di studenti in piazza aveva imposto l’immagine impressionistica dell’Onda anomala; l’anno scorso la protesta contro i tagli era emigrata sui tetti costringendo Bersani all’atto più memorabile della sua segreteria, l’ascesa su scala a pioli con sigaro fra i denti. Quest’anno, col vizio di aspettare i comodi dell’anno accademico, gli studenti si sono ridotti a utilizzare materiali di risulta imbastendo una protesta a babbo morto. A Pavia, che eleggo a campione per mere ragioni logistiche, lo slogan della protesta è #OccupyPavia, variante in salsa locale delle proteste dello Zuccotti Park e della St Paul’s Cathedral: sebbene arricchita dall’ashtag iniziale che fa tanto protesta globale e primavera techno-cool, rimastica uno slogan estraneo e già trito, peraltro nel momento in cui altrove gli occupanti iniziano a sgomberare. Una protesta che fa il verso a una protesta altrui si riduce a ballo in maschera e festa a tema: infatti prima del corteo “contro debito e austerità” (che è come dire contro botti piene e mogli ubriache) ci si scalda tutti con un bell’Occupy Party: dj, nientemeno, Beppe Rebel. E d’altronde a Pavia cosa vuoi occupare? La stazione dei treni? Ma dopo le venti la zona si desertifica e nessuno si accorgerebbe di un bivacco. Il cortile principale dell’Università? C’è già installato un dinosauro in scala 1:1 per propagandare una mostra a tema preistorico, non è che due tende farebbero più impressione. La centralissima Piazza Vittoria? Il suolo è tutto acciottolato e dormirci dev’essere scomodissimo. Così, mentre le lezioni vanno avanti regolarmente, i tetti restano sgombri e le strade sono presidiate soltanto da un nebbione d’antan, alla fine l’occupazione ha dovuto rifugiarsi nell’Aula Magna sotterranea, un bunker al neon intermittente simbolo perfetto di una protesta che c’è ma non si vede.