(Gurrado per Books Brothers)
Libri letti (13): Don Giovanni, di Molière; Sfere I: Bolle, di Peter Sloterdijk; Il mistero della cripta stregata, di Edoardo Mendoza; Manifesti Futuristi, a cura di Guido Davico Bonino; Gli Anni, di Virginia Woolf; Storia dell’Irlanda, di Robert Kee, L’incanto del lotto 49, di Thomas Pynchon; La decadenza della menzogna e altri saggi, di Oscar Wilde; Lucina, di Luigi Magni; Gli uccelli e altri racconti, di Daphne Du Maurier; La solitudine dei numeri primi, di Paolo Giordano; La destra nuova, a cura di Alessandro Campi e Angelo Mellone; Falling Palace, di Dan Hofstadter.
Libri acquistati (5): L’incanto del lotto 49, di Thomas Pynchon; Gli uccelli e altri racconti, di Daphne Du Maurier; The Rachel Papers, di Martin Amis; Tremor of Intent, di Anthony Burgess; Nothing like the Sun, di Anthony Burgess.
Bisognerebbe considerare il libro anzitutto come oggetto da viaggio. Preso singolarmente è decisamente portatile, a meno che non si tratti della Ricerca del tempo perduto o del De Felice o peggio ancora dell’Encyclopaedia Britannica, sempre ammesso che portarsela appresso serva a qualcosa. Quando invece si affronta un trasloco complessivo, ogni singolo libro si carica di un peso che a prima vista non aveva: questo, credo, perché è difficile se non impossibile considerare i libri uno a uno. Ogni libro esiste –nella realtà effettiva come nella mente del lettore – in relazione ai potenzialmente infiniti libri che l’hanno preceduto o seguito e comunque lo circondano. Nessun libro è un’isola. Dovendo cambiare casa, la scelta più semplice e meno dolorosa è quella fattivamente più complicata: ossia li si imballa nessuno escluso e li si porta di peso dall’indirizzo A all’indirizzo B, che sia l’emisfero opposto o la porta accanto.
Si creano in queste circostanze delle adiacenze anzi degli apparentamenti che, temporanei quantunque, Pirandello definirebbe speciosissimi. Ogni volta che ho dovuto imballare, ahimé più spesso di quanto non gradissi, un individuo incrollabilmente positivista come mio padre avrebbe preteso che impacchettassi i miei libri secondo l’unico criterio ragionevole, ovverosia la dimensione del volume. Venivano così passati in cavalleria metodi forse risibili, magari più estetici e sicuramente più graditi dai libri stessi, lo garantisco, quali l’associazione per genere (secondo l’esempio di Renato Pozzetto ne La casa stregata: “Tutte le puttane da una parte, tutti i froci dall’altra”), oppure per autore (vivaddio, come faccio a mettere nello stesso pacco Voltaire e Antonio Rezza? Cosa farà Giuseppe Genna a Jane Austen?), oppure ancora per editore – versione rigorosa del più volubile criterio di impacchettare secondo la gradazione del colore delle copertine, i gialli coi verdi e mai coi viola, gli azzurri coi grigi e mai con gli arancio.
Senza considerare che più un libro è particolare e viene concepito dagli editori come unico nel suo genere, più le sue dimensioni spiccano per l’impossibilità di uniformarsi a quelle altrui. Si tratta del volume-albatro: quando lo si vede in libreria è una bellezza, quando lo si deve infilare in un pacco è una tragedia. Per esempio, nelle loro seppur minime differenze tutti i romanzi tascabili che mi vengono in mente ora – gli Einaudi e i Bompiani e i Mondadori e i Rizzoli – rientrano nei margini di una perimetrazione assimilabile, e con qualche accorgimento di buon senso possono venire mirabilmente sistemati senza la minima sporgenza, dando anzi un’impressione di impenetrabile compattezza che fa sorgere un’imprevista fiducia nell’unitarietà del sistema editoriale italiano, come il pacchetto di mischia di una squadra di rugby.
Ma, signori, l’Almanacco del Ciclismo? Come lo accoppio l’Almanacco del Ciclismo? Spesso, oblungo, patinato, sembra una rivista con una malformazione congenita, la librite, che l’abbia fatta venir fuori con una rilegatura di cinquecento pagine. È l’incrocio fra un volpino e un sanbernardo. Dove lo trovo un, uno almeno, altro libro della stessa dimensione o conformazione? Allora prendo a fare esperimenti e a provare a sistemare due libri per il lungo – ma niente, finisce sempre che entrambi, o peggio ancora uno solo dei due, ecceda da un versante o dall’altro creando degli spuntoni potenzialmente assassini, di quelli che appena in viaggio provano un piacere irrefrenabile nel conficcarsi di taglio fra le seriche pagine di un Meridiano pagato chissà quanto. L’unica sarebbe non spedire l’Almanacco del Ciclismo e promuoverlo al ruolo di bagaglio a mano, viaggiando con l’ingombrante volume-rivista sotto braccio. Ciò torna utile solo se nel corso dell’itinerario si prevede di incontrare Davide Cassani. Avendolo firmato lui, sarebbe l’unico a non concludere che se uno viaggia con l’Almanacco del Ciclismo sotto braccio allora è autistico.
Il più delle volte, però, i trasferimenti non sono definitivi e la retta ragione sconsiglia di portarsi appresso tutti ma proprio tutti i libri che si possiedono. Allora la scelta si fa sanguinosa. Quali porto e quali no? L’idea di partenza è sempre la stessa: sto via poniamo due settimane, leggo mediamente cento pagine al giorno, mi porto tanti libri quanti ammontano a un equivalente complessivo di millecinquecento pagine. Elementare, no? Se sto via una settimana, settecento pagine. Se sto via un mese, tremila. Ma se sto via un’intera stagione?
Questo accorgimento si pregia di non considerare plausibile l’ipotesi che io possa comprare dei libri una volta giunto a destinazione. L’obiezione, terra terra ma incontestabile, suona: “E se una volta arrivato ti rendi conto che lì a Pavia, Modena, Milano tutte le librerie hanno deciso di restare chiuse per mesi e mesi? E se, in subordine, nelle librerie di Pavia e/o Modena e/o Milano non riesci a trovare nessun libro che ti piaccia? Meglio se ti porti da casa tutto il necessario.” Inoltre tale accorgimento, che mi equipara al saggio che dovendo allontanarsi per un mese si porta appresso trenta chili di pane per garantirselo sempre fresco, è a priori destinato al fallimento per via di un meccanismo che mi riesce oscuro.
Se per esempio devo star via due settimane, l’equivalente di millecinquecento pagine grossomodo, la prima cosa che faccio è prendere un libro di ottocento pagine, poniamo I Tre Moschettieri per giunta in Francese. Ne restano settecento, che completo agevolmente con tre libri, uno da duecento, uno da trecento e un terzo che dev’essere falso magro perché a prima vista sembrava di centocinquanta, massimo duecento pagine, e invece a un più attento sguardo esse si rivelano trecentoventi. La somma supera milleseicento, bisogna rifare tutto. Quale dei tre libri medi abbandonare? L’ultimo, il falso magro, non ci penso nemmeno – se l’ho scelto in extremis qualche motivo ci sarà. Ovviamente abbandono il più corto, quello da duecento, e la somma si stabilizza consolatoriamente sotto la soglia-millecinquecento.
Sotto, appunto. E se una volta lì mi annoio più del previsto e un giorno leggo, che so, centocinquanta o duecento pagine invece delle cento quotidiane? Che faccio nell’ultimo giorno che resta scoperto, il turista? Meglio riprendere il libro da duecento pagine, anzi cautelarmi prendendone uno da quattrocentocinquanta, dimensione che fa sempre compagnia. A questo punto la somma è milleottocento, duemila, ho perso il conto. Fatto sta che è tanto. E fatto sta che io leggo di solito tre libri a settimana, com’è che stavolta per due settimane me ne porto solo quattro? Colpa de I Tre Moschettieri, senz’ombra di dubbio. Ottocento pagine per un solo libro sono troppe, e per quanto il suo formato ipercompatto lo renda facile all’impacchettamento, vantaggioso per i traslochi, non è adatto al soggiorno, alla permanenza. Come dire che è un libro facile a trasportarsi ma una volta arrivato potrei non sapere che farmene – l’esatto contrario dell’Almanacco del Ciclismo. Putacaso la storia mi annoia, o Milady mi sta sullo stomaco. O che il Francese si riveli per quello che è, un incomprensibile balbettio dall’ambigua identità sessuale (diceva Voltaire che l’Italiano dice quel che vuole, il Francese dice quel che può – questo è vero soprattutto nel mio caso). Meglio leggerlo a casa, con calma. Io viaggio continuamente purtroppo, e potrete intuire che I Tre Moschettieri non l’ho letto mai.
Libri letti (13): Don Giovanni, di Molière; Sfere I: Bolle, di Peter Sloterdijk; Il mistero della cripta stregata, di Edoardo Mendoza; Manifesti Futuristi, a cura di Guido Davico Bonino; Gli Anni, di Virginia Woolf; Storia dell’Irlanda, di Robert Kee, L’incanto del lotto 49, di Thomas Pynchon; La decadenza della menzogna e altri saggi, di Oscar Wilde; Lucina, di Luigi Magni; Gli uccelli e altri racconti, di Daphne Du Maurier; La solitudine dei numeri primi, di Paolo Giordano; La destra nuova, a cura di Alessandro Campi e Angelo Mellone; Falling Palace, di Dan Hofstadter.
Libri acquistati (5): L’incanto del lotto 49, di Thomas Pynchon; Gli uccelli e altri racconti, di Daphne Du Maurier; The Rachel Papers, di Martin Amis; Tremor of Intent, di Anthony Burgess; Nothing like the Sun, di Anthony Burgess.
Si creano in queste circostanze delle adiacenze anzi degli apparentamenti che, temporanei quantunque, Pirandello definirebbe speciosissimi. Ogni volta che ho dovuto imballare, ahimé più spesso di quanto non gradissi, un individuo incrollabilmente positivista come mio padre avrebbe preteso che impacchettassi i miei libri secondo l’unico criterio ragionevole, ovverosia la dimensione del volume. Venivano così passati in cavalleria metodi forse risibili, magari più estetici e sicuramente più graditi dai libri stessi, lo garantisco, quali l’associazione per genere (secondo l’esempio di Renato Pozzetto ne La casa stregata: “Tutte le puttane da una parte, tutti i froci dall’altra”), oppure per autore (vivaddio, come faccio a mettere nello stesso pacco Voltaire e Antonio Rezza? Cosa farà Giuseppe Genna a Jane Austen?), oppure ancora per editore – versione rigorosa del più volubile criterio di impacchettare secondo la gradazione del colore delle copertine, i gialli coi verdi e mai coi viola, gli azzurri coi grigi e mai con gli arancio.
Senza considerare che più un libro è particolare e viene concepito dagli editori come unico nel suo genere, più le sue dimensioni spiccano per l’impossibilità di uniformarsi a quelle altrui. Si tratta del volume-albatro: quando lo si vede in libreria è una bellezza, quando lo si deve infilare in un pacco è una tragedia. Per esempio, nelle loro seppur minime differenze tutti i romanzi tascabili che mi vengono in mente ora – gli Einaudi e i Bompiani e i Mondadori e i Rizzoli – rientrano nei margini di una perimetrazione assimilabile, e con qualche accorgimento di buon senso possono venire mirabilmente sistemati senza la minima sporgenza, dando anzi un’impressione di impenetrabile compattezza che fa sorgere un’imprevista fiducia nell’unitarietà del sistema editoriale italiano, come il pacchetto di mischia di una squadra di rugby.
Ma, signori, l’Almanacco del Ciclismo? Come lo accoppio l’Almanacco del Ciclismo? Spesso, oblungo, patinato, sembra una rivista con una malformazione congenita, la librite, che l’abbia fatta venir fuori con una rilegatura di cinquecento pagine. È l’incrocio fra un volpino e un sanbernardo. Dove lo trovo un, uno almeno, altro libro della stessa dimensione o conformazione? Allora prendo a fare esperimenti e a provare a sistemare due libri per il lungo – ma niente, finisce sempre che entrambi, o peggio ancora uno solo dei due, ecceda da un versante o dall’altro creando degli spuntoni potenzialmente assassini, di quelli che appena in viaggio provano un piacere irrefrenabile nel conficcarsi di taglio fra le seriche pagine di un Meridiano pagato chissà quanto. L’unica sarebbe non spedire l’Almanacco del Ciclismo e promuoverlo al ruolo di bagaglio a mano, viaggiando con l’ingombrante volume-rivista sotto braccio. Ciò torna utile solo se nel corso dell’itinerario si prevede di incontrare Davide Cassani. Avendolo firmato lui, sarebbe l’unico a non concludere che se uno viaggia con l’Almanacco del Ciclismo sotto braccio allora è autistico.
Il più delle volte, però, i trasferimenti non sono definitivi e la retta ragione sconsiglia di portarsi appresso tutti ma proprio tutti i libri che si possiedono. Allora la scelta si fa sanguinosa. Quali porto e quali no? L’idea di partenza è sempre la stessa: sto via poniamo due settimane, leggo mediamente cento pagine al giorno, mi porto tanti libri quanti ammontano a un equivalente complessivo di millecinquecento pagine. Elementare, no? Se sto via una settimana, settecento pagine. Se sto via un mese, tremila. Ma se sto via un’intera stagione?
Questo accorgimento si pregia di non considerare plausibile l’ipotesi che io possa comprare dei libri una volta giunto a destinazione. L’obiezione, terra terra ma incontestabile, suona: “E se una volta arrivato ti rendi conto che lì a Pavia, Modena, Milano tutte le librerie hanno deciso di restare chiuse per mesi e mesi? E se, in subordine, nelle librerie di Pavia e/o Modena e/o Milano non riesci a trovare nessun libro che ti piaccia? Meglio se ti porti da casa tutto il necessario.” Inoltre tale accorgimento, che mi equipara al saggio che dovendo allontanarsi per un mese si porta appresso trenta chili di pane per garantirselo sempre fresco, è a priori destinato al fallimento per via di un meccanismo che mi riesce oscuro.
Se per esempio devo star via due settimane, l’equivalente di millecinquecento pagine grossomodo, la prima cosa che faccio è prendere un libro di ottocento pagine, poniamo I Tre Moschettieri per giunta in Francese. Ne restano settecento, che completo agevolmente con tre libri, uno da duecento, uno da trecento e un terzo che dev’essere falso magro perché a prima vista sembrava di centocinquanta, massimo duecento pagine, e invece a un più attento sguardo esse si rivelano trecentoventi. La somma supera milleseicento, bisogna rifare tutto. Quale dei tre libri medi abbandonare? L’ultimo, il falso magro, non ci penso nemmeno – se l’ho scelto in extremis qualche motivo ci sarà. Ovviamente abbandono il più corto, quello da duecento, e la somma si stabilizza consolatoriamente sotto la soglia-millecinquecento.
Sotto, appunto. E se una volta lì mi annoio più del previsto e un giorno leggo, che so, centocinquanta o duecento pagine invece delle cento quotidiane? Che faccio nell’ultimo giorno che resta scoperto, il turista? Meglio riprendere il libro da duecento pagine, anzi cautelarmi prendendone uno da quattrocentocinquanta, dimensione che fa sempre compagnia. A questo punto la somma è milleottocento, duemila, ho perso il conto. Fatto sta che è tanto. E fatto sta che io leggo di solito tre libri a settimana, com’è che stavolta per due settimane me ne porto solo quattro? Colpa de I Tre Moschettieri, senz’ombra di dubbio. Ottocento pagine per un solo libro sono troppe, e per quanto il suo formato ipercompatto lo renda facile all’impacchettamento, vantaggioso per i traslochi, non è adatto al soggiorno, alla permanenza. Come dire che è un libro facile a trasportarsi ma una volta arrivato potrei non sapere che farmene – l’esatto contrario dell’Almanacco del Ciclismo. Putacaso la storia mi annoia, o Milady mi sta sullo stomaco. O che il Francese si riveli per quello che è, un incomprensibile balbettio dall’ambigua identità sessuale (diceva Voltaire che l’Italiano dice quel che vuole, il Francese dice quel che può – questo è vero soprattutto nel mio caso). Meglio leggerlo a casa, con calma. Io viaggio continuamente purtroppo, e potrete intuire che I Tre Moschettieri non l’ho letto mai.
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