A prima vista questo col libro non c’entra nulla. C’entra invece se ci si concentra sull’aspetto che il titolo stesso vuol mettere in evidenza: Antonio Delfini come autore negletto, “ignoto” appunto, facilmente dimenticabile e che, come crudamente rilevato dall’Einaudi quando tentò di ripubblicarne l’opera omnia negli anni ’80, “non vende”. Autore Ignoto Presenta è un nuovo tentativo, stavolta antologico, di presentare Delfini al grande pubblico: l’operazione vive e forse un po’ risente del suo carattere complessivo ma non esaustivo, volto a presentare l’autore con una portata completa e qualche assaggino.
La portata completa è Il Ricordo della Basca, raccolta di racconti che Delfini pubblicò nel 1998 e che era stata riproposta l’ultima volta da Garzanti all’inizio degli anni ’90. Einaudi la colloca al centro del volume, dopo le prime prose incerte e prima di testi più corposi che, in una maniera o nell’altra, alla Basca si rifaranno. I dieci racconti ondeggiano fra una terza persona piuttosto compenetrata, sempre attenta ai movimenti dell’animo interiore dei protagonisti via via sulla scena, e una più riuscita prima persona che fornisce pienamente la cifra caratterizzante lo stile di Delfini. I racconti in prima persona sono forse la realizzazione più compiuta dell’atteggiamento svagato che sempre conservò la sua scrittura, come nella consapevolezza che nella vita ci fossero faccende più urgenti, o piacevoli, da sbrigare e che comunque sedersi a scrivere fosse a un certo punto necessario, qualcosa a metà fra un bisogno istintivo e un gravame fastidioso.
Il valore aggiunto di quest’edizione è la giustapposizione dei testi compiuti di Delfini a quelli incompiuti, abbozzi mai sviluppati o volutamente lasciati a metà. La scelta è stata affidata a Gianni Celati. Nel volume possiamo trovare quindi cerchi chiusi di varia dimensione: ad esempio il lungo vibrante sfogo autobiografico Il Ricordo del Ricordo (1956), nel quale Delfini ricostruisce la genesi della Basca offrendo un affresco intimo e politico al tempo stesso, nel quale magra figura ricava il suo allora amico Mario Pannunzio; come anche le cinque paginette de
Non meno affascinanti si palesano qua e là i cerchi aperti. L’ottativo Se io sapessi scrivere racconti (1936) passa velocissimamente da possibili trame a suggestioni, immagini folgoranti o progetti di riviste futuribili, per chiudersi su aforismi un po’ enigmatici e battute estemporanee che Delfini stesso così suggella: “questa è proprio stupida”. All’altro capo del volume troviamo invece
La prosa di Delfini è tenue, rarefatta. Pare talvolta di una semplicità talmente immediata che, bisogna dedurne, o le frasi gli venivano subito in mente così filanti, come su un abbecedario ideale, oppure passava i giorni a pensarle e a levigarle. E, sempre, la sua prosa pare sul punto di svanire: talvolta sparisce per davvero, come a realizzare una costante poetica dell’incompiuto che lo stesso Delfini adombra nella premessa a Racconto non finito (1957): “In un primo tempo s’intitolò Racconto triste; in seguito coll’andare degli anni, persuadendomi dell’impossibilità di continuare una cosa verso la quale non portavo più alcun interesse, ma soltanto il pregiudizio di un dovere che sapevo di non voler compiere, il titolo è stato mutato in quello definitivo di non finito.”
Vero, Delfini ha forse sprecato un enorme talento, non ci ha lasciato il grande romanzo che critica e pubblico sembrano esigere da ogni autore, ha frequentato i giri sbagliati, è stato fascista prima della dittatura, se n’è pentito dopo Matteotti, e una volta che l’antifascismo era diventato sport nazionale s’è macchiato della dichiarazione: “Gli antifascisti non esistono”. Lui stesso insomma s’è condannato al dimenticatoio, e ha iniziato a lamentarsene ancora vivo e operante, anzi già da giovane e prima ancora di scrivere ciò per cui vale la pena di ricordarlo. Tuttavia l’immagine di Delfini autore impolverato, lamentoso in vita circa il proprio destino postumo, contrasta in maniera scioccante con la vivida realtà della biblioteca che gli è intitolata, e del suo nome che corre di bocca in bocca – “vado in Delfini”, “sono in Delfini”, “ci vediamo in Delfini” – fra ragazzi appartenenti a generazioni che lui stesso non avrebbe mai immaginato di poter toccare. Forse è il destino più adatto a un autore svogliato, non avere bisogno di un libro per restare nella storia.
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