(Gurrado per Books Brothers)
Libri letti (10): Tremor of Intent, di Anthony Burgess; The Rachel Papers, di Martin Amis; L’Integrazione, di Luciano Bianciardi; Nothing like the Sun, di Anthony Burgess; Cima delle Nobildonne, di Stefano D’Arrigo; Molloy, Malone Dies, The Unnamable, di Samuel Beckett; Lettere a Nessuno, di Antonio Moresco; Fratelli d’Italia, di Alberto Arbasino; È Forse Amore, di Giuseppe Berto; L’Italiano, di Sebastiano Vassalli.
Libri acquistati (3): Molloy, Malone Dies, The Unnamable, di Samuel Beckett; Night and Day, di Virginia Woolf; Ulysses: the 1922 text, di James Joyce.
A seguito di uno scambio di persona mi è stata assegnata una fellowship all’Università di Oxford, cosa che già soltanto nella settimana corrente mi renderà difficoltoso tanto comprare il nuovo libro di Baricco, che non avrei comunque comprato manco se fossi vissuto in Italia o fossi stato il vicino di casa di Baricco, quanto guardare il Giro d’Italia che sinceramente avrei seguito molto più volentieri. Mi devo, qui, accontentare dei surrogati: sbirciare l’andamento di ogni tappa sul sito della Gazzetta, quando e se si può, nonché apprendere della pubblicazione del nuovo Baricco dalle newsletter editoriali. Mi è drammaticamente preclusa la partecipazione piena alla vita sportiva e alla vita culturale d’Italia – dove in entrambi i casi fungevo da via di mezzo fra il passante curioso e il dilettante d’ingegno. Devo abituarmi allo scoppio ritardato e a un continuo doppiaggio fuori sincrono, o con un’immagine più poetica alla contemporaneità dell’astronomo, il quale sa che quando vede una stella morirgli davanti sta assistendo a un evento accaduto, nel più rapido dei casi, un milione di anni fa.
Il fuso orario vuole l’Inghilterra un’ora indietro; dal versante editoriale ci sta invece un anno avanti, poiché ha il vantaggio di non dover quasi mai aspettare le traduzioni. Buona parte della narrativa mondiale di successo (britannica, irlandese, americana, colonica) viene prodotta nella stessa lingua che qui si ha la fortuna di parlare e quindi può venire seguita in diretta grazie all’uscita simultanea, mentre noi dobbiamo attendere necessariamente come minimo qualche mese. Esplorare lo scaffale delle novità di una libreria inglese serve a trarre auspici su cosa verrà tradotto in Italia, e in alcuni casi consente di assumere atteggiamenti di snobismo estremo una volta tornati a casa – ad esempio quando un libro anglofono, freschissimo di traduzione, sta per venire comprato da uno sconosciuto potete sempre avvicinarglivi circospetti e sussurrargli nel padiglione auricolare: “L’ho già letto, non è un gran che.”
Ma non sempre, vi assicuro, arrivare in anticipo è una cosa gradevole: non solo perché gli sconosciuti in libreria raramente gradiscono le recensioni a scatola chiusa, non solo perché, se rileggo il mio contratto, prima che io possa tornare a casa fanno in tempo a tradurre in Italiano i prossimi tre romanzi di Thomas Pynchon. Ci sono anche ragioni più profonde e forse irrazionali. Faccio un esempio pratico.
Tutte le altre volte che sono stato all’estero mi sono sempre piccato (o, come dicono qui, I made a point) di leggere libri nella lingua della nazione in cui mi trovavo. In questo mi ha molto avvantaggiato il fatto di aver trascorso complessivamente in vita mia più di un anno in Inghilterra, quattro giorni in Francia, un paio in Vaticano e nessuno in Germania o in Arabia Saudita. La lingua di solito non è un problema, perché ogni libro è un insieme coerente – almeno dovrebbe esserlo – e quindi i pezzi mancanti sono facilmente ricostruibili facendo riferimento al contesto generale oppure ricorrendo al volgare dizionario o meglio ancora fermando in strada delle passanti ubriache chiedendo se vogliono fare un salto da me a spiegarmi una parola che non capisco.
Più che la lingua ferisce la cultura. Ove si intende non già lo sfoggio di erudizione intrinseca a ogni volume che non sia la quarta autobiografia di David Beckham, ma il sistema di riferimento nel quale l’idea del libro ha prima fecondato il cervello dell’autore, s’è poi embrionizzato in appunti sparsi qua e là e ha infine preso forma canonica su un file word del suo computer risultando, dopo qualche passaggio intermedio che trascuro, pronto per la stampa e per le librerie. Ogni libro è una risposta a degli stimoli: universali, come nel caso dell’erudizione che si appoggia a dati magari ignoti ma facilmente e oggettivamente verificabili al costo di un po’ di pazienza; soggettivi, come nel caso dei riferimenti autobiografici o lirici che hanno nella loro stessa espressione la propria ragion d’essere e che tutt’al più traggono giovamento da una vaga oscurità; infine stimoli sociali, ovvero il terreno al quale ogni libro s’aggrappa per muovere i primi incerti passi e che è necessariamente condiviso soltanto con un ristretto numero di persone nello spazio e nel tempo.
Il primo libro che ho letto appena preso contatto con il mio materasso oxoniano si intitola Falling Palace ed è stato scritto da Dan Hofstadter, un americano pessimista ma non per questo meno piacione: o dovrei dire forse “fariniello”, visto che il suo romanzo era ambientato a Napoli e allenta la trama autobiografica con tutta una serie di spiegazioni su com’è Napoli e come ci si vive, per lo più superflue agli occhi del lettore italiano. Pare che quando Monicelli vedeva al cinema qualcosa di Nanni Moretti solesse dire alla sagoma del regista sullo schermo: “Lèvati, voglio vedere il film”. Nel mio caso è stato il contrario: “Leva Napoli, voglio sapere i fatti tuoi”. Per questo sono certo che il romanzo di Hofstadter non potrà mai e poi mai essere tradotto in Italia, poiché in questo caso i sistemi socio-culturali di riferimento più che coincidere stridono. Difatti una rapida ricerca mi conferma in quest’istante che Falling Palace è stato tradotto l’anno scorso col titolo Interludio Napoletano dalle Edizioni Scientifiche Italiane, 256 pagine, 16 euri.
Non per questo ritengo di sbagliarmi: né lascerò mai che un dato di fatto possa contraddire una mia ipotesi teorica. Nel caso di Hofstadter, che pure è uno scrittore abbastanza gradevole, dopo aver letto il suo libro ho ricavato la sensazione di aver perso un po’ di tempo, la stessa che si proverebbe dopo aver interrotto ogni attività per ascoltare il serrato dialogo di due tizi nello scompartimento di un treno. Se i due si sono appena conosciuti, l’orecchio del terzo è un ospite accettabile e soprattutto viene aiutato a ricostruire parallelamente la privata vicenda di ciascuno, poiché ogni interlocutore deve fornire all’altro dati reciprocamente comprensibili sulla base di un terreno che presume universalmente noto. Se i due si conoscevano già prima di salire, sentiremo parlare di tutta una serie di faccende che abbiamo direttamente esperito pure noi: il lavoro va male, e le tasse sono alte, e quello fa le corna alla moglie, e ieri a calcetto mi sono rovinato uno stinco, e appena arriviamo ti porto a cena nel ristorante di mio cognato. Origliando vediamo rapidamente costruirsi un mondo composto di elementi familiari disposti secondo criteri che ci restano estranei, perfettamente funzionante in linea di principio ma profondamente inquietante perché ne siamo esclusi.
Ecco, trasferirsi in Inghilterra significa vedere innumerevoli ristoranti senza mai sapere chi è il cognato del proprietario. Io ho trovato un metodo geniale per sopravvivere senza impazzire, ma ve lo dico la volta prossima: ora vado a chiedere alla commessa di Waterstone’s che significa sexploitation, anche se lo so già.
Libri letti (10): Tremor of Intent, di Anthony Burgess; The Rachel Papers, di Martin Amis; L’Integrazione, di Luciano Bianciardi; Nothing like the Sun, di Anthony Burgess; Cima delle Nobildonne, di Stefano D’Arrigo; Molloy, Malone Dies, The Unnamable, di Samuel Beckett; Lettere a Nessuno, di Antonio Moresco; Fratelli d’Italia, di Alberto Arbasino; È Forse Amore, di Giuseppe Berto; L’Italiano, di Sebastiano Vassalli.
Libri acquistati (3): Molloy, Malone Dies, The Unnamable, di Samuel Beckett; Night and Day, di Virginia Woolf; Ulysses: the 1922 text, di James Joyce.
Il fuso orario vuole l’Inghilterra un’ora indietro; dal versante editoriale ci sta invece un anno avanti, poiché ha il vantaggio di non dover quasi mai aspettare le traduzioni. Buona parte della narrativa mondiale di successo (britannica, irlandese, americana, colonica) viene prodotta nella stessa lingua che qui si ha la fortuna di parlare e quindi può venire seguita in diretta grazie all’uscita simultanea, mentre noi dobbiamo attendere necessariamente come minimo qualche mese. Esplorare lo scaffale delle novità di una libreria inglese serve a trarre auspici su cosa verrà tradotto in Italia, e in alcuni casi consente di assumere atteggiamenti di snobismo estremo una volta tornati a casa – ad esempio quando un libro anglofono, freschissimo di traduzione, sta per venire comprato da uno sconosciuto potete sempre avvicinarglivi circospetti e sussurrargli nel padiglione auricolare: “L’ho già letto, non è un gran che.”
Ma non sempre, vi assicuro, arrivare in anticipo è una cosa gradevole: non solo perché gli sconosciuti in libreria raramente gradiscono le recensioni a scatola chiusa, non solo perché, se rileggo il mio contratto, prima che io possa tornare a casa fanno in tempo a tradurre in Italiano i prossimi tre romanzi di Thomas Pynchon. Ci sono anche ragioni più profonde e forse irrazionali. Faccio un esempio pratico.
Tutte le altre volte che sono stato all’estero mi sono sempre piccato (o, come dicono qui, I made a point) di leggere libri nella lingua della nazione in cui mi trovavo. In questo mi ha molto avvantaggiato il fatto di aver trascorso complessivamente in vita mia più di un anno in Inghilterra, quattro giorni in Francia, un paio in Vaticano e nessuno in Germania o in Arabia Saudita. La lingua di solito non è un problema, perché ogni libro è un insieme coerente – almeno dovrebbe esserlo – e quindi i pezzi mancanti sono facilmente ricostruibili facendo riferimento al contesto generale oppure ricorrendo al volgare dizionario o meglio ancora fermando in strada delle passanti ubriache chiedendo se vogliono fare un salto da me a spiegarmi una parola che non capisco.
Più che la lingua ferisce la cultura. Ove si intende non già lo sfoggio di erudizione intrinseca a ogni volume che non sia la quarta autobiografia di David Beckham, ma il sistema di riferimento nel quale l’idea del libro ha prima fecondato il cervello dell’autore, s’è poi embrionizzato in appunti sparsi qua e là e ha infine preso forma canonica su un file word del suo computer risultando, dopo qualche passaggio intermedio che trascuro, pronto per la stampa e per le librerie. Ogni libro è una risposta a degli stimoli: universali, come nel caso dell’erudizione che si appoggia a dati magari ignoti ma facilmente e oggettivamente verificabili al costo di un po’ di pazienza; soggettivi, come nel caso dei riferimenti autobiografici o lirici che hanno nella loro stessa espressione la propria ragion d’essere e che tutt’al più traggono giovamento da una vaga oscurità; infine stimoli sociali, ovvero il terreno al quale ogni libro s’aggrappa per muovere i primi incerti passi e che è necessariamente condiviso soltanto con un ristretto numero di persone nello spazio e nel tempo.
Il primo libro che ho letto appena preso contatto con il mio materasso oxoniano si intitola Falling Palace ed è stato scritto da Dan Hofstadter, un americano pessimista ma non per questo meno piacione: o dovrei dire forse “fariniello”, visto che il suo romanzo era ambientato a Napoli e allenta la trama autobiografica con tutta una serie di spiegazioni su com’è Napoli e come ci si vive, per lo più superflue agli occhi del lettore italiano. Pare che quando Monicelli vedeva al cinema qualcosa di Nanni Moretti solesse dire alla sagoma del regista sullo schermo: “Lèvati, voglio vedere il film”. Nel mio caso è stato il contrario: “Leva Napoli, voglio sapere i fatti tuoi”. Per questo sono certo che il romanzo di Hofstadter non potrà mai e poi mai essere tradotto in Italia, poiché in questo caso i sistemi socio-culturali di riferimento più che coincidere stridono. Difatti una rapida ricerca mi conferma in quest’istante che Falling Palace è stato tradotto l’anno scorso col titolo Interludio Napoletano dalle Edizioni Scientifiche Italiane, 256 pagine, 16 euri.
Non per questo ritengo di sbagliarmi: né lascerò mai che un dato di fatto possa contraddire una mia ipotesi teorica. Nel caso di Hofstadter, che pure è uno scrittore abbastanza gradevole, dopo aver letto il suo libro ho ricavato la sensazione di aver perso un po’ di tempo, la stessa che si proverebbe dopo aver interrotto ogni attività per ascoltare il serrato dialogo di due tizi nello scompartimento di un treno. Se i due si sono appena conosciuti, l’orecchio del terzo è un ospite accettabile e soprattutto viene aiutato a ricostruire parallelamente la privata vicenda di ciascuno, poiché ogni interlocutore deve fornire all’altro dati reciprocamente comprensibili sulla base di un terreno che presume universalmente noto. Se i due si conoscevano già prima di salire, sentiremo parlare di tutta una serie di faccende che abbiamo direttamente esperito pure noi: il lavoro va male, e le tasse sono alte, e quello fa le corna alla moglie, e ieri a calcetto mi sono rovinato uno stinco, e appena arriviamo ti porto a cena nel ristorante di mio cognato. Origliando vediamo rapidamente costruirsi un mondo composto di elementi familiari disposti secondo criteri che ci restano estranei, perfettamente funzionante in linea di principio ma profondamente inquietante perché ne siamo esclusi.
Ecco, trasferirsi in Inghilterra significa vedere innumerevoli ristoranti senza mai sapere chi è il cognato del proprietario. Io ho trovato un metodo geniale per sopravvivere senza impazzire, ma ve lo dico la volta prossima: ora vado a chiedere alla commessa di Waterstone’s che significa sexploitation, anche se lo so già.
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