La studentessa vien dalla campagna e non si capacita di perché mai i professori dell’Università degli Studi di Pavia seguitino indefessi a far lezione anche e soprattutto durante le assemblee indette dai collettivi universitari. Probabilmente perché costei, da poco abbandonato il liceo, è abituata alla tacita alternanza che consentiva la sospensione delle lezioni un giorno al mese per l’assemblea d’istituto, più due ore al mese per l’assemblea di classe. All’università evidentemente non è più così; ragion per cui lo studente è libero di non presentarsi quando sa che il professore fa lezione e per contro il professore è libero di far lezione quando sa che gli studenti sono impegnati altrove (né ci vuol tanto per saperlo, ci sono manifesti su tutta la sede centrale dell’ateneo nonché nelle sue varie metastasi in giro per la città): quindi, ognuno per sé e Dio per tutti. Ma non è questo il punto.
Il punto è che, da un lato, la protesta degli studenti è endemica. Tendenzialmente, arriva ottobre e protestano, un po’ come arriva la primavera e si accoppiano. Se ottobre arriva portando con sé un governo di destra, la protesta è quintuplicata – è noto infatti che la cultura è un affare interno alla sinistra, e chi s’intromette si brucia. Se il governo di destra si azzarda a toccare l’università, la protesta viene decuplicata, centuplicata, spezzettata in infiniti rivoli che si convincono di essere un unico enorme fiume in piena e invece sono scarico di fogna.
Ma forse il punto non è nemmeno questo. Il punto è che ogni tot anni gli studenti si mettono in testa di rifare il ’68. Se capita un anno con l’8 finale, poi, alla protesta si unisce la celebrazione tronfia. Anzi nessuno mi leva dalla testa che quest’autunno caldo (si fa per dire; qui piove che Berlusconi la manda; piove sui giusti e sugli ingiusti, su scioperanti e scioperati, sui cortili e sui cortei) sia stato scientificamente preparato con lo stillicidio di mitologia sessantottarda nelle menti dei poveri studenti i quali, frequentando l’università, hanno molto tempo libero e trovano modo di credersi chissà chi o chissà cosa, dandosi arie di superiorità antropologica e sfociando spesso in un serioso e becero moralismo intellettuale. Gli Studenti per la Libertà avevano impostato tutta la scorsa campagna elettorale universitaria sullo slogan: meno sessantotto, più sessantanove.
Che poi i capi di questa rivolta – presunta rivolta che lascia più o meno indifferente una città refrattaria a tutto com’è Pavia, tanto che ieri il serpentone di protesta annunziato dal tremendismo barricadero s’è risolto in un serpentino viscido che sotto la sede centrale dell’ateneo intimava anzi implorava col megafono “Fuori, fuori” a tutti quelli che invece erano dentro a farsi i beati fatti propri, si trattasse dei corsi o degli esami o della stesura della tesi, mentre ai bordi delle strade i cittadini (i borghesi? i filistei?) assistevano al tutto con la stessa compita e vergognosa curiosità occasionale che si riserva ai carri di carnevale. Dicevo, i capi di questa rivolta sono bene o male tutti ascrivibili all’Udu, il movimento sinistrorso universitario che si dichiara “per il diritto allo studio” e ha il principale merito di organizzare periodicamente nelle sedi universitarie feste dalle quali (dichiarano i loro stessi manifesti) “resta fuori solo il numero chiuso”. L’Udu ha per simbolo un cubo con le gambe (audace riferimento forse ai suoi militanti con la testa quadra) ed è così ripartito: una buona parte di studenti ossessionati dal numero chiuso, probabilmente consapevoli che in tal caso sarebbero in miniera; qualche signorina convinta di essere più intelligente di quel che è; qualche figaccione che ha fatto voto di lavarsi saltuariamente; un manipolo di persone preparate, brillanti, consapevoli dei propri mezzi ma con le idee assolutamente confuse e paraocchi talvolta finemente ricamati dai loro stessi professori.
Se ben ricordo ieri hanno organizzato assemblee di singole facoltà, oggi hanno in programma assemblee dell’Università tutta. Ricordo benissimo che per protestare meglio ieri notte hanno organizzato una festa intesa, stando ai loro stessi manifesti, “contro la legge 133” e manco a dirlo “contro il numero chiuso”.
C’è gente tristissima, calva, che si stava laureando quando io ero matricola e sta per laurearsi ora che sono dottore di ricerca. Ci sono quelli dei centri sociali, che fanno pipì fra le sbarre dei cancelli altrui (in via Siro Comi, andate a controllare) e poi invocano la sacra costituzione antifascista quando uno s’azzarda appena appena a protestare. Ci sono quelli che per far bella figura leggono Habermas sdraiati sulle panche sotto le tre torri; quelli che si danno arie perché scrivono sul giornale gratuito dell’Università; quelli che si alzano a mezzogiorno, hanno la caratteristica panza da bevitori di birra e leggono il Manifesto, o quanto meno lo comprano.
Soprattutto, in tutta Italia c’è un’ampia maggioranza di studenti che protesta per difendere i diritti più iniqui dei professori più sfaticati, penso per la prima volta nella breve storia dell’Italia de-monarchizzata. Si sono convinti che la legge 133 li renderà più ignoranti, senza rendersi conto che in buona parte dei casi renderli più ignoranti di quanto già siano è impresa sovrumana. Sono contenti di frequentare università che nel migliore dei casi sono inutili e nel peggiore sono dannose. Sono felici di avere libretto e statino e, fin tanto che paga papà, sono ancora più felici di poter protestare a oltranza contro chi sulla lunga scadenza potrebbe togliere loro il diritto di riposarsi fino ai trent’anni.
Io sono una persona pacifica, mi basta che oggi piova tantissimo e che l’assemblea universitaria si risolva con lo scioglimento fra le bestemmie per impraticabilità di campo o con un’epidemia di broncopolmoniti e conseguente selezione naturale. Riconosco appieno il diritto degli studenti a protestare; protestino oggi, protestino tutta la settimana, dieci giorni, un mese. Prima o poi si stancheranno, e tutto finirà com’è iniziato: dal nulla, nel nulla, per nulla.
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