Lo sperimentalismo è un’arma a doppio taglio. Quando riesce, è la prova più evidente della bravura di un autore e della sua originalità nel rielaborare criticamente i confini letterari di chi l’ha preceduto. Quando non riesce la controprova è ben più atroce, tanto per l’autore che si sente continuamente frustrato nel proprio slancio iconoclasta quanto per il lettore costretto a fronteggiare pagina dopo pagina, riga dopo riga, un fallimento incomprensibile del quale non ha colpa. La principale difficoltà di fronte a un romanzo dichiaratamente sperimentale risiede appunto nel capire se l’esperimento è riuscito o meno: infatti, per definizione, gli strumenti atti alla comprensione dello sperimentalismo letterario non coincidono con quelli della tradizione; e, tuttavia, esclusivamente alla tradizione si può far capo per avere delle coordinate in base alle quali valutare un romanzo. Si può uscire dal circolo vizioso, credo, solo nel caso in cui si consideri se l’autore sperimentale – una figura che spesso e volentieri assomma in sé del genio e del ciarlatano – sia o non sia innanzitutto un autore, ovvero (banalmente) una persona avvezza a usare le parole. Si tratta in sostanza di diradare il fumo dello sperimentalismo e di vedere se sotto c’è dell’arrosto o invece uno zampirone impazzito.
Mi sono permesso questo lungo ragionamento perché la stessa Arianna Giorgia Bonazzi lo sottintende in poche righe del suo breve romanzo sperimentale. Racconta delle medie: “Il professore di disegno (…) aveva detto perché se io faccio una donna con l’occhio sul culo non sono picasso?”. Il problema è esattamente lo stesso, se non ci si fa sviare dalla punteggiatura inconsulta e da Picasso con l’iniziale minuscola (d’altra parte è in buona compagnia:
Dobbiamo dedurre che alla ricerca di quest’identico schema personale s’è mossa
L’esperimento della Bonazzi riesce meglio se si considerano le singole frasi. La punteggiatura, come abbiamo visto, salta spesso e volentieri, lasciando spazio alla giustapposizione di nudi sostantivi o aggettivi, nella quale traspare meglio che altrove la mesta ironia dell’autrice (“Una borsetta non classica dorica ionica corinzia”): una rielaborazione della tecnica dell’accumulo che, personale quantunque, ha padri nobili che risalgono fino a Giordano Bruno e oltre. La struttura sintattica della frase viene smontata in anacoluti colloquiali o, più spesso, viene mozzata da virgole assassine che s’infilano fra soggetto e predicato –
Non troppo di rado, però, queste stesse frasi evocano immagini o collegamenti piuttosto ardimentosi che, alla lunga, risultano forzati. In queste circostanze
Parrebbe anzi che qua e là troppo sperimentalismo danneggi le capacità della Bonazzi, il cui indubbio talento – spesso usato come bestia da soma, per sopportare il peso di arditi sperimentalismi non sempre richiesti dall’andamento del romanzo – traspare da alcuni slanci narrativi icastici e folgoranti: “Ogni tanto se mi sentivo sola nel silenzio di plastica, accendevo google scrivevo il nome di una persona che amavo o un poeta, cercavo di scoprire che cosa aveva fatto nel frattempo”. Passaggi simili non sono rarissimi, per fortuna, e fanno ben sperare per le prove successive della Bonazzi che ha 26 anni e una carriera potenzialmente infinita davanti a sé; in questi casi il suo furore sperimentale si calma, il ritmo narrativo si fa più blando e avvolgente, il lettore si appassiona salvo venire nuovamente preso a ceffoni a partire dal capoverso immediatamente successivo. Di sicuro infatti le scelte stilistiche estreme della Bonazzi danneggiano la trama. Per centotrenta pagine, inerpicandosi per scoscesi avanguardismi, si aspetta che il romanzo inizi; e invece, all’improvviso, finisce.
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