Hai fatto bene
tutto il creato
Te sei sbajato
solo con me.
(Luigi Magni, Tosca)
tutto il creato
Te sei sbajato
solo con me.
(Luigi Magni, Tosca)
Sarà per un’altra volta: ottima lettura natalizia, plausibile regalo sotto l’albero, Il Cardinale di Henry Morton Robinson è tristemente finito fuori commercio come – stando a un controllo superficiale ma preoccupato – tutto il resto della produzione dell’autore. Io nel mio piccolo ho salvato il salvabile dedicando gli ultimi giorni d’Avvento alla lettura di questo lungo (pure troppo) romanzo in un’edizione Garzanti demodè, risalente agli anni ’60 quando invece l’uscita originale è del 1950, nel bel mezzo del secolo che sconvolse il Cattolicesimo. E, sempre nel mio piccolo, ho estrapolato dalle pagine 236 e 237 del medesimo economicissimo Garzanti (che la copertina spaccia per volume triplo, a lire 650) la citazione augurale da spargere tutt’intorno agli amici per la vigilia di Natale, ossia un dialoghetto parateologico in cui il futuro cardinale Fermoyle rimbrotta un fedele troppo solerte nell’addobbare il presepio con un certo sfarzo, il quale si scusa: «Penso sempre a loro come a della povera gente in una capanna fredda».
Si tratta di letteratura da diporto, composta in una prosa semplice che non si discosta gran che da quella della letteratura popolare di oggi, e che quindi non renderebbe impraticabile una nuova edizione, fermi restando i più visibili difetti del testo: ad esempio la caratterizzazione operettistica di tutti gli Italiani, primo fra tutti il vanesio capitano Orselli, prima conclamato donnaiolo e poi marito esemplare, prima ammiratore di Mussolini e poi martire del fascismo. D’altra parte la semplicità non è semplicioneria, e dietro la facciata del romanzo popolare sono ben evidenti riferimenti colti che si fanno oltremodo insistenti quando si tratta addirittura dell’Ulisse di Joyce – a cominciare dal nome di battesimo del cardinale eponimo, ovviamente Stephen, ma anche in dettagli secondari come la completa riproposizione del calembour Rose of Castille (Rosa di Castiglia)/rows of cast steel (binari di acciaio fuso) su cui è incentrata parte del settimo capitolo dell’Ulisse.
Né mancano le citazioni scoperte o implicite dai Padri della Chiesa, introspettivi come Sant’Agostino o estroflessi come San Clemente Alessandrino. Tutto però è montato su una struttura estremamente lineare, che progredisce irrefragabilmente col tempo e che viene incontro al lettore più indifeso spiegandogli tutto, tutto, tutto. Forse anche per questo, ai suoi tempi, Il Cardinale aveva avuto un notevole successo tanto da diventare un film (di Otto Preminger, con Tom Tryon e John Huston) uscito nel
Diamoci un’occhiata intorno e selezioniamo le questioni che a tutt’oggi, Natale 2008, costituiscono frizione fra
Rapida rassegna dimostrativa. Il centro cronologico del romanzo cade grossomodo sulla crisi del 1929, di poco successiva alle elezioni che vedono Hoover prevalere sul cattolico Al Smith. Il cardinale Fermoyle ovviamente sostiene Al Smith, che è il suo alter ego politicizzato; Robinson pure, tanto da presentare il crollo di Wall Street come diretta conseguenza della vittoria di Hoover, grazie all’unico strumento decente in mano ai narratori: la sintesi di avvenimenti enormi in poche brevi righe che volano su undici mesi legando a filo doppio la vittoria repubblicana alle elezioni del 6 novembre 1928 e la chiusura delle contrattazioni in borsa il 24 ottobre 1929. Il problema non è qui tanto la scelta fra repubblicani e democratici, ché della democraticità di Al Smith si parla poco e niente, quanto la scelta fra una politica tutta umana di ottuso ottimismo e una politica radicata su fondamenta religiose che, benché private, inducono al bene comune. A ben guardare, con le elezioni del 2008 è avvenuta esattamente la stessa cosa, a partiti invertiti, e le promesse finanziarie non sono rosee affatto.
Il ritorno del Latino nelle celebrazioni è stato salutato nel migliore dei casi come una nostalgia canaglia, nel peggiore (dai soliti intellettuali) come il ritorno dell’imposizione di un culto incomprensibile a un popolo inconsapevole. Tanto per dare un’idea di quanto sia stantia quest’obiezione, Robinson la anticipa di una cinquantina d’anni (pagina 106: «La m-messa si dice in la-latino p-perché la gente non deve s-sapere quello che dite») e la confuta in scioltezza: «Non è che il sacerdote desideri fare un mistero di quello che dice. Proprio il contrario. Egli vuole che tutti, in ogni tempo e in ogni luogo, capiscano esattamente quello che dice. La messa si dice in latino perché non vi è altra lingua – eccettuato forse l’ebraico – che sia così universale ed immutata». Il passo in questione dev’essere sfuggito a qualche centinaio di padri conciliari, e Benedetto XVI giunge a riparare, meglio tardi che mai.
Raccapriccia altresì leggere pari pari nel romanzo profferte e minacce dei sostenitori dell’aborto e della contraccezione, o meglio dell’irresponsabilità della Chiesa in materia. Robinson si produce in una parodia dei prontuari anticattolici al riguardo («La vostra salute è minacciata, la vostra felicità gratuitamente compromessa dalla cospirazione ordita da preti tirannici»); ciò nondimeno questa parodia, estrapolata dal suo contesto, potrebbe essere sottoscritta oggi con piene soddisfazione e convinzione da ampi strati di femministe, di intellettuali (ancora!) e di medici. Se ne deduce che
Forse
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