Come il centralissimo quartiere murattiano, il libro di Gianrico Carofiglio su Bari procede per agevoli strade parallele e perpendicolari, come su due coordinate differenti che si incrociano agli angoli. La prima coordinata, nonché la più immediata, è la storia della notte a Bari promessa dal sottotitolo: l’autore, che nella circostanza è anche narratore senza alcuna distinzione di sorta, riceve la telefonata di un vecchio e quasi dimenticato amico che gli propone un itinerario gastronomico e nostalgico per mostrare la movida notturna a un terzo amico, quasi rimosso anche lui, essendosi da vent’anni trasferito a Chicago. Questa storia si muove nello spazio e occupa i capitoli a numerazione dispari. La seconda coordinata, simile alle perpendicolari che via via si susseguono a intervalli regolari, riguarda i capitoli pari e presenta degli scorci sul passato di Bari – filtrato attraverso la gioventù o l’infanzia del medesimo Carofiglio autore/narratore – muovendosi pertanto nell’orizzonte del tempo.
Spazio e tempo, senso esterno e senso interno, si incrociano reiteratamente al cambio di capitolo: un po’ come faceva Bulgakov ne Il Maestro e Margherita, quando le parole conclusive di un professore russo erano l’abbrivio per una narrazione di cosa accadeva millenovecento anni prima a Gerusalemme. Giocato così sul filo di narrazione e memoria – la prima che procede fin troppo dritta e lineare, mentre la seconda si può permettere qualche ghirigoro o, come sempre accade coi ricordi, qualche inganno passato sotto silenzio – Né qui né altrove risulta più convincente nella parte che tocca più da vicino forse l’interesse e quindi l’essenza di Carofiglio stesso, come uomo e non come narratore. Il triste censimento dei cinema chiusi, o la storiella quasi mitologica del primo cucciolo portato in casa, le cioccolate clandestine nella libreria Rinascita o la scoperta del sesso insicuro sarebbero altrettante intermittenze del cuore che non sfigurerebbero in una raccolta di racconti a sé stanti. Ciò che dà un senso di unitarietà al tutto, e dà quindi un senso all’operazione narrativa di Carofiglio, è il loro essere calati nella precisa realtà geografica di Bari, e di avere al proprio interno delle spie narrative che tutt’a un tratto rivelano l’impossibilità, per i medesimi racconti, di essere trasferiti in contesti estranei. Si reggono pertanto sul loro essere, parafrasando il libro, in un “qui” ben preciso e non “altrove”.
Al contrario, l’itinerario di Carofiglio per Bari, accompagnato dai due amici ritrovati senza eccessivo entusiasmo, vive di un forte effetto di straniamento: in questo caso è la Bari del 2008 a collocarsi in un “altrove” falsato dall’oscurità notturna. Innanzitutto c’è lo straniamento della voce narrante che, d’improvviso, si trova ad avere a che fare con due fantasmi del proprio passato resi fin troppo presenti e vivi di fronte a lui: invecchiati, peggiorati, in completa balia dei difetti che i comuni studi universitari (ovviamente Giurisprudenza, ovviamente a Bari) avevano solamente un po’ sbozzato. Soprattutto, c’è la completa e continua sorpresa dell’amico rientrato da Chicago, che per vent’anni ha rimpianto l’odore della focaccia o ha perso un po’ di tempo libero digitando “Bari” su Google, e che ora si trova di fronte a una città che non solo è diversa – cosa accettabile, perché tutte le città cambiano in vent’anni – ma che è sfacciatamente migliore, più vivace, più vivibile e molto più vicina alla joie de vivre che ci s’immaginava collocata in un altrove più o meno irraggiungibile. E qui sta la vera tragedia lamentata dal volume, per quanto fra le righe: è terribile scoprire che la città da cui si è scappati ha indossato la maschera di ciò che si sognava di inseguire per il mondo.
C’è un punto di contatto ben preciso fra le due metà del libro, e mi sembra squisitamente linguistico. Sia nei capitoli sull’oggi sia in quelli di ieri, a un certo punto si fa avanti qualcuno che parla dialetto barese più o meno stretto (Carofiglio, bisogna dargli atto, inserisce tra parentesi in corsivo una traduzione ora sarcastica, ora ridondante). Il Barese è una lingua crudissima, piena di dittonghi nasali e consonanti esplosive, che pare fatta apposta per prendere in giro il prossimo e sé stessi, non mancando di intimorire esacerbando i suoi nitriti. Carofiglio racconta di quando, iscrittosi in palestra, aveva dovuto imparare il dialetto come si impara una lingua straniera per ottenere il rispetto dei frequentatori abituali, tutti arroccati in una istintiva xenofobia di quartiere, o peggio ancora in uno snobismo di classe diretto verso l’alto – ça va sans dire, un paio di calci ben assestati gli garantiscono una maggiore stabilità del rispetto altrui, per il quale il corso accelerato di dialetto resta tuttavia necessario a priori.
Il dialetto resta sullo sfondo, invece, per quanto esso sia la struttura portante della vita quotidiana di tutta la città, e il ponte gettato fra quartieri vicinissimi ma difformi per architettura e strati sociali: tant’è vero che il film più bello che sia mai stato girato su Bari e forse su una città italiana in assoluto, LaCapaGira di Alessandro Piva, è interamente parlato in dialetto perché senza la sua venatura di aggressivo scetticismo linguistico la stessa trama non avrebbe avuto appigli alla verosimiglianza.
Un libro coincide con la lingua in cui è scritto, ossia con le parole che contiene; e se Carofiglio si fosse concentrato un po’ di più sui ritmi del barese e sulla visione del mondo (ossia di Bari) che il dialetto comporta, Né qui né altrove sarebbe risultato forse meno fruibile ma indubbiamente più rispondente alla realtà. Invece Carofiglio tenta qua e là di porre una distanza letteraria e standardizzata fra sé e la rutilante immediatezza delle strade della sua città, scivolando talvolta in scelte lessicali che ora lasciano perplesso ora tramortiscono l’eventuale lettore indigeno. Tanto per dire la più grave, suona strano quando Carofiglio racconta che i suoi due accompagnatori stanno parlando “della squadra di calcio del Bari”: questo perché dai nove mesi ai novantanove anni d’età qualsiasi barese ne parla al femminile, ossia come “la Bari”, nonostante il resto del mondo persista colpevolmente a declinarla al maschile.
Verso la fine della storia, nel breve volgere di una notte che racchiude in sé quasi quarant’anni di ricordi, spazio e tempo sembrano confondersi fino a far venire meno la netta distinzione fra itinerario e memoria, fra capitoli dispari e capitoli pari, fra perpendicolari e parallele: il tutto si fonde in un epilogo che, come i vicoletti della città vecchia, si diramano dal centro unico di un abisso sensoriale – nel caso specifico fomentato dalla propaganda pro focaccia barese, per acclamazione la più buona del mondo (se si estende il giudizio ai comuni limitrofi, non si può che essere d’accordo). Allora mi è venuta in mente una curiosa circostanza: prima ancora che iniziassi a leggere Né qui né altrove, avevo ricevuto due confidenziali recensioni, una entusiastica e una irritata. Quella entusiastica proveniva da una barese che lavora altrove; l’altra, da una barese che vive ancora lì. Ne ho dedotto che questo di Carofiglio è un buon libro, che va benissimo per chi non abita a Bari. Gli altri vorrebbero tutti scrivere il proprio.
[Gianrico Carofiglio, Né qui né altrove: una notte a Bari, Laterza (2008), 160 pagine, €10]
Spazio e tempo, senso esterno e senso interno, si incrociano reiteratamente al cambio di capitolo: un po’ come faceva Bulgakov ne Il Maestro e Margherita, quando le parole conclusive di un professore russo erano l’abbrivio per una narrazione di cosa accadeva millenovecento anni prima a Gerusalemme. Giocato così sul filo di narrazione e memoria – la prima che procede fin troppo dritta e lineare, mentre la seconda si può permettere qualche ghirigoro o, come sempre accade coi ricordi, qualche inganno passato sotto silenzio – Né qui né altrove risulta più convincente nella parte che tocca più da vicino forse l’interesse e quindi l’essenza di Carofiglio stesso, come uomo e non come narratore. Il triste censimento dei cinema chiusi, o la storiella quasi mitologica del primo cucciolo portato in casa, le cioccolate clandestine nella libreria Rinascita o la scoperta del sesso insicuro sarebbero altrettante intermittenze del cuore che non sfigurerebbero in una raccolta di racconti a sé stanti. Ciò che dà un senso di unitarietà al tutto, e dà quindi un senso all’operazione narrativa di Carofiglio, è il loro essere calati nella precisa realtà geografica di Bari, e di avere al proprio interno delle spie narrative che tutt’a un tratto rivelano l’impossibilità, per i medesimi racconti, di essere trasferiti in contesti estranei. Si reggono pertanto sul loro essere, parafrasando il libro, in un “qui” ben preciso e non “altrove”.
Al contrario, l’itinerario di Carofiglio per Bari, accompagnato dai due amici ritrovati senza eccessivo entusiasmo, vive di un forte effetto di straniamento: in questo caso è la Bari del 2008 a collocarsi in un “altrove” falsato dall’oscurità notturna. Innanzitutto c’è lo straniamento della voce narrante che, d’improvviso, si trova ad avere a che fare con due fantasmi del proprio passato resi fin troppo presenti e vivi di fronte a lui: invecchiati, peggiorati, in completa balia dei difetti che i comuni studi universitari (ovviamente Giurisprudenza, ovviamente a Bari) avevano solamente un po’ sbozzato. Soprattutto, c’è la completa e continua sorpresa dell’amico rientrato da Chicago, che per vent’anni ha rimpianto l’odore della focaccia o ha perso un po’ di tempo libero digitando “Bari” su Google, e che ora si trova di fronte a una città che non solo è diversa – cosa accettabile, perché tutte le città cambiano in vent’anni – ma che è sfacciatamente migliore, più vivace, più vivibile e molto più vicina alla joie de vivre che ci s’immaginava collocata in un altrove più o meno irraggiungibile. E qui sta la vera tragedia lamentata dal volume, per quanto fra le righe: è terribile scoprire che la città da cui si è scappati ha indossato la maschera di ciò che si sognava di inseguire per il mondo.
C’è un punto di contatto ben preciso fra le due metà del libro, e mi sembra squisitamente linguistico. Sia nei capitoli sull’oggi sia in quelli di ieri, a un certo punto si fa avanti qualcuno che parla dialetto barese più o meno stretto (Carofiglio, bisogna dargli atto, inserisce tra parentesi in corsivo una traduzione ora sarcastica, ora ridondante). Il Barese è una lingua crudissima, piena di dittonghi nasali e consonanti esplosive, che pare fatta apposta per prendere in giro il prossimo e sé stessi, non mancando di intimorire esacerbando i suoi nitriti. Carofiglio racconta di quando, iscrittosi in palestra, aveva dovuto imparare il dialetto come si impara una lingua straniera per ottenere il rispetto dei frequentatori abituali, tutti arroccati in una istintiva xenofobia di quartiere, o peggio ancora in uno snobismo di classe diretto verso l’alto – ça va sans dire, un paio di calci ben assestati gli garantiscono una maggiore stabilità del rispetto altrui, per il quale il corso accelerato di dialetto resta tuttavia necessario a priori.
Il dialetto resta sullo sfondo, invece, per quanto esso sia la struttura portante della vita quotidiana di tutta la città, e il ponte gettato fra quartieri vicinissimi ma difformi per architettura e strati sociali: tant’è vero che il film più bello che sia mai stato girato su Bari e forse su una città italiana in assoluto, LaCapaGira di Alessandro Piva, è interamente parlato in dialetto perché senza la sua venatura di aggressivo scetticismo linguistico la stessa trama non avrebbe avuto appigli alla verosimiglianza.
Un libro coincide con la lingua in cui è scritto, ossia con le parole che contiene; e se Carofiglio si fosse concentrato un po’ di più sui ritmi del barese e sulla visione del mondo (ossia di Bari) che il dialetto comporta, Né qui né altrove sarebbe risultato forse meno fruibile ma indubbiamente più rispondente alla realtà. Invece Carofiglio tenta qua e là di porre una distanza letteraria e standardizzata fra sé e la rutilante immediatezza delle strade della sua città, scivolando talvolta in scelte lessicali che ora lasciano perplesso ora tramortiscono l’eventuale lettore indigeno. Tanto per dire la più grave, suona strano quando Carofiglio racconta che i suoi due accompagnatori stanno parlando “della squadra di calcio del Bari”: questo perché dai nove mesi ai novantanove anni d’età qualsiasi barese ne parla al femminile, ossia come “la Bari”, nonostante il resto del mondo persista colpevolmente a declinarla al maschile.
Verso la fine della storia, nel breve volgere di una notte che racchiude in sé quasi quarant’anni di ricordi, spazio e tempo sembrano confondersi fino a far venire meno la netta distinzione fra itinerario e memoria, fra capitoli dispari e capitoli pari, fra perpendicolari e parallele: il tutto si fonde in un epilogo che, come i vicoletti della città vecchia, si diramano dal centro unico di un abisso sensoriale – nel caso specifico fomentato dalla propaganda pro focaccia barese, per acclamazione la più buona del mondo (se si estende il giudizio ai comuni limitrofi, non si può che essere d’accordo). Allora mi è venuta in mente una curiosa circostanza: prima ancora che iniziassi a leggere Né qui né altrove, avevo ricevuto due confidenziali recensioni, una entusiastica e una irritata. Quella entusiastica proveniva da una barese che lavora altrove; l’altra, da una barese che vive ancora lì. Ne ho dedotto che questo di Carofiglio è un buon libro, che va benissimo per chi non abita a Bari. Gli altri vorrebbero tutti scrivere il proprio.
[Gianrico Carofiglio, Né qui né altrove: una notte a Bari, Laterza (2008), 160 pagine, €10]
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