(Gurrado per Quasi Rete)
Qui davanti ho il televisore e la finestra. Cosa c’è nel televisore, quando lo accendo, lo sapete già:la Rai , Mediaset, La7 e le caratteristiche reti appulo-lucane (niente abbonamento a Sky). Sulla finestra vi devo qualche spiegazione in più. La casa dei miei genitori si affaccia su una scuola elementare che per tutta l’infanzia ho frequentato ogni mattina e guardato ogni pomeriggio. Davanti alla scuola c’è uno spiazzo, un cortile recintato che ne percorre l’intera facciata: era il posto dove al mattino gli alunni si riunivano alla rinfusa per poi entrare in ordine di classe e di sezione, e dove all’ora di pranzo i maestri unici li riaccompagnavano in fila, cominciando dalle prime e finendo con le quinte, per ordinare lo sciogliete le righe e restituirli al disordine familiare e cittadino. Questo fino al 1990: poi, con la riforma del maestro triplo, è misteriosamente svanito anche questo rito in favore dell’ingresso selvaggio, ma è un altro discorso.
Ciò che conta è che questo medesimo spiazzo, finito l’orario scolastico, diventa ora come allora il principale stadio per il calcio di strada, il che conferisce un ragguardevole valore aggiunto alla finestra e a tutta la casa dei miei. I bambini si davano appuntamento lì e piuttosto che disputare vere e proprie partite si dividevano in gruppetti, il muro era la rete e il cornicione la traversa, per riprodurre singoli gesti tecnici che avevano visto in televisione. La distribuzione più consueta era l’uno contro uno: questo faceva l’attaccante e quello il portiere. Meglio, uno rifaceva quello che aveva visto fare in tv dal tale attaccante, e l’altro dichiarava di volta in volta di abbassare la saracinesca del Milan, della Juve, della Germania Ovest o più modestamente del Bari.
Quand’ero bambino anch’io si spacciavano per Maradona e Zenga, Giovanni Galli e Roberto Baggio, Gullit e Tacconi. Ai tempi del liceo, un mio compagno di classe diventava Peter Schmeichel due volte a settimana. Io sono stato Ronaldo una volta sola, ma solo perché mi ero rasato a zero. Oggi, i figli di quelli che fingevano di essere Platini dichiarano di essere Giovinco.
Quando le partite venivano giocate di pomeriggio, l’adiacenza fra televisore e finestra mi consentiva gustosi raffronti contemporanei. Ma anche la differita non era male: affacciandomi di lunedì pomeriggio, nel caparbio tentativo di non imparare il Greco, ho potuto assistere alla riproduzione in miniatura della rovesciata di Vialli controla Cremonese , della palombella viola di Del Piero alla Fiorentina, del coast-to-coast di Weah contro il Verona – ossia l’unica volta che ho visto una squadra segnare su un calcio d’angolo per gli avversari. La replica infantile del campionato del giorno prima era limitata alle azioni principali e piuttosto che sull’andamento della partita preferivano concentrarsi sul singolo gesto tecnico: lo pseudo-Vialli si sistemava spalle alla porta, lanciava la palla al cielo e sulla ricaduta tentava la rovesciata. Non ci riusciva e riprovava. Se ci riusciva riprovava lo stesso. Nel frattempo veniva travolto dallo pseudo-Weah che si era fatto allungare la palla da un passante e arrivava come l’uragano dal lato opposto del cortile. Per il portiere non faceva differenza, lui dichiarava di essere chissà chi ma al massimo gli riusciva Garella, e si gettava a corpo morto per respingere qualsiasi cosa gli tirassero: con le ginocchia, con le unghie, con la faccia e – quand’anche la palla impattasse il muro pieno – negava la rete dicendo che era palo. Di solito questo circo cominciava con un rigore, tanto per prendere confidenza.
Alessio Scarpi era portiere della primavera del Cagliari quando io avevo appena abbandonato le scuole elementari. Ora fa il portiere di riserva al Genoa, ed è l’unico a poter testimoniare personalmente l’inquietante somiglianza fra il facciume di Diego Milito e il naso triste di Enzo Francescoli. In Coppa Italia, martedì scorso, s’è trovato a dover contenere l’Inter sapendo che il i basilari elementi di capitalismo pedatorio impongono che trovandosi di fronte ad Adriano, Zanetti e Maicon non ci sia nessuna speranza per i portieri di riserva che hanno tutt’al più trascorso un’onesta carriera invecchiando nella Reggina e nell’Ancona.
Questo deve aver pensato quando la partita è iniziata davvero e Adriano già stava sistemando la palla sul dischetto, tanto per prendere confidenza: lui è Adriano, ergo non c’è speranza per Alessio Scarpi. E allora pùm: nell’istante stesso in cui Adriano mirava angolato e dritto, nella rete del Genoa s’è materializzato Goycochea, s’è allungato a spingere la palla lontano dal palo e mentre Adriano restava a capo chino, Alessio Scarpi urlava posseduto.
Da quel momento in poi, Alessio Scarpi non c’era più. Adriano correva, sbuffava, si levava gli avversari di dosso, tirava da vicino e da lontano – dalla porta del Genoa gli rispondeva ogni volta un portiere diverso. Adriano provava di testa, e veniva respinto da Gordon Banks. Si avventava sulla palla con una rovesciata, e trovava ad aspettarlo Ladislao Mazurkiewicz. Riusciva finalmente a segnare, ed era Gilmar a raccattare la palla dal sacco e a rispedirla veloce verso i compagni perché rimediassero velocemente all’infortunio.
Per cento minuti Alessio Scarpi è stato Zoff, Jongbloed, Sepp Maier, Maspoli, Zamora e Dio solo sa chi altro; non era più un trentaseienne in gita premio a San Siro ma un bambino nel cortile sotto casa sua o sotto casa mia, e questo bastava a renderlo invincibile. Al decimo dei supplementari, per fregarlo c’è voluto uno che sa applicare sempre questo stesso trucchetto: Zlatan Ibrahimović il quale – se guardate al rallenty – al momento di tirare soffia sul pallone e dice: “Sono Van Basten”, oppure “sono Pelè”, o “sono Crujff, sono Eusebio, sono Kevin Keegan”. Lo diventa e tira.
Nel minuto in cui Crujff, Eusebio e Keegan, sotto le comuni mentite spoglie di Zlatan Ibrahimović, lasciavano partire potente e secco un tirone da fuori area, Alessio Scarpi stava decidendo se essere Jascin o Higuita. Il tempo di pensarci e diventava Garella: il pallone gli sbatteva sulle braccia, o sul petto, o sul naso, e lui non riusciva a vedere chi lo ribatteva fulmineamente in rete. Tentava di rialzarsi dicendo: “Non vale”, ma era inutile: il bambino nel cortile era stato sconfitto, e restava solamente Alessio Scarpi minuscolo in un San Siro enorme e nerazzurro.
[Poiché ieri in serie A non c’è stato alcun risultato sorprendente, sulla stretta attualità mi limito a una considerazione di carattere generale: Kakà è Kakà, ma i soldi sono soldi.]
Qui davanti ho il televisore e la finestra. Cosa c’è nel televisore, quando lo accendo, lo sapete già:
Ciò che conta è che questo medesimo spiazzo, finito l’orario scolastico, diventa ora come allora il principale stadio per il calcio di strada, il che conferisce un ragguardevole valore aggiunto alla finestra e a tutta la casa dei miei. I bambini si davano appuntamento lì e piuttosto che disputare vere e proprie partite si dividevano in gruppetti, il muro era la rete e il cornicione la traversa, per riprodurre singoli gesti tecnici che avevano visto in televisione. La distribuzione più consueta era l’uno contro uno: questo faceva l’attaccante e quello il portiere. Meglio, uno rifaceva quello che aveva visto fare in tv dal tale attaccante, e l’altro dichiarava di volta in volta di abbassare la saracinesca del Milan, della Juve, della Germania Ovest o più modestamente del Bari.
Quand’ero bambino anch’io si spacciavano per Maradona e Zenga, Giovanni Galli e Roberto Baggio, Gullit e Tacconi. Ai tempi del liceo, un mio compagno di classe diventava Peter Schmeichel due volte a settimana. Io sono stato Ronaldo una volta sola, ma solo perché mi ero rasato a zero. Oggi, i figli di quelli che fingevano di essere Platini dichiarano di essere Giovinco.
Quando le partite venivano giocate di pomeriggio, l’adiacenza fra televisore e finestra mi consentiva gustosi raffronti contemporanei. Ma anche la differita non era male: affacciandomi di lunedì pomeriggio, nel caparbio tentativo di non imparare il Greco, ho potuto assistere alla riproduzione in miniatura della rovesciata di Vialli contro
Alessio Scarpi era portiere della primavera del Cagliari quando io avevo appena abbandonato le scuole elementari. Ora fa il portiere di riserva al Genoa, ed è l’unico a poter testimoniare personalmente l’inquietante somiglianza fra il facciume di Diego Milito e il naso triste di Enzo Francescoli. In Coppa Italia, martedì scorso, s’è trovato a dover contenere l’Inter sapendo che il i basilari elementi di capitalismo pedatorio impongono che trovandosi di fronte ad Adriano, Zanetti e Maicon non ci sia nessuna speranza per i portieri di riserva che hanno tutt’al più trascorso un’onesta carriera invecchiando nella Reggina e nell’Ancona.
Questo deve aver pensato quando la partita è iniziata davvero e Adriano già stava sistemando la palla sul dischetto, tanto per prendere confidenza: lui è Adriano, ergo non c’è speranza per Alessio Scarpi. E allora pùm: nell’istante stesso in cui Adriano mirava angolato e dritto, nella rete del Genoa s’è materializzato Goycochea, s’è allungato a spingere la palla lontano dal palo e mentre Adriano restava a capo chino, Alessio Scarpi urlava posseduto.
Da quel momento in poi, Alessio Scarpi non c’era più. Adriano correva, sbuffava, si levava gli avversari di dosso, tirava da vicino e da lontano – dalla porta del Genoa gli rispondeva ogni volta un portiere diverso. Adriano provava di testa, e veniva respinto da Gordon Banks. Si avventava sulla palla con una rovesciata, e trovava ad aspettarlo Ladislao Mazurkiewicz. Riusciva finalmente a segnare, ed era Gilmar a raccattare la palla dal sacco e a rispedirla veloce verso i compagni perché rimediassero velocemente all’infortunio.
Per cento minuti Alessio Scarpi è stato Zoff, Jongbloed, Sepp Maier, Maspoli, Zamora e Dio solo sa chi altro; non era più un trentaseienne in gita premio a San Siro ma un bambino nel cortile sotto casa sua o sotto casa mia, e questo bastava a renderlo invincibile. Al decimo dei supplementari, per fregarlo c’è voluto uno che sa applicare sempre questo stesso trucchetto: Zlatan Ibrahimović il quale – se guardate al rallenty – al momento di tirare soffia sul pallone e dice: “Sono Van Basten”, oppure “sono Pelè”, o “sono Crujff, sono Eusebio, sono Kevin Keegan”. Lo diventa e tira.
Nel minuto in cui Crujff, Eusebio e Keegan, sotto le comuni mentite spoglie di Zlatan Ibrahimović, lasciavano partire potente e secco un tirone da fuori area, Alessio Scarpi stava decidendo se essere Jascin o Higuita. Il tempo di pensarci e diventava Garella: il pallone gli sbatteva sulle braccia, o sul petto, o sul naso, e lui non riusciva a vedere chi lo ribatteva fulmineamente in rete. Tentava di rialzarsi dicendo: “Non vale”, ma era inutile: il bambino nel cortile era stato sconfitto, e restava solamente Alessio Scarpi minuscolo in un San Siro enorme e nerazzurro.
[Poiché ieri in serie A non c’è stato alcun risultato sorprendente, sulla stretta attualità mi limito a una considerazione di carattere generale: Kakà è Kakà, ma i soldi sono soldi.]
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