mercoledì 21 gennaio 2009

Fuga dalla provincia emiliana

(Gurrado per Il Sottoscritto)

Si potrebbe ravvisare un’apparente discrepanza nella paginetta conclusiva de L’emiliana che Carla Cerati dedica ai ringraziamenti: nel breve giro di tre capoversi definisce il suo ultimo libro prima “racconto” e poi “romanzo”. Presumendo fondatamente che la trentennale carriera letteraria consenta alla Cerati di distinguere senza difficoltà l’uno dall’altro, è interessante domandarsi a quale dei due generi vada ascritto il testo in questione. Romanzo senz’altro, se consideriamo non tanto le dimensioni (ormai siamo abituati a romanzi ben più brevi di centosessanta pagine, per quanto queste possano essere stampate con un carattere comodo) quanto soprattutto la struttura: L’emiliana si compone infatti di quattro parti di lunghezza più o meno costante – con la seconda che un po’ difetta – scandite dai principali cambiamenti avvenuti nel fluire della vita di Emilia, l’emiliana del titolo, che piuttosto scopertamente dovrebbe essere destinata a incarnare tutta la sua felice regione geografica.

Se la struttura è romanzesca, L’emiliana mantiene tuttavia un’andatura narrativa molto più simile al racconto lungo. È anzi decisamente da considerarsi racconto, proprio nel senso di resoconto, se si considerano i numerosi inserti con i quali la narratrice corrobora la storia di Emilia, piazzando qua e là delle testimonianze simil-documentaristiche che riportano fugaci testimonianze della protagonista. Queste testimonianze, tuttavia, vengono inserite ora fra virgolette ora in corsivo all’interno delle stesse frasi della narratrice e, lungi dal sortire l’auspicato effetto-vero, finiscono per spezzare il ritmo del discorso o peggio ancora per renderlo oltremodo artificioso, forzatamente giornalistico: “Emilia subiva l’autorevolezza di sua madre, più tardi la definì una dura”.

La vita della protagonista scorre liscia, fin troppo, nonostante la sua passione per il ballo (mah) e per il circo (mah) la spinga a tentare sempre nuove vie di fuga dalla provincia emiliana; in circostanze simili sarebbe compito della prosa dell’autrice vivacizzare la narrazione. Ciò purtroppo raramente avviene: il lessico è limitato a pochi rassicuranti lemmi, la loro disposizione nella frase è sempre la più consueta (soggetto-predicato-complemento), i periodi sono piuttosto brevi e non nascondono mai l’aspirazione a una costruzione sintattica che possa sorprendere e risvegliare il lettore.

Anche la struttura narrativa finisce per deludere, con il suo continuo procedere nel tempo a velocità di crociera, descrivendo una linea retta che prende Emilia alle elementari e ce la riconsegna donna fatta e maturata dagli eventi più o meno tristi di cui si compone la sua esistenza. Non solo non è presente il minimo scarto narrativo, tale da far preferire determinate pagine alle altre presentando delle scene clou per il prosieguo del resoconto, ma è del tutto assente anche qualsiasi sarcasmo o ironia nel procedere della narrazione, così che la figura della voce narrante risulti fin troppo aderente alla protagonista di cui offre la cronistoria – finendo per rendere inverosimili, a maggior ragione, le testimonianze virgolettate cui facevo riferimento prima. Perfino il rinomato umorismo emiliano, relegato a un paio di personaggi di passaggio in sottofondo, viene annacquato in un buonismo eccessivo, che rientra nel più generale disegno – dal quale la Cerati si fa troppo spesso prendere la mano – di spiegare pedissequamente ogni minimo dettaglio al lettore, così da non lasciar nulla alle sue facoltà intellettive. Tanto che di fronte al (chissà, forse legittimo) dubbio di una Tedesca che prima di darle un lavoro vuol sapere se Emilia venga da Napoli o da Milano, l’autrice si sente in dovere di illustrare: “Una domanda che conteneva un giudizio: i milanesi erano considerati puliti e affidabili, i napoletani sporchi e un po’ imbroglioni”.

L’emiliana è un romanzo in cui abbondano l’imperfetto e il trapassato prossimo, ossia i tempi verbali di chi pone intenzionalmente una distanza fra sé e ciò che narra; una distanza romantica, sulla quale cullarsi, fatta di rimpianto per una realtà idealizzata e stereotipa. C’è la trama, dunque, ma mancano del tutto la vivacità linguistica, lo scavo psicologico – e tutto ciò che consentirebbe di trovare un’identità precisa a questo libro che non è più un racconto e non è ancora un romanzo.

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