Si potrebbe ravvisare un’apparente discrepanza nella paginetta conclusiva de L’emiliana che Carla Cerati dedica ai ringraziamenti: nel breve giro di tre capoversi definisce il suo ultimo libro prima “racconto” e poi “romanzo”. Presumendo fondatamente che la trentennale carriera letteraria consenta alla Cerati di distinguere senza difficoltà l’uno dall’altro, è interessante domandarsi a quale dei due generi vada ascritto il testo in questione. Romanzo senz’altro, se consideriamo non tanto le dimensioni (ormai siamo abituati a romanzi ben più brevi di centosessanta pagine, per quanto queste possano essere stampate con un carattere comodo) quanto soprattutto la struttura: L’emiliana si compone infatti di quattro parti di lunghezza più o meno costante – con la seconda che un po’ difetta – scandite dai principali cambiamenti avvenuti nel fluire della vita di Emilia, l’emiliana del titolo, che piuttosto scopertamente dovrebbe essere destinata a incarnare tutta la sua felice regione geografica.
Se la struttura è romanzesca, L’emiliana mantiene tuttavia un’andatura narrativa molto più simile al racconto lungo. È anzi decisamente da considerarsi racconto, proprio nel senso di resoconto, se si considerano i numerosi inserti con i quali la narratrice corrobora la storia di Emilia, piazzando qua e là delle testimonianze simil-documentaristiche che riportano fugaci testimonianze della protagonista. Queste testimonianze, tuttavia, vengono inserite ora fra virgolette ora in corsivo all’interno delle stesse frasi della narratrice e, lungi dal sortire l’auspicato effetto-vero, finiscono per spezzare il ritmo del discorso o peggio ancora per renderlo oltremodo artificioso, forzatamente giornalistico: “Emilia subiva l’autorevolezza di sua madre, più tardi la definì una dura”.
La vita della protagonista scorre liscia, fin troppo, nonostante la sua passione per il ballo (mah) e per il circo (mah) la spinga a tentare sempre nuove vie di fuga dalla provincia emiliana; in circostanze simili sarebbe compito della prosa dell’autrice vivacizzare la narrazione. Ciò purtroppo raramente avviene: il lessico è limitato a pochi rassicuranti lemmi, la loro disposizione nella frase è sempre la più consueta (soggetto-predicato-complemento), i periodi sono piuttosto brevi e non nascondono mai l’aspirazione a una costruzione sintattica che possa sorprendere e risvegliare il lettore.
Anche la struttura narrativa finisce per deludere, con il suo continuo procedere nel tempo a velocità di crociera, descrivendo una linea retta che prende Emilia alle elementari e ce la riconsegna donna fatta e maturata dagli eventi più o meno tristi di cui si compone la sua esistenza. Non solo non è presente il minimo scarto narrativo, tale da far preferire determinate pagine alle altre presentando delle scene clou per il prosieguo del resoconto, ma è del tutto assente anche qualsiasi sarcasmo o ironia nel procedere della narrazione, così che la figura della voce narrante risulti fin troppo aderente alla protagonista di cui offre la cronistoria – finendo per rendere inverosimili, a maggior ragione, le testimonianze virgolettate cui facevo riferimento prima. Perfino il rinomato umorismo emiliano, relegato a un paio di personaggi di passaggio in sottofondo, viene annacquato in un buonismo eccessivo, che rientra nel più generale disegno – dal quale
L’emiliana è un romanzo in cui abbondano l’imperfetto e il trapassato prossimo, ossia i tempi verbali di chi pone intenzionalmente una distanza fra sé e ciò che narra; una distanza romantica, sulla quale cullarsi, fatta di rimpianto per una realtà idealizzata e stereotipa. C’è la trama, dunque, ma mancano del tutto la vivacità linguistica, lo scavo psicologico – e tutto ciò che consentirebbe di trovare un’identità precisa a questo libro che non è più un racconto e non è ancora un romanzo.
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