mercoledì 8 ottobre 2008

Grasso e sentimentale

(Gurrado per Books Brothers)

Durante la sua vita e dopo la sua morte, Giovannino Guareschi è stato rinchiuso in due gabbie reali e tre metaforiche. Le due gabbie reali sono state il lager nazista prima, per il suo rifiuto di aderire alla Repubblica di Salò conservandosi fedele al Re, e le carceri italiane poi, per lesa maestà di De Gasperi: Guareschi lo aveva accusato di aver scritto delle lettere che caldeggiassero un bombardamento alleato su Roma in maniera tale da esasperare ad arte gli animi contro i Tedeschi; e, poiché la perizia calligrafica gli aveva dato ragione, Guareschi fu giudicato colpevole e condannato a un anno e mezzo di galera.

La Storia ha già espresso il suo giudizio sui nazisti, e su De Gasperi si attrezzerà col tempo: in entrambi i casi, Guareschi ne esce da più che galantuomo. Più infide, meno individuabili e di conseguenza difficili a superarsi si rivelano le sbarre delle tre gabbie metaforiche e concentriche calate addosso al Guareschi scrittore. La prima è, tristemente, Don Camillo: com’è avvenuto ad esempio a Conan Doyle per Sherlock Holmes, il suo personaggio più celebre ha fagocitato la penna dell’autore invertendo il principio di causa-effetto e rendendo nel migliore dei casi totale l’identificazione fra autore e personaggio, ossia l’equazione Guareschi uguale Don Camillo (nel peggiore dei casi, invece, la poliedrica personalità di Guareschi è stata del tutto oscurata dal pretone, che grazie a riduzioni cinematografiche non sempre fortunate finiva per essere noto a un pubblico troppo vasto per poter apprezzare le sfumature del suo contrasto con Peppone e della mediazione del Cristo senza ricadere nella ritrita contrapposizione fra diavolo e acquasanta, di cui in Guareschi non c’è traccia). La seconda gabbia è la sua balzana posizione di intellettuale impegnato a destra in una nazione storicamente refrattaria a fantasie simili. La terza è l’etichetta di umorista che, applicata senz’altro a ragione, finiva per essere facile causa di una superficiale sottovalutazione dei pregi letterari e dei contenuti teorici di Guareschi, stante che alla quasi totalità della cultura ufficiale italiana tornava più che comodo limitare uno scrittore notoriamente dirompente negli angusti confini della narrativa di genere.

Mi pare dunque il minimo celebrare degnamente i cent’anni dalla nascita dell’autore che mi ha insegnato a leggere (e credo anche a scrivere) liberandolo da queste tre gabbie e ripercorrendo la sua produzione che soddisfi le seguenti condizioni: 1) che non abbia nulla a che vedere con Don Camillo; 2) che non sia esplicitamente politica (quindi niente Candido e simili); 3) che sia stata frettolosamente archiviata come produzione di sopravvivenza umoristica. Limando i tre gradi di sbarre dentro le quali solitamente Guareschi langue, si può ad esempio considerare con mente vergine La Scoperta di Milano (1941), il romanzo d’esordio in cui Guareschi mischia per la prima volta il resoconto autobiografico e lo sviluppo originale di cliché tipici della narrativa umoristica (pensate a Chesterton, a Wodehouse, allo stesso Campanile).

La Scoperta di Milano è un romanzo di formazione che coglie parallelamente i segni dell’evolversi dei tempi (tant’è vero che i capitoli sono datati e vanno dal 1916 al 1941), così che allo sviluppo del singolo protagonista Giovannino corrisponda uno sguardo disincantato sulle piccole debolezze connesse al progressivo ingrandimento dell’uomo medio che fra le due guerre guadagna il primo telefono o la prima automobile ma che irrimediabilmente sente sfuggirsi dalle mani la sicurezza e la serenità che caratterizzavano la sua vita di provincia. Segna inoltre la prima apparizione di Margherita, inizialmente nel ruolo di fidanzata e successivamente in quello – che le resterà eterno – di moglie; al suo personaggio sono connessi i due leitmotiv umoristici che costituiscono la cifra stilistica del romanzo: le sempre più lunghe perifrasi per evitare di chiamarla “moglie” (valga per tutte: “La dolce signora che una volta, con la scusa di farmi ammirare certi pregevoli affreschi del ‘500, mi indusse a entrare, celibe, in una chiesa per uscirne di lì a poco coniugato a vita”) e la pervicace conclusione di ogni capitolo con le stesse identiche parole proposte ogni volta in un differente contesto, secondo un tour de force stilistico per nulla banale. Soprattutto, l’ultimo capitolo senza data, in cui Giovannino muore, nonché la costante e talvolta decisiva presenza di un angelo custode incaricato (che, premonitore, si chiama Camillo) collocano con pochi tratti di pennello la parabola della vita del singolo protagonista e della sua famiglia entro un orizzonte più ampio, trascendente e sovrumano, la cui riproposizione domestica caratterizzerà quasi del tutto la produzione postbellica di Guareschi. Infine, come da titolo, il romanzo fornisce pagine e pagine di descrizioni della tipologia sociale milanese o milanesizzata che, nonostante il loro piglio bonario, puntano dritte al cuore dell’insensatezza e dell’alienazione connesse all’inurbamento lombardo; per levità e concisione La Scoperta di Milano resta forse il miglior romanzo di Guareschi e se, poniamo caso, domani lo scrivesse un esordiente con ogni probabilità si griderebbe al miracolo.

I due successivi romanzi di Guareschi esplorano ulteriormente la strada del cliché umoristico, stavolta senza alcun riflesso autobiografico. Il Destino si Chiama Clotilde (1942) forza allo stremo la tradizionale retorica del romanzo d’appendice, prevedendo il dénouement di una storia intricata e assurda in un epilogo, un “epilogone” e un “epiloghissimo”, e contemplando già nello sterminato sottotitolo la dicitura: “Romanzo d’amore e di avventura con una importante digressione la quale pure essendo d’indole personale s’innesta mirabilmente nella vicenda e la corrobora rendendola vieppiù varia e interessante”. Il Marito in Collegio (1944), “romanzo ameno” poi trasformato in film con Enrico Montesano (a decenni di distanza, si capisce), ripropone la quadriglia di equivoci e leitmotiv sulla quale si regge buona parte dell’umorismo letterario ma già mostra la corda: è evidente che Guareschi, scrivendolo, non solo si divertisse relativamente poco ma che soprattutto pensasse ad altro e sentisse l’esigenza di sperimentare nuove strade.

La datazione, al proposito, è illuminante: quando il romanzo appare in volume Guareschi si trova già da qualche mese nel lager di Sandbostel. È venuto irrimediabilmente a contatto con qualcosa di più grande di lui, che lo fa decisamente tornare sui suoi passi e ripescare l’afflato trascendente/sovrumano che aveva fatto passare sullo sfondo dopo La Scoperta di Milano; stavolta però lo supporta un talento umoristico affinato dalle successive prove narrative. Quando, nel 1948, Guareschi apre il suo dopoguerra raccogliendo dieci anni di bozzetti familiari e no a partire dal 1939, la tendenza si rende manifesta già dalle prime quattro pagine, dedicate al dramma dell’animella di un bambino che si smarrisce, trova ospitalità sul carrello della macchina per scrivere dell’autore, e poi non vuol più tornare con la sua trasparente madre perché s’è affezionato al campanello che proclama la fine della riga. Da questo momento, possiamo esagerare, Guareschi scrive per tutte le animelle smarrite: Lo Zibaldino (1948) alterna saggiamente i due binari che abbiamo evidenziato – da una parte il lessico famigliare, dall’altro il surreale mondo umoristico popolato da personaggi stilizzati che parodizzano la coscienza del lettore medio di polizieschi e simili. Lo Zibaldino è non solo gradevole ma soprattutto utile a notare gli scarti biografici che successivamente caratterizzano la produzione di Guareschi: la nascita di Albertino, guerra e prigionia, la nascita della Pasionaria; per culminare nelle sei pagine per nulla umoristiche intitolate “Ma il mio cuore è rimasto in Polonia”, dove si vede emergere sotto il Giovannino “grasso e sentimentale” un Giovannino magro e impaurito, che per mezzo del filo spinato si tiene lontano dal volgare fragore delle feste comandate, “lontano dall’odio di questa gente gonfia di veleno”. A partire da queste pagine, rinchiudere Guareschi nella gabbia del genere umoristico è un’operazione priva di senso e frutto di critica in malafede.

Lo stesso Giovannino, dimidiato e oberato dal peso di una divisa troppo larga, appare sperduto nel fondo bianco della copertina di Diario Clandestino (1949). In un mondo troppo pieno di retorica vittimistica, che a oltre sessant’anni di distanza ancora non sembra aver imparato come rapportarsi ai lager e alla violenza dell’uomo sull’uomo, colpisce oltremodo che uno scrittore umorista sia riuscito a intuire una soluzione pressoché all’istante, mentre veniva trasferito da Sandbostel a Beniaminovo a Wietzendorf. Grazie a un pregevole artifizio grafico di Diario Clandestino, risulta facile distinguere i due libri in uno. In corsivo c’è l’annotazione mesta, scoraggiata ma mai disperata della resistenza che Guareschi ingaggiò privatamente contro “la signora Germania” (“tu mi hai messo fra i reticolati, e fai la guardia perché io non esca. Io non esco, ma entra chi vuole. Entrano i miei affetti, entrano i miei ricordi”), uscendone vivo grazie al decisivo supporto del fattore trascendente, della fede in Dio, forse anche dell’angelo Camillo (“L’uomo è fatto così, signora Germania: di fuori è una faccenda molto facile da comandare, ma dentro ce n’è un altro e lo comanda soltanto il Padre Eterno. E questa è la fregatura per te, signora Germania”). Né mancano i momenti dell’umorismo più alto, il riso di dolore che folgora l’intelletto e uccide la disperazione: “Ho trovato un sasso davanti alla porta della baracca”, annota Guareschi il 30 settembre del ’44, “e l’ho portato a spasso per il campo – andata e ritorno – spingendolo avanti a piccoli calci. Per domani alle quindici ho appuntamento col sasso che ho lasciato in una buca davanti alla porta. Andremo ancora a spasso insieme. Si va molto d’accordo.”
L’altro libro, l’altra metà di Diario Clandestino è costituita dalle pagine scritte in tondo, che risultano a prima vista più propriamente ridanciane e non di rado – incredibilmente – quasi spensierate. Non è un controsenso, anzi è la ricerca del senso essenziale dell’umorismo stesso: sono i brani che Guareschi faceva circolare in manoscritto o più spesso leggeva pubblicamente e di nascosto ai compagni di lager per creare un collante umano (non nazionale dunque, né politico in senso lato) che aiutasse i giorni a succedere ai giorni e consentisse di arrivare vivi alla fine di tutto –secondo la generalizzazione del motto: “Non muoio neanche se mi ammazzano!”, con annesso necessario punto esclamativo. Da Diario Clandestino l’umorismo di Guareschi esce trasformato: non è più fine a sé stesso ma è umorismo di servizio, è addirittura il trait d’union paradossale che permette di mettersi in contatto con il sovrumano e l’ultraterreno accennati qua e là sin da La Scoperta di Milano.

Questo risulta evidente non solo dalla sconfinata produzione di satira politica che di lì a poco e per anni decisivi caratterizzerà Candido (nato nel 1945), né solo dall’ideazione di Don Camillo (nato nel 1948). Due libri più di tutti sono la traduzione pratica della nuova poetica umoristica dettata da Diario Clandestino e applicata già da La Favola di Natale, che venne letta pubblicamente allo Stalag XB nel dicembre 1944 e che venne recitata in grande stile un anno dopo, a Milano nel dicembre 1945, per mantenere la promessa delle sue ultime parole: “Se non v’è piaciuta / non vogliatemi male; / ve ne dirò una meglio / il prossimo Natale / e che sarà una favola / senza malinconia: / c’era una volta / la prigionia…”.

I due libri sono il Corrierino delle Famiglie (1954) e Vita in Famiglia (1968, l’anno della morte di Guareschi). Apparentemente si tratterebbe di una riproposizione dei temi già presenti nelle sezioni domestiche dello Zibaldino. Di fatto sia l’uno sia l’altro sono due piccoli capolavori stilistici per la capacità di creare circa seicento pagine di storie che ruotino sempre e unicamente attorno agli stessi quattro personaggi (Giovannino, Margherita, Albertino e la Pasionaria), con l’occasionale aggiunta della colfam Gio’ nonché di personaggi tecnicamente muti come la Fenomena (figlia di Albertino), Michelone (figlio della Pasionaria) e il cane Amleto. Corrierino e Vita in Famiglia sono il vero seguito de La Scoperta di Milano e testimoniano le due fasi successive della produzione di Guareschi. Il Corrierino raccoglie scritti successivi alla prigionia nazista ma precedenti a quella democristiana, per lo più dedicati alla definizione stessa del concetto di famiglia: sulla quale Guareschi non si dilunga in una sola pagina di teoria limitandosi invece a fornire una quarantina di esempi spicci, in cui il contenuto – per così dire, la morale della favola – è sapientemente tenuto nascosto dalle pieghe di un umorismo padroneggiato in maniera magistrale.

Vita in Famiglia è l’autunno del conservatore. Guareschi ha saggiamente deciso di non cristallizzare i suoi personaggi ma di farli crescere e invecchiare con lui. Giovannino perde colpi. Margherita si deprime. Albertino e la Pasionaria vanno a vivere con degli sconosciuti non prima di averli sposati. La ragazza madre Gio’, coi suoi slanci progressisti e le frenate del buon senso, è lo specchio del tempo, le istanze di una generazione che sente l’irrefrenabile impulso al cambiamento ma ogni tanto, saggiamente, si fa un po’ schifo da sola. Apparentemente innocuo, questo è il libro più politico di tutti, più umano, più drammaticamente consuntivo. Lungi dall’essere una mera raccolta, Vita in Famiglia sembra piuttosto un conversation novel, in cui i personaggi sono per lo più statici ma dialogano, combattono talvolta, portando avanti ciascuno le proprie idee strampalate, certi d’avere ragione ma accompagnati da un perenne sorriso di sconfitta. Mai come in Vita in Famiglia il sessantenne e inconsapevolmente moribondo Guareschi insiste a definirsi “grasso e sentimentale”: sintetizzando in due parolette di autodileggio il rapporto con sé stesso e quello con gli altri, nonché tracciando le coordinate cartesiane (fisiche e psicologiche) del giudizio della critica impegnata che l’avrebbe condannato in base alle apparenze.
Chiedo perdono nel caso in cui risultassi un po’ lungo, ma m’è parso che le nove righe e mezza dedicate a Guareschi dalla Garzantina meritassero una compensazione. Poi, sia chiaro, nessuno è obbligato a leggermi; sebbene portato avanti con i trucchetti imparati in qualche anno di attività letteraria domenicale, il mio è l’omaggio tardivo e inadeguato di un bambino che a nove anni e mezzo era riuscito a leggere tutti i libri di Guareschi che avesse trovato per casa, com’è ovvio senza capirvi un accidente. Però gli era piaciuto; e quando, quasi vent’anni dopo, lo stesso bambino – dotato frattanto di una formidabile barbaccia – ha deciso di rileggere sistematicamente tutti i vecchi Bur che gli avevano segnato l’infanzia e che erano finiti chissà dove, solo allora ha capito che indipendentemente dal leggerli nel 1988 o nel 2008 o nel 2068 i libri di Guareschi gli sarebbero piaciuti sempre alla stessa maniera perché non parlavano al rivestimento culturale o politico o idiosincratico di ciascuno, ma perché andavano vanno e andranno diritti al nocciolo dell’uomo, che è l’animella nuda comandata soltanto dal Padre Eterno. Per questo gli avrebbero sempre causato nel cuore un sentimento, un rimbalzo irregolare che non si può dire e del quale ebbe forse intuizione qualche secolo fa Dante Alighieri lì dove appunta: “perciò salta la penna e non lo scrivo”. Nel mio caso salta la tastiera del portatile, ma il senso è quello.

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