Diciamocelo, il libro più bello che ho letto quest’anno è
stato 4 3 2 1 di Paul Auster (Einaudi). Ne ho letti nel complesso
centoventiquattro, non tantissimi ma comunque superiori alla decente media di
dieci al mese che credo consenta di farsi un panorama ampio della cultura
presente e passata; per la futura c’è ancora tempo. A posteriori, controllando
sull’elenco di letture che tengo a mano su fogli volanti da più di vent’anni,
ho scoperto che contrariamente alle mie abitudini nel 2018 ho privilegiato la narrativa
straniera, sul cui podio dietro Auster porrei 7 di Tristan Garcia (NNE
edizioni) e, se proprio vogliamo un libro senza numeri nel titolo, Un romanzo
russo di Emmanuel Carrère (Adelphi). Poca narrativa italiana e pochissima
nuova, visto che il panorama è quel che è, ma dovendo scegliere premierei Il
gioco di Carlo D’Amicis (Mondadori) davanti a Il quinto Evangelio di Mario
Pomilio, che è un gran classico del 1975 saltatomi in grembo da una bancarella
la scorsa primavera, e Gli 80 di Camporammaglia di Valerio Valentini
(Laterza). Quanto alla saggistica, prevale
La letteratura circostante di Gianluigi Simonetti (Il Mulino) sul monumentale Postwar di Tony Judt (Laterza), talmente monumentale che mi aspettava da un
bel po’, e su Dopo Dio di Peter Sloterdijk (Raffaello Cortina). La miglior
traduzione in cui mi sia imbattuto, a occhio, mi è parsa quella di Max
Bocchiola per Il libro delle illusioni, sempre Einaudi, sempre di Paul
Auster, così chiudiamo il cerchio.