lunedì 26 febbraio 2007

Apocalypse how?

(sabato 17 giugno 2006, copyright Ore Piccole)

[Alle volte perfino essere iscritti a un dottorato può tornare utile, specialmente se viene chiesto di produrre qualcosa che esula dall’argomento della tesi. Ad esempio ieri mattina io e le mie colleghe più o meno arrabbiate avevamo il dovere, l’obbligo e la tortura di dover esporre un rapido testo su un evento culturale del Novecento che illuminasse noi stessi e altrui sull’apocalisse dell’uomo ovvero, per così dire, sulla progressiva rivelazione, mediante la produzione umana, dell’uomo a sé stesso nelle sue caratteristiche più preziose e/o più tragiche. Si tratta del tradizionale giro di interventi in cui si inizia animati da un occasionale desiderio di onniscienza e si finisce, nell’attesa che arrivi l’ora di pranzo, a disegnare cuoricini e cazzi su un incustodito lembo del quaderno a quadretti della fidanzata che mi siede accanto. Il mio intervento, per ordine casuale il primo e quindi recitato in relativa lucidità, si intitolava (in Inglese) Apocalypse how? Metamorphosis and revelation of the wor(l)d in XX century Anglo-Irish novels, ed eccone di seguito un’ardita traduzione:]

La metà del XX secolo è caratterizzata da un rinnovato sforzo di dare un nuovo senso letterario al mezzo comunicativo necessario par excellence, la parola. Lo sperimentalismo nella letteratura del periodo, e in particolare quello di Joyce e Beckett, non è dettato né da un vacuo sensazionalismo né esclusivamente dalla necessità di superare le consuete strutture del romanzo definitivamente cristallizzate da Henry James; piuttosto, Joyce e Beckett percepiscono l’improvvisa inadeguatezza della parola scritta quale atomo per mettere insieme un mondo che rispecchi verosimilmente la contemporaneità che li circonda.
Ciò che pare loro evidente è che la singola parola non è più sufficiente all’espressione. L’opera di Joyce è significativa di questo travaglio, a cominciare da Dedalus (A Portrait of the Artist as a Young Man, 1916, che inizia: “Once upon a time… there was a moocow), e sembra progressivamente risentire del Jabbewocky, il linguaggio insensato di Lewis Carroll in Attraverso lo Specchio (Through the Looking Glass and what Alice found there, 1872: “’Twas brillig, and the slithy toves / did gyre and gimble in the wabe…”). Tuttavia, Joyce non si limita al pun per amore di puro divertimento: l’Ulisse (Ulysses, 1922), nel quale egli intendeva mostrare una nuova estetica umana interamente corporale (ogni capitolo corrisponde a un organo umano) e al contempo ripercorrere il sentiero di sofferenza ed espiazione di ebrei ed irlandesi (il protagonista, Leopold Bloom, è appunto un ebreo dublinese), accumula ostacoli linguistici sempre crescenti, come una vera storia universale (con tagli) della difficoltà di parola.
I luminosi e placidi capitoli del mattino sono seguiti dagli arzigogoli retorici dei capitoli pomeridiani, culminanti nelle Sirene, in cui la parola viene scritta esclusivamente per il suo valore musicale e la successione di una parola con l’altra costituisce una sinfonia con tanto di ouverture. I capitoli notturni, e in particolare Mandrie del Sole e Circe, sono frutto di una continua deformazione linguistica che si affida tanto agli arcaismi latineggianti (“Universally that person’s acumen is esteemed very little perceptive…”) quanto allo slang più estremo (“Your corporosity sagaciating OK?”).
Non tutti gradirono questo esperimento ma Joyce procedé con l’incoscienza dell’inevitabilità. Finnegans Wake (1939) non poteva che essere il suo ultimo lavoro, poiché di fatto costituito da un unico gioco di parole lungo più di seicento pagine - tanto che Joyce stesso ammise, in Francese: “je suis au bout de l’Anglais”, “sono all’estremo confine dell’Inglese”. L’inadeguatezza della parola, in questo caso, viene dimostrata servendosi delle cosiddette mots-valises, ovvero parole che riuniscono in sé più sensi di più lingue, giocando sul doppio senso fonetico word/world: ad esempio, “jungfraud mesonge” mette insieme Jung, Freud, Jungfrau, frode, mesonge, maison, songe, significando grossomodo “un sogno menzognero fatto in casa da una vergine frodata da Jung e Freud”. Non è solo una maniera di risparmiare saggiamente spazio e carta, ma anche di ottenere un testo universale di carattere peculiarmente fonetico che Joyce intendeva rivolgere a “that ideal reader suffering from an ideal insomnia”, “quel lettore ideale che soffre di insonnia ideale”; il caso più celebre è la lunghissima parola che, giustapponendo il termine “tuono” in decine di lingue, ne riproduce il suono:
“Babadalgharaghtakamminarronnkonnbronntonnerronntuonnthunntrovarrhounawnskawntooohoordenenthunnuk!”
Anthony Burgess ritenne Finnegans Wake “un glorioso fallimento”, come forse era inevitabile poiché si trattava di un processo teoricamente infinito; Joyce stesso pare adombrare questo sospetto quando esclama: “shun the punman!”, ovvero “bandite chi gioca con le parole!”. Dopo la morte di Joyce (1941), il tentativo fu portato avanti da Samuel Beckett (secondo il suo motto “fail again, fail better”, “fallisci di nuovo, fallisci meglio”), il quale scelse però la via inversa per rivelare una nuova densità della parola umana: dove Joyce aggiungeva, Beckett levava. Il romanzo Watt (pubblicato nel 1953, ma composto in piena seconda guerra mondiale) persegue l’intendo di ridurre il mondo reale a mera realtà logico-linguistica: in ciò, il protagonista eponimo è un vero e proprio Watt-genstein, ma la domanda implicita nel suo nome (“what?”, tipica di chi non ha capito un testo) è necessariamente votata allo scacco per l’incommensurabile distanza fra cose e parole. Non a caso la risposta è conservata nel nome del deuteragonista, Knott, che si pronuncia come “nought”, cioè “nulla”.
Dopo questo, non è casuale che Beckett scelga di non scrivere più in inglese ma in francese, dichiaratamente per neutralizzare il proprio stile e quindi scegliere le parole con adeguata parsimonia. La sua produzione progredì come una candela che si consuma e necessariamente allontanandosi dalla verbosa narrativa. Film (1965), che venne poi interpretato da Buster Keaton, è un cortometraggio di venti minuti in cui non viene pronunziata (né inquadrata) una parola. Peggio ancora, Respiro (Breath, 1969) è una rappresentazione teatrale che dura una trentina di secondi e che consiste nel pianto di un bambino, in una luce che diminuisce, e infine nel rantolo di un moribondo. Tuttavia, Beckett sembra essere riuscito dove Joyce aveva fallito. Spegnendo la parola fino allo zero assoluto verbale, è giunto alla rappresentazione del nulla comunicativo; se non che, per rappresentarlo, ha dovuto in qualche modo comunicarlo, e infatti tanto Film quanto Respiro sono disponibili in forma di pagine di libro, nella sua costosa opera omnia. Col procedimento inverso a quello di Joyce, Beckett è riuscito a inventare un silenzio scritto che rigenera la parola umana come una fenice (o, avrebbe scritto Joyce, “a phornix”, una “fenice pornografica che fornica in una fornace”).

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