lunedì 26 febbraio 2007

Houellebecq, Mirabeau e la sindrome da vita eterna



(domenica 25 giugno 2006, copyright Ore Piccole)




Manca poco all’ultima Messa in Latino dell’anno (accademico): è giusto che anche i cantori gregoriani modenesi, benché il servizio divino dovrebbe essere auspicabilmente perpetuo ed ininterrotto, vadano in vacanza a luglio e agosto - se non altro per non stramazzare sotto le vesti bianche di medio peso che indossano per ragioni sceniche. Il Duomo di Modena d’altra parte è luogo relativamente fresco; il buio favorisce la contemplazione; gli infiniti volti di marmo umani ed animali tanto all’esterno quanto all’interno rendono l’idea dello spaccato verticale dell’estetica del creato (dall’orribile al miserrimo, direbbe Woody Allen); la tomba di San Geminiano dà ragione della brevità della vita e dell’eterna salvazione. Bisognerebbe entrarci, nel Duomo e non già nella tomba di San Geminiano, almeno una volta al dì, possibilmente prima di colazione e non necessariamente ad ora di messa, perché anche l’anima vi trovi sollievo dalle caldane come il corpo dalla calura; bisognerebbe quotidianamente meditare sul giorno che verrà ultimo o che potrebbe essere il primo del rinnovamento; bisognerebbe lì inginocchiarsi e, tacendo, lasciare che Dio pensi per noi. Invece siamo pigri e restiamo in camera, almeno chi può, col condizionatore cautamente acceso.
Sembrerà poco correlato, ma per le elezioni del 2004 la coalizione che di lì a poco avrebbe sostenuto quasi in massa la fecondazione eterologa (e in prospettiva l’eugenetica, la clonazione, l’abolizione del sesso e la conseguente dannazione eterna) s’inventò contro il carovita un manifesto arancione di raro impatto, su cui campeggiava la scritta solenne: Arrivi a fine mese?. Messa di fronte al policlinico Gemelli, dove mi trovavo a passare (benché sanissimo) in quei giorni, la domanda aveva lo stesso effetto iettatorio che suscita nell’acquirente de La Possibilità di un’Isola di Michel Houellebecq (Bompiani, 2005) quella insinuata su fondo scuro in quarta di copertina: “Chi di voi merita la vita eterna?”. Viene voglia di rispondere come Sant’Agostino (“Signore, donami la castità e la continenza, però non subito”) e di rimpiangere di non esser nati in Inghilterra, dove le pretese intelletual-coscientistiche vengono messe da un canto, e sulla copertina dello stesso libro una bella musa sbuca in bikini dalle acque salate.
E ora, a completare un quadro sempre più cubista, il libro di Daniele: nel quale sono contenute dettagliate profezie circa il nostro futuro - ormai inascoltate poiché siamo troppo presi dal cercare l’oroscopo sulle ultime pagine del Resto del Carlino. Dal mare (Daniele 7,3) si vedono emergere non già quattro ninfette ma quattro bestie, a significare le future età della storia umana: l’ultima, la più temibile, ha dieci corna più un ulteriore corno che le spunta in extremis; esso corno aveva “occhi simili a quelli di un uomo e una bocca che parlava con alterigia”. Tutto si spiega, e tutto ha a che vedere con Houellebecq, come si accorgerà presto l’unica lettrice che ha resistito finora (e se ha resistito sarà perché è innamorata, e se lo è la ringrazio e quasi quasi la ricambio): non solo non è un caso che il protagonista de La Possibilità di un’Isola si chiami Daniel, ma ancor meno è casuale che a prima vista risalti all’occhio la distribuzione biblica dei capitoli, che vengono segnati, saltabeccando, da Daniel 1,1 a Daniel 25, 14. Il romanzo di Houellebecq è esattamente una visione di un futuro probabile e come tale inquietante: con la differenza che Daniel1 è un signore come me, benché decisamente più ricco, il quale si limita ad intuire ragionando la prossima degenerazione; mentre Daniel25, e prima di lui Daniel24, sono i suoi cloni che via via si susseguono nei secoli, come dimostra il numero ordinale, e che via via commentano il diario del proprio originale.
A Daniel, comico di fama europea dalle pretese intellettuali, la vita non basta. Nietzschianamente e banalmente parlando, l’uomo gli appare troppo umano: nel riso, suscitato dai suoi stessi sketch, riconosce “lo stadio infernale e supremo della crudeltà”; nel pianto dei neonati vede una sofferenza intollerabile sconosciuta a qualsiasi altro animale; e in generale il solo fatto di esser nati uomini gli pare precludere ogni possibile felicità, con l’aggravante che se ne avverte in ogni cuore il desiderio inesausto (ma Houellebecq, viene il dubbio, ha letto Leopardi? e se lo ricorda?). Figuriamoci il sesso, al quale l’uomo dedica tanta energia e Houellebecq tanta attenzione sin dai suoi esordi, nei minimi dettagli: al proposito è indicativo il personaggio di Isabelle, amante del protagonista, che accetta di accoppiarsi solo da tergo come gli animali e, quando decide che s’è innamorata e può scopare di faccia, da donna a uomo, si rende conto che è l’inizio della fine.
Queste affermazioni mi han fatto venire in mente un libro per certi versi parallelo, benché composto nel 1783. Mirabeau, ne La Mia Conversione, ovvero Il Libertino di Qualità, non ha remore a dichiarare (e Houellebecq sottoscriverebbe): “Mi piace molto fottere. Ma poiché il buon Dio non ha voluto che scoprissimo il moto perpetuo, bisogna pur fermarsi a un certo punto, poiché questo gioco stanca prima di annoiare”. Tuttavia, poche righe dopo si ricrede, e pare come se lo spirito di Houellebecq gli si fosse insufflato, quando dichiara che in fin dei conti “eliminate i preludi del godimento e le frasi magiche che, facendoci risalire dall’estasi, così spesso ci aiutano a ricaderci… e la noia sbadiglierà con noi sul seno delle nostre belle: l’amore sfugge, lo sciame dei piaceri s’invola, e ci addormentiamo per non ridestarci mai più.”
Houellebecq e Mirabeau concordano su un punto: il sesso è animale, ma per renderlo un piacere sopportabile bisogna umanizzarlo, parlarlo, razionalizzarlo e così la noia che è in agguato lo avvolge, lo sterilizza e ci fa morire. Ci vuole, per uscirne, la vita eterna, e non è necessariamente questione di tempo: Woody Allen, sempre lui, ci insegna che “molti studiano come allungare la vita, quando invece bisognerebbe allargarla”. Per sfuggire alla propria stessa caducità, Mirabeau corre per così dire di fiore in fiore, copulando con chiunque (si tratta sempre e solo di femminucce, grazie al cielo) gliene faccia richiesta auri sacra fames (“per vile desiderio di denaro”; è Virgilio, ignoranti). Tuttavia duecentoventidue anni non passano invano, e Houellebecq può permettersi soluzioni più sofisticate: ciò che preme tanto a lui quanto a Daniel1 è la progressiva estinzione del sentimento, e con esso del desiderio e di ogni possibile complicazione (provate ad andare a letto con una laureata e ne riparliamo) - un po’ come quando, dice, una coppia scoppia e si lascia al suono di “Però restiamo amici”, ovvero estinguiamo un po’ del sentimento forte che ci univa come amore e ci divide quale odio, manteniamo legami tenui e corde lasche e non resteremo strozzati. È a questo punto che, con gran squillo di trombe, entra in campo, decisiva, la religione.
Mirabeau, se si vuol prendere per buona l’ipotesi che l’io narrante fosse pienamente autobiografico, d’un tratto pare stancarsi di correre la cavallina, in senso letterale, e cerca requie dapprima in campagna e soprattutto in un convento; sbaglia però i suoi conti, poiché capita in un convento femminile, scopre qualità non sospettabili delle monachelle e può così, rinfrancato benché sudaticcio, tornare in società più forte e più superbo che pria. Mirabeau è un figlio dell’Illuminismo, Houellebecq un bisnipote troppo sgamato per lasciarsi infinocchiare tanto dal Cattolicesimo quanto dal suo gemello scemo, l’anticlericalismo. Consente dunque che Daniel1 venga avvicinato dagli Elohimiti, sottospecie dei Raeliani che credono nell’avvento di marziani molto più intelligenti di noi e anche di Gianni Vattimo, i quali marziani come ci hanno creato così ci distruggeranno, o meglio ci insegneranno a eternarci in una specie più evoluta a mezzo clonazione; dall’altro canto, Houellebecq si guarda bene dal permettere a Daniel1 di essere troppo partecipe dell’entusiasmo che caratterizza i suoi semi-cosettarii, e lo lascia figura di sfondo nel processo di successiva disumanizzazione e riumanizzazione.
Per prima cosa, gli Elohimiti combattono la riproduzione in sé e per sé: col motto Just Say No: Use Condoms, intraprendono un battage televisivo volto ad eliminare i marmocchietti piangenti e/o sbrodolanti a casa e/o in luoghi pubblici. La prima impressione di estrema libertà sessuale, che quest’idea ingenera e sulla quale gli Elohimiti fanno leva in prima istanza, lascia successivamente strada a progressive noia e stanchezza (ma no!); la riproduzione, o meglio la perpetuazione della specie, viene garantita per clonazione (donde la fecondazione eterologa, il referendum, l’Arrivi a fine mese? e così via: abbiamo capito per chi votano gli Elohimiti), e produce una discendenza di Daniel-n completamente uguali al Daniel primigenio, però molto più disincantati e per questo, paradossalmente, meno cinici e sofferenti. Il sesso diventa una questione di byte e di IP - come è per gran parte degli adolescenti d’oggigiorno, capaci di disegnare a memoria ogni piega dell’apprezzabilissima fica di Jenna Jameson ma molto poco istruiti riguardo a come si sbottona un reggiseno con la sola mano sinistra, per la strada. La vita eterna è garantita, la morte dei cloni diventa una mera questione di turnover.
La Sibilla di Cuma, nel più celebre aneddoto del Satyricon (talmente celebre che lo conosco anch’io), viene dipinta da Petronio come una larva immortale in un’ampolla; quando i ragazzini le giocano attorno e scherzando le chiedono “Sibylla ti teleis”, “Sibilla che vuoi”?, la vecchissima risponde: “Apothanein telo”, “Voglio schiattare”. Più o meno la stessa cosa dicevo io quando mi ritrovavo invischiato nelle pagine particolarmente pretenziose o, peggio ancora, nei versi liberi con cui Houellebecq infarcisce il libro, soprattutto la prima metà, rendendolo almeno di duecento pagine troppo lungo. Man mano che leggevo ho infatti capito il motivo che ha portato il mio predecessore (Gurrado-1?) nella lista dei prestiti bibliotecari a tenere presso di sé un romanzo di lunghezza media per tre mesi e mezzo: non va giù, non va giù, non va giù e quando il romanzo inizia davvero sembra già troppo tardi. Voglio schiattare, dice anche in un certo qual modo Daniel25 nel finale a (relativa) sorpresa, quando decide che ne ha abbastanza della vita da clone e favoleggia un ritorno all’umanità in cui ogni donna, bestialmente, gli offra le terga quale generoso benvenuto.Come finirà il romanzo, come finiremo noi? La prima non posso dirla, la seconda non la saprò mai, a meno che non arrivi il giudizio universale nel giro di cinque minuti - nel qual caso mi troverei in forte difetto, visto che la Messa Latina è iniziata da un pezzo e io sono ancora sotto il condizionatore, artrosi nonostante. Houellebecq ha preferito svilire il sesso inserendolo in un disegno razionale troppo grande per non angustiarlo; ha retrocesso l’uccello a suo secondo organo favorito (le citazioni da Woody Allen oggi si sprecano) e gli ha preferito il cervello, come se fosse un Francese qualunque. Ha dimenticato cosa scrive Mirabeau: “Partigiani della demografia! Smidollati economisti! Tutti i vostri preti, noiosi fanfaroni privi di coglioni, hanno la pensione, mentre io uso il mio cazzo senza frutto e senza onore (…) Eh, perdio! se invece di un maestro di scuola avessero insediato in ogni villaggio un consigliere di erotismo, i contadini, cavalcando le loro bestie, non avrebbero pensato di venire a mangiare i panini della capitale… Un tempo Apollo suonava la lira col fallo… Ahimè! non sta più ritto, e l’ha sostituito con la mano!”. Magari presto Houellebecq tornerà a scrivere un libro bello e disperato come Estensione del Dominio della Lotta, bello e tagliente come Le Particelle Elementari, bello e porco come Piattaforma: per ora, accontentiamoci. Magari un giorno si scopre che Houellebecq è Mirabeau25.

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