lunedì 26 febbraio 2007

Faccio un esempio

(domenica 20 agosto 2006, copyright Ore Piccole)

Mi piace leggere i giornali e, se potessi, in tutta la mia vita non farei altro. Più ancora mi piace conservarli nel tempo o saccheggiarli dai rifiuti delle zie per ripigliarli a distanza d’anni, a proposito o a sproposito, giocando al contrappunto storico. Non si capisce bene chi ha vinto le elezioni? E io disseppellisco la Padania del 15 maggio 2001. Oppure, contro il logorio del calcio moderno, trovo estremamente consolante poter leggere Vladimiro Caminiti che solfeggia riguardo alla Sampdoria di Vialli su un disfatto Guerin Sportivo del 1990. Non è raro che mia madre mi veda curvo su un rotocalco e chieda: “Cosa leggi?” “Un’intervista a Sciascia.” “Ma Sciascia è morto.” “Ma il giornale è dell’ottantasette.” Se invece la necessità mi costringe a leggere un quotidiano del giorno stesso, è mia perizia evitare con cura le notizie fresche (che, come le fidanzate, oggi ci sono e domani macché) provvedendo a cercare ricordi, aneddoti, anniversari e tutto ciò che può riferirsi al tempo che fu, quando i morti erano vivi.
Non è soltanto una maniera per ribadire la preminenza della Storia sulla cronaca, né un esercizio spirituale per prepararsi al tempo che sarà, quando i vivi (me compreso) saranno morti. Trattandosi delle pagine che vengono saltate dalla chiassosa maggioranza dei lettori, troppo affamata di carne fresca e ripetitiva, scovare fra le righe del giorno prima le vestigia della storia minima mi consente anche di mettere da parte tutto un armamentario di citazioni dotte per sbalordire il pubblico (“E come fai a saperlo?” “L’ho letto sul giornale”) e per sviarlo qualora si venisse chiamati a parlare all’improvviso di un argomento che non si conosce.
Ad esempio, qualche settimana fa mi è capitato di dover introdurre una mostra di pittura organizzata dalla sezione di Gravina dell’Archeoclub d’Italia della quale mi onoro di far parte. Essendo il membro più giovane del club, e come tale il più incompetente, si era ritenuto opportuno che facessi pubblico sfoggio delle mie incapacità; tanto più che non posseggo alcuna padronanza di tecniche artistiche, confondo un colore con l’altro (si chiama discromia, ed è la versione variopinta della dislessia) e a stento riesco a distinguere Mirò dai Maestri Comacini, con conseguente panico mio e di chi mi aveva offerto di parlare.
Tuttavia al mattino (era sabato) avevo letto su La Stampa che Miguel de Unamuno, ricevendo una prestigiosa onorificenza dalle mani del Re (Alfonso XIII, mi pare), aveva ringraziato con le precise parole: “Grazie, Maestà, me la merito proprio.” Alfonso XIII, meravigliato, aveva controbattuto: “Eppure, professore, tutti coloro che l’hanno preceduta dichiaravano di non esserne all’altezza.” E Unamuno, senza perdersi d’animo: “Avevano ragione, Maestà, non la meritavano affatto.”
Tanto raccontai agli astanti, con piagnucolosa nostalgia borbonica, e spero che nessuno abbia creduto sulle prime che Miguel de Unamuno fosse l’autore degli acquerelli (o tempere? non ci ho mai capito un’acca) che ritraevano scorci diversi di Gravina e che indegnamente presentavo. Specificato che invece il pittore si chiamava Giuseppe Marino, e che non avevo avuto in precedenza l’onore di conoscerlo (io essendo raramente a Gravina e per lo più in periodi morti), mi ritenevo in grado senza trucco e senza inganno di ricostruirne non già la carriera professionale, per la quale bastava leggere la brochure che pieghettavo gesticolando, quanto il percorso interiore che doveva averlo portato a cercare nuove soluzioni per un soggetto ritrito.
Ritrito perché, informo chi non dovesse saperlo, Gravina trabocca di Gravina stessa. Su quarantacinquemila abitanti, almeno cinquantamila hanno dato libero sfogo alle proprie velleità poetiche, pittoriche, scultoree, geografiche, archeologiche, dialettali, musicali, storiche, teatrali, narrative, cinematografiche, saggistiche: utilizzando quasi sempre Gravina come panorama, specchio e tavolozza; e io in coda a questi, gravinesizzando gli ambienti di entrambi i miei romanzi, anzi - nel secondo e per ora ultimo - presentandone alcuni scorci in diversi orari della stessa giornata, con un esercizio al limite della monomania. Si vede che Gravina ispira, seppure con alterni esiti; ma si vede anche come a me, al maestro Giuseppe Marino e a tutti i restanti artistici gravinicoli debba essere capitato capitato un momento in cui il demonio meridiano (miscuglio terreno di sfaticataggine, lamentosità, scetticismo e rassegnazione) ha sussurrato all’orecchio: “Di nuovo Gravina? Come se non bastassero tutti quelli che l’hanno pittata prima di te. Come se non bastasse scendere per la strada e vedere ad occhio nudo quello che impieghi giorni interi o forse mesi a ricopiare. Perché ti ci metti pure tu?”
A questo demonio, magari incarnato in un conoscente come suole gran parte dei diavoli, sono sicuro che il maestro Giuseppe Marino debba aver dato la stessa risposta di Unamuno ad Alfonso XIII: “Perché me lo merito.” C’è un atto di presunzione, un presupposto di onnipotenza in ogni scrittore di fronte a un foglio bianco e in ogni pittore che solleva il pennello in attesa di abbattere il primo e indelebile colpo. Dopo secoli di letteratura e di arte, dopo tutte le collezioni di capolavori impacchettate e vendute in allegato al CorSera e a L’Espresso, l’unica scappatoia possibile per il pittore e per lo scrittore è l’infantile menzogna di ripetersi: “Io me lo merito, mentre chi mi ha preceduto non se lo meritava.”
Arrogarsi questo diritto, però, significa anche prendere un impegno, non tanto verso il pubblico quanto nei confronti di coloro dei quali, ripercorrendone le orme, si profana e al contempo si onora la memoria. La pedissequa reiterazione del già fatto, che pure caratterizza buona parte del sottobosco artistico, è il correlativo poetico dell’asfissiante presenza di virgolette a caso su targhe, cartelli e manifesti sparsi per strada (Mangiate la nostra “uva regina”, oppure Zona a “traffico limitato”, o meglio ancora Invochiamo “Padre Pio” in nostro soccorso). Il fatto che chi copia pari pari una cosa già prodotta non lo sappia, o ritenga di averla fatta meglio, non importa così come non importa che chi usa troppe virgolette sia convinto che si chiamino parentesi. Importa invece che ogni soggetto vecchio, per diventare opera nuova, ha bisogno dell’impronta dell’autore, come la pancia di Hitchcock che si staglia sulla pellicola di ogni suo film.
Il maestro Giuseppe Marino, onore al merito, cos’ha combinato? Ha riproposto, nella mostra che mi circondava mentre ne parlavo, i più tipici paesaggi gravinesi, i più noti palazzi gravinesi, le più sputtanate produzioni gravinesi, e se si fosse limitato a questo sarebbe stato l’ennesimo di una serie di uguali. Ma in ogni quadro ha lasciato un segno del suo passaggio, visibile soltanto a un secondo e più attento sguardo: la panoramica della gravina che dà il nome al paese è decorata di microscopici stendardi col giallo-blu comunale messi al posto dei panni stesi ad asciugare; il ruscelletto qualsiasi che scorre davanti a un olivo qualsiasi esce dal quadro e rovescia le proprie acque in uno dei mille secchi usati dai nonni di tutti per attingere ai piloni; la Cola-Cola prende vita svolazzante e razzola sulla verde spianata della Madonna della Stella, all’incrocio fra le due strade romane che conducevano al mare.
(Nota necessaria: la Cola-Cola, lungi dall’essere una sottomarca di bevande eccitanti, è un’ocarina di terracotta a forma di uccello bianco a strisce rosse gialle e blu: si soffia nella coda e, nonostante i miei fallimentari tentativi, dal becco dovrebbe uscire una lagna intollerabile. Sebbene la produzione di fischietti decorati sia tipica di Rutigliano, a una settantina di chilometri da qui, dove assumono le più varie sembianze, l’ocarina uccelliforme è tipica di Gravina, e nessuno ce la leva. Per questo motivo il Sindaco, di cui non ricordo il nome, appena eletto ha provveduto a farne piazzare una riproduzione enorme all’ingresso principale del paese, mastodontico monumento alla Cola-Cola ideal eterna in cui potrebbe soffiare solo un gigante dieci volte più grande di me. L’innovazione è valsa a Gravina un editoriale della Gazzetta del Mezzogiorno, o stampa simile, intitolato Il paese dei lunghi fischietti.)
I quadri di Giuseppe Marino hanno messo in atto ciò che teoricamente si dovrebbe fare quando si riceve la visita di un forestiero. Se in questi giorni d’estate avessi il coraggio di invitare qualche amica, per carità una per volta, a casa mia (coraggio che mi manca in quanto per prima cosa vedrebbe, arrivando da Bari, l’immane Cola-Cola King-Kong), sarebbe educato mostrarle non già la mia collezione di giornali d’antan bensì le bellezze di Gravina, alle quali sono già stati dedicati stornelli, madrigali, odi e sirventesi. Mostrandole le grotte di San Michele, o la chiesa di Santa Sofia, o il Museo Ettore Pomarici-Santomasi, mi ritroverei davanti per l’ennesima volta cose già viste di giorno in giorno; ma non mi annoierei perché, raccontandole il consueto, lo vedrei con occhi nuovi - come l’ha visto il maestro Giuseppe Marino, con gli occhi dell’artista che ricreano il circostante.Solo dopo aver finito di parlare, congratulando il maestro e venendone congratulato, il mio sudore mi ha fatto capire perché, dopo i due romanzi gravinesi, ho scritto una raccolta di racconti da corsa, che scappano nell’Inghilterra del Seicento e nella Grecia preclassica, all’università di Pavia e nella Russia zarista, alla corte di Carlo V d’Asburgo e in Vaticano fra settant’anni, e che attendono di venir pubblicati rimbalzando su e giù per lo spazio-tempo in cui io stesso vorrei (con almeno un’amica in dotazione) dileguarmi.

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