lunedì 26 febbraio 2007

Non è una novità


(mercoledì 9 agosto 2006, copyright Ore Piccole)


Ne è trascorso di tempo da quando i meritevoli Cochi Ponzoni e Renato Pozzetto - fidatevi, come sempre arriveremo a parlare di romanzi - esprimevano le proprie concrete speranze di una poetica migliorativa (“Mi piacerebbe cantar una canzone intelligente”) in cui tutto riuscisse a tenersi (“che segua un filo logico portante”) sulla scorta del razionalismo post-illuministico (“e che sia piena di bei ragionamenti”) che tanta parte ha avuto nella formazione della nostra coscienza quotidiana di civili modernizzati (“che spieghi un po’ di tutto e un po’ di niente”). Era il 1974, o il 1973, e Cochi e Renato - fidatevi, la sto prendendo larga ma ai romanzi ci arriviamo - mostravano una notevole dimestichezza coi capricciosi gusti del pubblico (“Cosa ci vuole si sa, per far successo con la gente”) nonché con le pratiche editoriali (“la casa discografica adiacente / veste il cantante come un deficiente”) ed erano pronti per scalare le classifiche più impervie (“lo lancia sul mercato sottostante”). Vivaddio, e il romanzo che c’entra?
C’entra. Il medesimo procedimento, infatti, può venire e viene applicato al mercato cartaceo. Mescolando i medesimi ingredienti è più o meno matematico ottenere un risultato di notevole soddisfazione; quello che Cochi e Renato si proponevano era di ottenere un prodotto discografico “che farà cantar, che farà ballar lo sciocco in blu” - o “lo shocking blue”: è una vexata quaestio che nemmeno don Benedetto Croce sarebbe riuscito a dirimere, buonanima. Dice a questo punto l’accorto lettore: “Bravo Gurrado, abbiamo capito che invece di studiare alla morte la Revue Voltaire o gli Studies on Voltaire and the Eighteenth Century, ciò per cui in fin dei conti ti pagano, preferisci immergerti nel cult trash-back di quand’eri ancora in mente Dei; non solo, ma ci vieni a contare fregnacce quando ci spetta la consueta recensione del mercoledì (che è il posticipo della precedente recensione del sabato, a sua volta posticipo della recensione del mercoledì precedente); sarebbe a dire che noialtri desideriamo, esigiamo, pretendiamo la recensione de Il Medico di Corte, di Per Olov Enquist, riedito da Feltrinelli tre mesi fa; e tu invece manca solo che te ne sortisca con l’apologia di Novantesimo Minuto con Giorgio Bubba da Genova e Luigi Necco da Napoli, o con un volo d’angelo strutturalista su FF.SS., cioè…che mi hai portato a fare sopra a Posillipo se non mi vuoi più bene?.” Questa è l’accusa, e mai come in questo caso la trovo giustificata.
La parola alla difesa, cioè me medesimo. Guardiamoci in faccia: Il Medico di Corte non è una novità; non solo perché era già stato pubblicato da Iperborea nel 2001 (e a Stoccolma già nel ’99), e Feltrinelli l’ha ristampato in Universale Economica per via del pregresso successo di pubblico; non solo perché i personaggi erano già vissuti e morti in pieno Settecento, e forse sarebbe stato più vivace leggere l’Atlante Storico Garzanti. Non è una novità perché Cochi e Renato, più di tre decenni or sono, avevano già spiegato per filo e per segno il procedimento utilizzato dalla sinergie Enquist-Iperborea-Feltrinelli.
Il Medico di Corte è, parafrasando, un romanzo intelligente. Segue un filo logico portante: la storia di Johann Friedrich Struensee, bello buono e illuminista, che viene assunto nel 1768 quale medico personale di Cristiano VII, re di Danimarca un po’ scassato. A lui si contrappone la viscida figura del consigliere Guldberg, brutto cattivo e anti-illuminista, che se fosse stato delineato un po’ meglio sarebbe stato l’unico personaggio simpatico. Struensee (temo che si pronunzi Striunzy, e questo lo porrebbe sullo stesso piano di Henrietta/Faccia-da-Chiulo in Quattro Matrimoni e un Funerale) diventa amante della regina consorte Caroline Mathilde, giovane inglese e un po’ zoccola, con la quale progetta la rivoluzione volta ad accentrare nelle proprie manine laboriose tutto il potere di un futuro stato quasi repubblicano. La demenza di Cristiano VII - decisamente, c’è del marcio in Danimarca - dapprima sembra favorire i loro loschi disegni (che l’autore ossessivamente dipinge benèfici), invece diventa il grimaldello grazie al quale il provvidenzialmente perfido Guldberg li previene portando Struensee & c. al patibolo e, più sulla lunga scadenza, consentendo a S.A.R. Margrethe II di regnare ancor oggi dal giorno in cui (sarà un segno?) Cochi e Renato incidevano i loro primi vagiti.
Altresì, Il Medico di Corte è pieno di bei ragionamenti. Scrive ad esempio il pensoso Enquist (già pare di vederlo, affacciato su un fiordo col pennino in bocca, mentre partorisce il seguente paragrafetto): “Se l’Illuminismo ha un volto razionale e duro, quello della fede nella ragione e dell’empirismo in medicina, in matematica, in fisica e in astronomia, possiede però anche un lato più morbido, quello della libertà di pensiero, della tolleranza e della libertà” (è a pagina 106, giuro che non me lo sono inventato anche se mi sarebbe piaciuto). Insieme ad altri, quest’estratto da manualetto di filosofia riuscirebbe a far sentire brillanti perfino coloro che non hanno mai maneggiato in vita loro (che invidia!) l’Abbagnano-Fornero; infatti spiega un po’ di tutto e un po’ di niente, esattamente come le numerose riviste fondate da Striunzy, di cui l’Autore fornisce un ammirato resoconto sempre nella mirabile pagina 106, e nelle quali vengono affrontati i temi più disparati, dalle tasse all’afta epizootica, in cui l’illuminista illuministicamente “attribuisce al medico un ruolo politico, (…) appare animato da spirito critico nei confronti della religione”, e compagnia illuminando.
Ciò che colpisce non è tanto la assoluta mancanza di sense of humour di Enquist (ora, sarò razzista ma non mi illudo che in Scandinavia si ammazzino dalle risate), quanto la sua incredibile incapacità di usare un filtro ironico nei confronti di idee che avranno pur fatto (nel senso di caratterizzato) il loro tempo, ma che indubbiamente hanno fatto (nel senso che è finito) il loro tempo. Alle volte pare che Enquist non riesca a capacitarsi di come idee tanto buone possano non aver avuto successo o, più banalmente, venire superate da altre migliori. La posizione dell’Autore è tanto manichea (i buoni da una parte, i cattivi dall’altra o, per usare i termini di Renato Pozzetto - ancora lui - ne La Casa Stregata: “tutte le puttane di qua, tutti i froci di là”) quanto quella espressa dall’editore in quarta di copertina: “Struensee, di idee illuministe, è deciso a farne [di Cristiano VII] un riformatore, liberando il popolo danese dall’oppressione di una monarchia oscurantista e crudele”. Ci si aspetterebbe che l’idea di fondo, qui necessariamente sintetizzata, venga edulcorata da Enquist, resa più umana, mitigata dal germe del dubbio; invece si scopre, nel giro di trecentoventisei pagine, che viene esclusivamente diluita per guadagnare più spazio possibile.
Tanto più che, se la casa discografica di Cochi e Renato vestiva il cantante come un deficiente, nel caso di Enquist il medesimo ruolo viene assegnato per acclamazione al povero lettore. Supponendo che le capacità intellettuali di quest’ultimo tutt’al più eguaglino quelle di Cristiano VII (infatti, come potrebbe una persona comune essere più intelligente di un monarca illuminato?), l’Autore procede a raccontargli quattro anni di storia con una prosa più piana della cronaca locale su La Provincia ***. Esempio? Esempio; pagina 207: “Qui un tempo c’era un castello” - punto - “Qui lei giunse” - punto - “Aspettava un bambino” - punto - “E sapeva che era figlio di lui” - punto, a capo - “Come lo sapevano tutti” - punto, a capo - “Aspetto un bambino” - virgola - “aveva detto” - punto - “E noi sappiamo che è figlio tuo” - punto, a capo - “Lui l’aveva baciata” - virgola - “E non aveva detto nulla” - punto, a capo, e così via dall’inizio alla fine del romanzo. Non appena ho appreso che lo stesso Enquist ha pubblicato presso Feltrinelli Kids un volume per ragazzi, La Montagna delle Tre Grotte, ho preso d’impulso la decisione di sposarmi e riprodurmi quanto prima, al solo scopo di impedire ai miei figli di leggerlo, dovesse servire, anche a suon di ceffoni.
Io non mi azzardo a criticare la casa editrice (adiacente?) che lo lancia sul mercato sottostante, tanto più che tanto Iperborea quanto Feltrinelli hanno goduto di notevole successo nelle vendite, e chi vince ha sempre ragione; mi permetto soltanto di esprimere umano sostegno al vergatore della quarta di copertina, che immagino mordersi la lingua a sangue mentre si sforza di elogiarne “sapienza nella costruzione della trama e maestria nel tratteggiare personaggi, epoca, ambiente”. Io mi limito a rimarcare che ora, a lavoro compiuto, entra in scena il personaggio clou nell’arcano, la rotella decisiva nell’ingranaggio. Lo sciocco in blu (o lo shocking blue) è il professionista del mento alzato che spende centinaia di euro in libri e dvd che denunziano la grave vessazione censoria che attanaglia l’Italia; è il tizio che fa i bagni a Capalbio non prima di aver dichiarato che trascorrerà l’autunno a rileggere classici che ha solo sentito nominare; è il profeta no-logo che si presenta in spiaggia con la borsa di tela dell’editore piena di romanzi dell’editore vivamente consigliati dalla rivista dell’editore. Alle volte, invece che i romanzi, sarebbe meglio recensire i lettori.Adesso sapete che faccio? Apro le persiane e, sotto il cielo grigiolino, mi affaccio sulla terrazzina infossata dei vicini e mi metto a urlare: “Italiani! Avete dato un senso alla vostra estate? Avete deciso di lanciarvi nelle letture intelligenti? Avete acquistato Il Medico di Corte? Bravi merli: correte in libreria, inginocchiatevi sui ceci e implorate che ve lo cambino con Il Calligrafo di Voltaire di Pablo De Santis (Sellerio) o con Il Professore, Rousseau e l’Arte dell’Adulterio di Andrew Crumey (TEA), che costano più o meno lo stesso ma valgon…” - discorso che resterebbe necessariamente in sospeso perché i vicini possiedono, a quanto pare, una carabina.

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