sabato 21 luglio 2007

Y por donde?

(Ovvero, dice l'uno: "E perché?"; risponde l'altro: "E per dove?")

Tutto questo per significare

che Gurrado va in vacanza:

se ne riparla lunedì 6 agosto.

venerdì 20 luglio 2007

Si fa quel che si può

(Gurrado per Ore Piccole)

Io avrei usato le parentesi. Se devo pensare alla reazione del lettore (di quella particolare specie di lettore deambulante in libreria che di questi tempi si moltiplica indefinitamente, timoroso di restare deluso e annoiato dalle vacanze che tre mesi fa ancora gli sembravano divertenti ed entusiasmanti per ipotesi), ritengo che un paio di parentesi avrebbero dato più appeal al titolo (e di conseguenza maggior risalto alla copertina) dell’esordio narrativo di Paolo Di Mizio, affabile mezzobusto e caporedattore del Tg5. Ma Marsilio l’ha pubblicato in inverno; sono io che arrivo in colpevole ritardo con la recensione (colpevole fino a un certo punto: i libri non invecchiano tanto velocemente) così che non c’era bisogno di pensare al pubblico estivo e quindi niente parentesi.

Senza parentesi com’è stato pubblicato, il titolo del romanzo di Paolo Di Mizio suona: Storia di Giuseppe e del suo amico Gesù. A seconda di come il lettore imposta la lettura del titolo, a seconda di dove fa cadere l’accento, ecco che cambiano la prospettiva e il senso del romanzo. Iniziamo da Storia: sin dalle prime pagine (e sono quasi quattrocento) si ha la netta sensazione che Di Mizio stia scrivendo da giornalista. Mi spiego (non è un’offesa); Di Mizio non cerca l’alta letteratura né la difficoltà o la sorpresa del lettore, ma racconta e spiega al contempo (come dovrebbero fare i giornalisti in senso lato), e questo è un notevole vantaggio per un romanzo storico. Alle volte può apparire troppo didascalico ma, in questi casi, forse è meglio peccare per eccesso che per difetto. La lingua di Di Mizio scorre facile, i fatti si succedono ai fatti, le interpretazioni vengono tutte gentilmente suggerite. Ogni tanto si rimpiange una maggior scioltezza linguistica (ad esempio, mi sono molto interrogato sui soggetti pronominali, per i quali Di Mizio utilizza sempre “egli” ed “ella” come grammatica comanda; se non che Manzoni stesso, passando da una stesura all’altra dei Promessi Sposi, li mutò tutti in “lui” e “lei” perché gli sembrava che sonassero farraginosi, ed era il XIX secolo); il rimpianto viene però agilmente superato con la considerazione che, per andare in un luogo, tutti vorremmo star correndo da subito eppure sappiamo che tenere una velocità più moderata ma costante è più funzionale. Sulla coraggiosa distanza delle quattrocento pagine (viviamo in tempi di romanzi anoressici) Di Mizio ha saggiamente scelto il passo del maratoneta, non del centometrista.

Se spostiamo l’accento del titolo su Giuseppe, ci viene resa ragione della storia che viene raccontata. In prima persona, in quanto voce narrante, Giuseppe non può dirlo; ma a una lettura non troppo superficiale si evince che si tratta di un personaggio straordinario e che tuttavia si ritiene sempre limitato. In un’epoca in cui arricchirsi è difficile, viaggiare è ardimentoso e abbracciare novità di ogni sorta quasi pericoloso; in un popolo che alla legge e alla tradizione è necessariamente ancorato per garantirsi l’esistenza stessa; in un paese che perfino agli occhi dei connazionali pare essere più tradizionalista, più misero e più arretrato della media – da questi prodromi svantaggiosi Giuseppe riesce a ritagliarsi una vita da viaggiatore, da mercante e da creativo. Colpisce, inoltre, che riesca a non fermarsi mai senza per questo rinunziare a riflettere sempre, così che la sua narrazione non diventa un calendario di soddisfazioni e di trionfi ma, piuttosto, tutta una disamina di inadeguatezze. Giuseppe, ricco ebreo di Nazaret che conosce le lingue e che è stato ovunque, è l’uomo che ha tutto, ma ama presentarsi come l’uomo al quale, piuttosto, manca sempre qualcosa. La cultura e i viaggi, alla stessa maniera, sono funzionali al suo desiderio di sapere sempre qualcosa che non riesce mai a capire e di andare in un posto in cui non riesce mai ad arrivare.

Il terzo estremo del titolo, Gesù, dà valore aggiunto al personaggio di Giuseppe. È l’effetto-Quo-Vadis, potremmo chiamarlo, o meglio l’effetto­-Tunica, stando al film in cui Gesù non appare mai se non come ombra e ciò nonostante è il baricentro della trama e della vita di ognuno dei personaggi, una sorta di pietra di paragone indefettibile. Rispetto al La Tunica, nella Storia di Di Mizio la presenza di Gesù è molto più preponderante quantitativamente, sebbene ovviamente sullo sfondo della movimentata vita del protagonista. Se in buona parte degli altri romanzi o film cristologici la figura di Gesù arrivava dall’alto della rivelazione o dell’illuminazione, Di Mizio la affianca a Giuseppe partendo dal basso, ossia dall’amicizia; ed è amicizia di bambini, che rende l’uno lungamente familiare all’altro. L’asimmetria, infatti, sta tutta qui: per chiunque Gesù diventa una persona eccezionale, mentre Giuseppe (che pure ne riconosce l’eccezionalità) non riesce a sceverarlo della patina di familiarità che negli anni ha assunto ai suoi occhi. Alla stessa maniera, Gesù si comporta con tutti come se avessero una lunga familiarità, si sente fratello di tutti gli uomini; e l’effettiva confidenza con Giuseppe, al contrario, rende quest’ultimo quasi eccezionale.

Il Gesù di Di Mizio merita una certa attenzione. Innanzitutto, è un Gesù che scrive: viene riportata una sua lunga lettera, addirittura, così che il romanzo prende recisamente posizione contro la tradizione esegetica che vuole un Gesù analfabeta il quale, tutt’al più, si accovaccia a tracciare segni sulla sabbia. Meno sorprendentemente di quanto si possa pensare, è un Gesù in tutto e per tutto figlio di donna e, senza iniziale maiuscola, altrettanto figlio dell’uomo: la sua nascita viene sostanzialmente ascritta a una fuitina, dello Spirito Santo e dell’Arcangelo Gabriele non si fa motto alcuno, tanto più che essa viene seguita da quella di svariati fratelli (che nel Vangelo sono citati, come no, ma con termine che potrebbe significare altrettanto “cugini”) e nientemeno di una sorella, Ester, protagonista di una travagliata e significativa storia d’amore col protagonista. Soprattutto, si tratta di un proto-Gesù, ovvero di un Gesù ritratto mentre vive i trent’anni che precedettero la sua predicazione, periodo sul quale i Vangeli tacciono o, parlando, si contraddicono anziché no. In definitiva, si tratta di un Gesù senza Dio. Non che Di Mizio trascuri di ritrarlo quale credente; anzi, la religiosità di Gesù viene messa in notevole evidenza sia nel rivendicarne l’appartenenza (incontestabile) all’ebraismo sia il tentativo (altrettanto incontestabile) di superare per così dire l’ebraismo dal suo interno, ovvero sceverandolo dell’ortoprassi (ossia alla pedissequa osservazione della Legge in ogni minimo dettaglio) e legando piuttosto la dottrina all’etica.

Il Gesù di Di Mizio è senza Dio perché il resoconto dei suoi primi trent’anni non vede alcun intervento sovrannaturale; questo per scelta precisa dell’autore al quale preme sottolineare come la sua predicazione, il suo fascino, addirittura i suoi miracoli derivino piuttosto da una capacità senza precedenti di comprendere la sofferenza altrui e farsene carico, liberando gli uomini dal giogo che si portano dentro. Con questo possiamo azzardare la quarta interpretazione del titolo, accentuando stavolta la parola amico, che lega i due protagonisti. Da un lato, Gesù è colui che si abbassa, ovvero colui che nella sua divinità (del tutto sottintesa e di fatto glissata da Di Mizio) ha una continua tensione verso il basso per accorgersi degli uomini e consolarli, amandoli. Giuseppe ha una tensione verso l’alto: nel suo lungo e vasto peregrinare non cessa mai di essere roso dal dubbio, a tratti iperbolico, ma non per questo cessa di ricercare la divinità che gli si nasconde; e si può addirittura azzardare l’ipotesi che, tutto preso a implorare in ogni dove un Dio che non riesce a distinguere fra le nubi, non si sia reso conto di poter parlare, restando a Nazareth, con un Dio fatto persona, cresciuto al suo fianco.

Giuseppe è un personaggio che mi piace perché sa di star facendo tutto quel che può per trovare Dio, ma al contempo sa che tutto quello che sta facendo non è sufficiente. È il simbolo della limitatezza umana; però è un simbolo dinamico, positivo, che non si crogiola nell’irraggiungibilità del divino. Giuseppe si pone il problema; è probabile che il tarlo di questa ricerca continua, sempre fallita e mai inutile, gliel’abbia messo proprio la compagnia di e la confidenza con Gesù. Intorno a lui si muove un mondo per cui Dio è un concetto, o peggio ancora un’abitudine, o un luogo comune; e che si comporta continuamente, pur professandosi altamente fedele, come se Dio non ci fosse. Le numerose possibili prove dell’inesistenza di Dio che Giuseppe trova sul proprio accidentato cammino, al contrario, lo portano a dubitare talmente tanto da – è uno dei grandi paradossi della teologia – farlo vivere sempre in continuo contatto col Dio che non trova, oscurato forse dall’abbagliante presenza, a portata di mano, di un Gesù non riconosciuto per divino.


Io avrei usato le parentesi e l’avrei intitolato Storia di Giuseppe (e del suo amico Gesù). Primo perché la storia di Giuseppe, da sola, avrebbe costituito un romanzo a sé stante più che accettabile per contenuti e contornim, pertanto merita di essere messa in adeguato risalto. Ma soprattutto perché (sottotraccia) la vita di Gesù, che con quella di Giuseppe interferisce ben poco ma di fatto la orienta (lo si scopre dal finale), è il basso continuo della sua storia. Come una frase fra parentesi, dunque, che spesso e volentieri viene saltata dai lettori frettolosi ma che, se letta, dà un altro sapore al testo, l’amicizia di Gesù per Giuseppe è la dimostrazione pratica della frase di Pascal che Di Mizio ha apposto in esergo: “Non mi cercheresti se non mi avessi già trovato”. È la controprova di ciò che hanno detto papi su papi, ovvero che chi crede in Gesù non è mai solo, e di ciò di cui non ci si convince mai abbastanza: ovvero che anche chi se ne allontana non viene mai abbandonato.

lunedì 16 luglio 2007

Eziologia del gambero

(Gurrado per Ore Piccole)


Se casa mia fosse un posto decente, in cui i libri stanno sugli scaffali il cibo nel frigorifero e ogni cosa al suo posto, in questo momento sarei in grado di scomodare un curioso pensatore del XVIII secolo il quale, parafrasando Newton, volle rinvenire una legge di gravitazione universale delle anime; nel senso che si peritò di calcolare la formula matematica che regolava l’attrazione fra i diversi tipi possibili di sentimento – collerico, flemmatico, sanguigno e melanconico. Mi basterebbe trovare una citazione in un libro che ricordo benissimo: ma se trovare una citazione in un libro mi è relativamente facile (basta tenerlo in mano e girare le pagine), trovare un libro in casa mia è impresa sovrumana (bisogna come minimo telefonare a uno speleologo) e quindi sono costretto a risparmiarvi la citazione, anzi, sono costretto a ticchettare sulla tastiera permanendo nel dubbio che questo curioso pensatore del XVIII secolo non solo non ricordo come si chiami, ma che forse non è esistito giammai, forse me lo sono sognato dopo aver mangiato troppa carne cruda di cavallo.

Peccato perché questa formula della legge di gravitazione universale delle anime sarebbe stata un ottimo viatico per spiegare scientificamente – anzi, esageriamo: per more geometrico demonstrare il retropensiero del libricino appena pubblicato da Marsilio e opera di Gero Giglio e Luca Ragagnin: Amori Boomerang: 222 ritorni di fiamma. Il lettore superficiale (troppi ce ne sono) potrebbe pensare che si tratti di un libro da ombrellone, per le dimensioni contenute (meno di cento pagine) il prezzo abbordabile (dieci euro), la copertina solare e l’argomento trattato – ossia, la ragion per cui un signorino o una signorina, passato un po’ di tempo di separazione, non trova di meglio che tornare dalla signorina o dal signorino dal quale, standoci insieme, non ha pensato ad altro che separarsi.

Il principio di Giglio e Ragagnin è evidentemente scientifico, quasi entomologico, e lo si intuisce già dal numero citato nel sottotitolo. Azzardo un calcolo: se consideriamo che chi un bel giorno torna con l’ex fidanzato o fidanzata ha, grossomodo, una decina di scuse quasi ragionevoli da addurre per giustificarsi; se arrotondiamo questo numero a 10; se per sicurezza aggiungiamo una scusa irragionevole e folle, che di solito coincide con l’effettiva ragione del gesto, con la vera verità; se moltiplichiamo l’11 così ottenuto per le grossomodo 10 maniere decenti che si potrebbero utilizzare per tornare con un (apostrofo, o no) ex; se al conseguente 110 aggiungiamo l’ulteriore maniera, indecente e per nulla dignitosa, che alla fine viene scelta per operare il ritorno; se moltiplichiamo il risultato (111) per il numero dei sessi sulla faccia della terra (2, fino a prova contraria); se tutto questo, dunque, ecco il risultato definitivo di 222, esattamente il novero dei ritorni di fiamma differenti che Giglio e Ragagnin hanno scelto di catalogare nel loro prezioso vademecum.

Un computo del genere, se l’hanno architettato, li proietta immediatamente nel ristretto empireo dei cabalisti dell’amore. Luca Ragagnin, in particolare, aveva già fatto mostra (sempre con Marsilio) di saper catalogare l’incatalogabile curando con Enrico Remmert la scarlatta antologia Elogio dell’Amore Vizioso, che andrebbe regalata a ogni fidanzata e che, come ricorderanno le mie più fervide ammiratrici (se non altro quelle che non si sono uccise perché non ricambiate), in una precedente recensione avevo ritenuto antologia onnicomprensiva, che sorvolava la letteratura erotica per andare al nocciolo della questione: cioè non già la passeggera eccitazione del lettore, per la quale basterebbe il catalogo di Postalmarket, ma il sesso come ancoraggio unico e precario alla cornice della nostra vita, cioè il “nascere e morire” cui faceva riferimento Cesare Zavattini, in una poesiola, parlando della fica.

In accoppiata con Gero Giglio, Ragagnin non perde il suo criterio e unifica i 222 ritorni di fiamma secondo i cinque sensi, individuandone i sintomi (vista: “Lo vedi che non possiamo…”; tatto: “Non riesco nemmeno più a toccarlo…”; udito: “Non mi risponde più al telefono…”, etc.) e azzardando anamnesi al proposito. Ma più di tutto il libro vive dei resoconti, quasi tutti in prima persona, dei ritorni alla base dei disamorati delusi; alcuni occupano una paginetta (e sono per lo più impersonali, teorici), altri poche righe, altri ancora, fulminei, una frase soltanto. Nella serrata alternanza fra voci maschili e voci femminili, anonime, tutti costituiscono in qualche modo una giustificazione aprioristica, una scusa non richiesta, un free climbing sugli specchi. Ogni capoverso di Amori Boomerang è una scusa particolare detta a sé stessi e agli altri e, fatta salva l’inventiva di Giglio e Ragagnin, non è peregrino sospettare che ogni frase sia stata detta veramente e anzi, nei casi estremi, non è improbabile ricordarsi di averla già pronunziata in proprio.

Io mi sento sempre un po’ stronzo quando mi cito da solo, ma visto che non mi cita nessuno qualcuno dovrà pur farlo, pertanto mi sacrifico eroicamente in prima persona. Un’amica che sta rileggendo tutta la mia opera dall’adolescenza ai giorni nostri, come se ne valesse la pena, mi farebbe notare che da qualche parte ho scritto che la vita di un uomo si divide fra tentativi di trovare qualcuno e tentativi di perderlo. E, fin qui, si tratterebbe di normale e accettabile dialogicità fra eros e thanatos; ma il ritorno all’amante previamente respinto cos’è? Un tentativo di risurrezione? Un eterno ritorno in sedicesimo? Un uroboro da salotto, anzi, da camera da letto?

In un tempo di risposte pronte, Giglio e Ragagnin preferiscono scrivere in maniera dubitativa, così da rendere Amori Boomerang un’opera di letteratura e non un manuale di automiglioramento (Dio scampi e liberi). Probabilmente, se avessero scritto Come riconquistare il tuo ex perduto o, alternativamente, Perché raccattare la tua ex dopo averla abbandonata lungo l’A14, avrebbero venduto più copie ma non avrebbero avuto la coscienza a posto; poiché così avrebbero dovuto rinunziare al principio unificatore, scientifico, di gravitazione universale delle anime che costituisce la sottotraccia teoretica dei 222 ritorni di fiamma.

Oppure, senza scomodare questo filosofo del XVIII secolo che con ogni probabilità mi sono inventato come gran parte dei contenuti della mia tesi di dottorato, potrebbe bastare la vecchia salda e newtoniana legge di gravitazione universale dei corpi: a chiunque capiti di avere delle ex (mica ce ne vogliono cinquecento, sia chiaro, ne basta una purché particolarmente disdicevole), a chiunque sia capitato di rincontrarla più o meno a sorpresa, sarà capitato anche di notare che – mentre il razionale cervello rifugge da ogni contatto equivoco – il corpo, che è un animale pigro, riconosce l’antico padrone e gli fa le fusa; né c’è verso di tirargli le briglie ricordando il dolore passato perché non si tratta di scelta ponderata, si tratta di abitudine come per i gatti che si affezionano alla casa ma non ai suoi abitanti, e che sono capacissimi di strusciarsi lungamente contro un serial killer solo perché detiene un divano morbido.


A chi ha la fortuna di andare in vacanza consiglio, anzi prescrivo, una lettura e rilettura impegnata di Amori Boomerang quale volume introduttivo di Elogio dell’Amore Vizioso. Imparerete così, sotto l’ombrellone, come tutto si riduca al corpo che si fa concavo dove trova il convesso, e viceversa; imparerete altresì che quando, annoiati mortalmente dal sole dal mare e dalle alghe, vi tornerà in mente la persona che avete eliminato prima dell’estate ma della quale non avrete ancora ardito cancellare il numero telefonico dalla vostra rubrica, allora sarà bene scrivere centomila volte sulla sabbia bollente la frase che Giglio e Ragagnin hanno sistemato a pagina 18, giustificazione tanto secca quanto metaforica e, ma sì, metafisica: “Sono ritornato con lei perché sono brutto e lei mi dice che sono bello”. Poi la chiamerete, sapendo di sbagliare.

martedì 10 luglio 2007

L'evoluzione della specie

(Gurrado per Il Resto del Pallone)

Per come siamo noi Italiani, più che probabile che ce ne dimentichiamo. Lunedì 9 luglio cade il primo, delirante compleanno del trionfo a Germania 2006 e va bene, questo se lo ricorda chiunque, secondo me perfino Guido Rossi. Ma per assurdo, controfattualmente, se pure l’anno scorso non avessimo vinto il Mondiale avremmo avuto qualcosa da festeggiare in questo luglio insolitamente caldo (nota extra-calcistica: quando i telegiornali si svuotano, con l’estate, ogni luglio è inusitatamente caldo, così come sotto Natale ogni inverno è inusitatamente freddo e in primavera ogni scudetto dell’Inter è inusitatamente meritato). Mercoledì 11 luglio, alzi la mano chi ha indovinato, è il venticinquesimo anniversario della vittoria di Spagna ’82.

All’epoca ero già nato ma, avendo da poco compiuto un anno e mezzo, preferivo interessarmi ad argomenti più futili; così che solo per interposta videocassetta ho conosciuto il traballante girone eliminatorio di Vigo, il seppellimento della prosopopea brasiliana nel secondo turno e l’inutile goal di Breitner in finale. Non rimpiango di essermelo perso, perché il 2006 e il 1982 occupano due versanti distinti del mio cuore calcistico: il primo saldamente ancorato agli avvenimenti spiccioli che scandivano l’attesa delle partite, e come tale momento leggendario che ha attraversato una quotidianità che lo ha reso credibile, impossibile a svanire col risveglio mattutino; il secondo, al contrario, necessariamente confinato nella testimonianza altrui o nel giornalismo d’epoca, in un flusso storico trasognato e talmente nebuloso da camuffarsi a mo’ di leggenda, benché confermato dalla reiterata esposizione (per interviste, celebrazioni varie, partitelle amarcord) dell’invecchiamento dei protagonisti d’allora.

Perché il calcio, non lo capiremo mai abbastanza, ci piace perché insegna che invecchiamo tutti e che al contempo possiamo sopravvivere al nostro invecchiamento, cristallizzati nel momento in cui, non importa se uno o venticinque anni fa, due mani italiane hanno alzato al cielo una coppa completamente uguale e dorata. Se fossi un sociologo, dedicherei questa festevole settimana di luglio allo studio comparativo delle due rose azzurre, della ristretta scelta di una ventina di compatrioti che, per un mese, non ha dovuto far altro che tirare calci in nome di una Nazione intera. Non per niente l’Italia, come volevasi dimostrare, è a forma di stivale, e sotto la Calabria sembrano esserci i tacchetti.

Non potendo giocare a trovare le differenze, come nella Settimana Enigmistica, fra ventidue coppie di Campioni del Mondo, mi limiterei alla coppia di portieri che in due secoli diversi, come la Settimana Enigmistica, può vantare innumerevoli tentativi di imitazione. Si può riuscire a rintracciare i cambiamenti di cinque lustri sui lineamenti paralleli di Dino Zoff, prima, e di Gigi Buffon, dopo? In comune hanno più cose di quante si possa intuire: sono entrambi sovrumani, come appare lampante dalla visione di qualsiasi filmato d’epoca; hanno un nome diminutivo (curioso per chi negli occhi degli attaccanti è grande quasi quanto la porta che protegge) e un cognome tronco come il rumore di una parata; giocano nella Juventus e vincono campionati a ripetizione. Cosa li distingue? Tante, infinite cose; ma nella nostra memoria, se ci pensiamo un attimo, sono percepiti come speculari. A Zoff associamo, brutalmente, la vecchiaia, col bagaglio di esperienza e silenziosa saggezza che si porta; le rughe fissate nell’espressione perpetua con la quale ha attraversato il 1982, mutandola in un sollievo tanto raro da dover essere immortalato da Guttuso. A Buffon associamo, al contrario, la gioventù, col suo esordio precocissimo in Serie A, i capelli bagnati, l’occhiolino compulsivo, la battuta spontanea (dopo la miracolosa parata su Zidane, un anno fa, gli si avvicina e gli dice: “Scusa”), la fidanzata bella e il suo continuare ad essere sempre, quando leggiamo la data di nascita sugli almanacchi o sugli album di figurine, sorprendentemente più giovane di quanto ne dica il palmarès (ha due anni più di me, che a stento riesco a tenere un pallone fra le mani).

Tanto per gradire, ci fermiamo ai numeri 1. Però pensate quante informazioni su venticinque anni d’Italia potrebbe trarre l’ipotetico sociologo dalla comparazione dei numeri 3 diversamente decisivi (in Spagna Bergomi, in Germania Grosso), dei ghignanti 5 (prima Collovati, poi Cannavaro), dei pugnaci 8 (nel 1982 Vierchowood, nel 2006 Gattuso), dei fiorentini 9 (pure con la rima: da Antognoni a Toni), dei versatili 15 (Tardelli, Iaquinta), dei nobili 17 (Causio per eleganza, Barone per cognome), e così via: similarità, contrapposizioni e segni del destino si rincorrerebbero all’infinito. Io mi limito a farne notare uno soltanto: in Germania, col numero 7, giocava il capitano della squadra più tifata d’Italia, campione di buon viso (il suo) a cattivo gioco (della malasorte), sereno, corretto, vincente, fedele, determinante e compagnia lodando: le sue giocate e le sue interviste dovrebbero diventare materia obbligatoria in tutti gli oratori d’Italia, dove spero che stiano iniziando ad allenarsi i Campioni del Mondo del 2030. In Germania, Alessandro Del Piero indossava la maglia che fu di Scirea.

giovedì 5 luglio 2007

L'impalcatura e l'alambicco

(Gurrado per Ore Piccole)

Buongiorno. Che state a fa’? Spero qualcosa di utile, ad esempio diventare preti o dare figli alla patria (sottolineo la disgiunzione, non già: diventare preti e dare figli alla patria, poiché il troppo storpia), oppure qualcosa di piacevole, o se non altro di poco doloroso. Invece sono sicuro che, chiunque voi siate a leggermi, ovunque vi troviate e quantunque io possa annoiarvi col mio periodare barocco – ecco, sono sicuro che molti di voi non stanno facendo nulla di utile né di piacevole e che in particolar modo almeno uno fra voi perditempo ha deciso quest’oggi di darsi a un’attività, oltre che inutile e spiacevole, oltremodo dolorosa. Uno di voi oggi ha deciso che scriverà un romanzo.

Imperito romanziere, se a distoglierti non basta la considerazione generale che scrivendo si finisce per andare a letto con molte meno ammiratrici di quante si possa in prima istanza immaginare, non vedo come tu possa essere distolto dal tuo sproposito sulla base di elucubrazioni tecniche. Ciò nondimeno le avanzo, e ti rivelo che chiunque tu sia, ovunque ti trovi, eccetera eccetera, al solo decidere di scrivere un romanzo quest’oggi hai già commesso un primo errore, che come nel calcolo di una somma si ripercuoterà tremendamente sul risultato, non c’è rimedio che tenga. Hai deciso di scrivere un romanzo, frescone, senza prima tracciarne una mappa. Ti fidi di te a sufficienza da ritenere che l’idea (sviluppata, per carità, sviluppatissima) che ti porti in mente da una settimana o da qualche anno funga da propellente bastevole fino all’ultima goccia d’inchiostro. Sei partito per tragitti più incerti di quelli regolati dalla segnaletica stradale pugliese, e sei come una Centoventisette che gira su se stessa alla disperata e frustrante ricerca di Castel del Monte: lo vedi chiaramente, alto bianco e ottagonale, ma non riesci ad arrivarci e t’incarti fra gli oliveti.

Ti conosco, mascherina. Hai maturato la convinzione che la narrativa sia un atto di ispirazione, e hai ritenuto di lasciarla fluire liberamente secondo i suoi capricci, senza chiederti di numerare i ceffoni che daresti al tuo figlioletto se la medesima ispirazione gli suggerisse di fare pipì sulla soglia di casa o di iscriversi a Scienze della Comunicazione, in crescente ordine di gravità. Magari hai pure fatto il liceo classico e hai avuto cinque anni di tempo per fraintendere l’espressione della quale col tempo hai pure dimenticato l’autore, rem tene et verba sequentur, desumendone che basta avere una mezza idea della trama per tirar fuori un libro intero, affidandosi qua e là a qualche trovata o alla disattenzione del lettore. Va bene che lo spirito soffia dove vuole, ma non autoproclamarti vaso d’elezione. Per non dire che nutro il forte sospetto che il tuo romanzo d’oggigiorno sia autobiografico (che fai, arrossisci?) e che la massima trovata narrativa di cui tu sia capace consista nella sostituzione dei nomi delle protagoniste femminili (i protagonisti maschili, al contrario, pretendono di trovarsi citati per vantarsene con gli amici, fra i quali ci sarà qualcuno che sentendoli a sua volta deciderà di scrivere un romanzo autobiografico, e così via all’infinito fino all’esaurimento delle case editrici e al disboscamento della foresta amazzonica. Diceva Giancarlo Buzzi, te lo ricordo solo fra parentesi pur temendo che, nella fregola di scoprire dove va a parare il mio discorso e poter finalmente iniziare a scrivere il tuo romanzo che, ovvio, sarà diverso da tutti quelli degli altri esordienti, tu salti a pie’ pari le lunghe digressioni – diceva Giancarlo Buzzi che all’atto della nascita a ognuno andrebbe consegnata una quantità limitata di carta, da usarsi per la letteratura ma anche per le più basse funzioni corporali, così che uno in generale, e in particolare anche tu, ci pensi due volte prima di scrivere, metaforicamente, ciò che farebbe piuttosto meglio a pulire).

Ipocrita scrittore, mio simile e fratello, se io dovessi creare un uomo partirei dallo scheletro. Tu invece parti dalla pelle e dai vestiti, e stai a sindacare sul colore degli occhi prima ancora di aver stabilito la circonferenza del cranio. Dovresti invece, se non ti è di troppo fastidio, scribacchiare su un foglietto il riassunto del tuo romanzo (protesta l’ingenuo: come si fa a riassumere una cosa che non esiste ancora?), e ti renderai conto, via via che procedi fra le pieghe della trama, che ti mancano le parole, peggio, che ti mancano i personaggi, peggio, che ti mancano le idee e che, a giudicare dalle sei righe di riassunto che composto con progressiva lentezza, per il tuo romanzo meglio sarebbe non esser nato nemmeno nella mente dilettantistica dell’autore. Questo è il momento in cui potresti rinsavire e optare per scelte più felici (farti prete, dare figli alla patria, dedicarti alla spasmodica ricerca di filmati d’archivio di Colpo Grosso); altrimenti, se mi dici che il riassunto l’hai scritto abbastanza velocemente, che è lungo quattro o cinque pagine, che corrisponde bene o male all’idea primigenia che avevi e che sei perfino riuscito a migliorarla qua e là, be’, allora vuol dire che sei un osso più duro di quel che credevo, ma non per questo demordo.

Ti vedi già pubblicato, vero? Ti stai chiedendo cos’hai tu che non abbiano Federico Moccia e Thomas Mann, o viceversa? Stai già assaporando la recensione fiume sulla prima pagina di Repubblica, sempre che non ti ripugni sentirti paragonare a Moravia e a Baricco? Ricordati che devi soffrire. Mi è capitato di leggere manoscritti rimasti giustamente inediti, che tutti godevano indistintamente della stessa caratteristica: l’autore era convinto di essere Cristoforo Colombo, e che di conseguenza gli bastasse puntare dritto verso le Indie per scoprire l’America. Pensa che la sicurezza induce all’errore e che vederci bene da vicino non significa poter guardare oltre l’orizzonte. Ripiglia il riassunto del tuo romanzo non scritto: per scoprire se è un vero romanzo, devi sintetizzarlo in una pagina. Aspetta a dire che è facile, devi sintetizzarlo in una pagina utilizzando pochissime parole e molti punti e virgola, frecce, parentesi e segni vari. Devi renderlo uno schema comprensibile solo e soltanto a te stesso al di fuori del quale non resti nulla del senso del romanzo stesso: questo foglietto, che porterai nel portafoglio o che attaccherai allo schermo del computer, che infilerai fra le tue carte o che ripeterai ogni sera prima di addormentarti, è il cervello del romanzo: mostra cosa vuoi scrivere che già non sia stato scritto in mille altri libri, indica pertanto la ragion d’essere del tuo romanzo ed è la carta d’identità che lo rende diverso da tutti gli altri. Se il riassunto è lo scheletro, questo specchietto è il cervello. Non ci avevi pensato, tu. Ti eri lasciato travolgere dall’entusiasmo e ti eri messo a scegliere la marca di scarpe per un corpo inane.

Non so tu, ma quando io guardo un palazzo la prima cosa a cui penso è l’impalcatura. È necessaria, copre il lavoro fatto a metà e, una volta compiutolo, sparisce. Ma tu hai fiducia nei tuoi mezzi e pensi che un romanzo (tanto più il tuo romanzo ipotetico) sia un’opera d’arte, e che quindi si debba guardare al prodotto finito, alla facciata del palazzo; io penso piuttosto che la scrittura sia una tecnica, e che quindi se si struttura bene l’impalcatura il palazzo viene su più solido. Il prosatore non è un architetto ma un ingegnere. Ne sono tanto convinto che quando leggo un romanzo, e lo trovo veramente bello, cerco di scoprire o di intuire lo schema primigenio, il cervello, la struttura sulla quale s’è sorretto l’autore negli anni di lavoro quotidiano. E resto come un fesso lì a guardare l’impalcatura, l’invenzione senza la quale non avremmo dove abitare.

(Siccome ho ancora un po’ di tempo prima di andare a fare due passi, accludo in coda una mini-recensione. L’elogio dell’impalcatura m’è venuto in mente un mesetto fa, mentre leggevo Special Topics in Calamity Physics, il romanzo d’esordio di Marisha Pessl che in Italia la Bompiani ha tradotto come Teoria e Pratica di Ogni Cosa. Il romanzo è gradevole e ben scritto, ed è stato lodato da gente più fededegna di quanto io possa essere, quindi ne do per scontata la qualità. Però mi ha fatto venire in mente una cosa: Marisha Pessl, che ha trent’anni e che stando alla foto sull’edizione inglese potrebbe guardarsi allo specchio per giorni senza annoiarsi mai, s’è peritata di comporre uno schema talmente preciso e promettente da renderlo più interessante del romanzo. In generale, ha eretto un’impalcatura dorata per costruire un normale condominio: i titoli dei capitoli coincidono con quelli di altrettante celebri opere; le illustrazioni sono parte integrante del romanzo; le citazioni sono innumerevoli; la voce narrante elenca puntigliosi riferimenti bibliografici anche per gli argomenti più triviali o immediati; il tradizionale finale univoco, con l’attesa soluzione del giallo, viene sostituito da un esame finale a risposta multipla; al culto del romanzo coopera un sito web di strabiliante fattura (www.calamityphysics.com), sul quale si può passare una buona mezza giornata; addirittura la protagonista Blue Van Meer, pur non esistendo, detiene una pagina personale su MySpace (http://www.myspace.com/calamityphysics) e nell’elenco dei suoi amici spicca, manco a dirlo, l’autrice che l’ha inventata. In questo caso l’impalcatura ha divorato il palazzo, e limitandosi alla sola lettura del testo – ché un romanzo quello è, una serie di parole una dietro l’altra – viene il sospetto che qualche pagina sia stata scritta solo per non intaccare il mirabile equilibrio dello schema, dei capitoli e delle citazioni dotte. È mancato, in questo caso, il procedimento inverso all’impalcatura, ovvero l’alambicco che lascia che la storia decanti e che ogni cosa finisca al posto che la natura le assegna: lettura dunque perniciosissima per l’imperito romanziere di cui sopra, non sia mai che in futuro voglia prendere esempio senza esserne in grado. Ragion per cui, approfittando di una valigia troppo piena per introdurvi altri libri, ho regalato la mia copia di Special Topics in Calamity Physics alla prima signorina che, quando le ho chiesto se avesse mai scritto qualcosa o se pensasse un giorno di mettersi a scrivere, mi ha risposto severa: “Nemmeno per idea”.)