sabato 12 gennaio 2008

Lo Stato dei Licei, 6: la guerra dei gessetti

[Pensate, facevo la quarta ginnasio e, proprio per questo motivo, io e i miei compagni di liceo eravamo troppo giovani per essere incolpati delle reiterate gravidanze che colpivano in serie le varie supplenti di geografia che si succedevano nella nostra aula. Tuttavia, mistero tuttora insoluto, bastava che una neolaureata prendesse possesso della nostra cattedra vacante di geografia che – pàm – restava incinta con un’infallibilità sconosciuta alla denatalità patria. Forse per questo motivo, ogni supplente gravida veniva sostituita da una più giovane, evidentemente nella speranza provveditoriale di trovarne una che non avesse ancora patito il ciclo. Pertanto l’ultima, se devo riconsiderarla adesso, doveva essersi laureata la settimana prima e non aveva nulla che la distinguesse da un’adolescente. Una volta le capitò di venire sottoposta alla cosiddetta cappotta – ossia il tradizionale colpire alla cieca un corpo inerme dopo averlo immobilizzato sotto un soprabito a caso – ma lei non ci fece caso ritenendolo forse un complimento al suo sembiante giovanilissimo, tanto più che dopo averla immobilizzata c’eravamo rapidamente contati, avevamo visto che non mancava nessuno, avevamo dedotto che la persona nascosta doveva appartenere al personale docente stipendiato e, molto educatamente, ci eravamo scusati con la professoressa.
Ho dimenticato il suo nome ma costei, un giorno, cercava di spiegarci non so più se l’Emilia Romagna o il Maghreb. Fatto sta che si rese conto di essere circondata da un silenzio irreale, che non prometteva niente di buono. Andava alla lavagna, ci parlava e noi eravamo imbalsamati; appena ci dava le spalle per scrivere capiva che succedeva qualcosa ma, non appena rivoltatasi, tornava a non vedere altro che ventisette mummie sorridenti. Questo per quattro o cinque volte; finché, nell’attimo preciso in cui stava spiegando dov’era Forlimpopoli o che il nome Egitto deriva da Hat-Ka-Ptah, s’è taciuta e voltata di scatto, in tempo sufficiente per vedere l’ultima pallina di carta che mogia mogia planava quasi dentro la scollatura di ricordo benissimo chi. Silenzio. Terrore. Obnubilamento. Finché la supplente di geografia, che avrà avuto meno anni di quanti ne abbia io adesso, sorride e dice che fino a pochi anni fa anche a lei tiravano le palline di carta – senza specificare se l’intenzione fosse di centrarle la scollatura. L’abbiamo onorata con una gioiosa salva di palline insalivate.]


Gurrado, il liceo Voltaire gode di un’ottima posizione al centro di ***. Esso confina a sud con l’Arcivescovado (una villa molto imponente, con un ampio giardino interno), a ovest con la trattoria “La via dell’ovile” (nome che intende forse condurre a sé tutte le “pecorelle smarrite” della zona, non ultimi gli stessi studenti del liceo Voltaire), a est con la chiesetta della SS. Trinità, e a nord con la sede di una nota compagnia di assicurazioni. Particolarità degli impiegati che lavorano in quest’ultimo edificio è, paradossalmente, quella di non lavorare affatto: essi trascorrono la maggior parte delle loro ore davanti alla macchinetta del caffè, mentre i computer scaricano senza sosta strani programmi da internet; oppure, nella bella stagione, li si trova a fumare su di un piccolo terrazzo all’aperto. Questi impiegati sono per lo più distinti signori sulla quarantina, tutti molto eleganti e dall’aspetto rassicurante, che tornano diligentemente a ricoprire le loro posizioni ogni qual volta nell’ufficio si propaghi la voce dell’arrivo imminente di un superiore.

Capitò un giorno che alla Terzaddì venisse assegnata un’aula posta proprio sulla facciata nord dell’edificio scolastico, ragion per cui i diciotto membri della classe potevano ammirare dalla finestra il fastidioso spettacolo degli impiegati dediti al dolce far nulla nei loro uffici, dall’altra parte della strada. Man mano che i mesi passavano, l’astio degli alunni cresceva: perché mai, si chiedevano irati, dei giovanotti e delle signorine ancora vispi e prestanti devono sentirsi costretti a trascorrere la loro mattinata annaspando dietro a formule matematiche e paradigmi greci [Nota di Gurrado: dìdomai, dòso, édoka, dédoka, edothen: è l’unico che io sappia - non l'unico che ricordi; l'unico che io abbia mai conosciuto], mentre degli adulti sfaccendati vengono pagati per girarsi beatamente i pollici tutto il tempo?

Non riuscendo a trovare risposta a questo quesito [NdG: forse perché in gioventù i medesimi adulti hanno annaspato dietro a formule matematiche e a paradigmi greci; ragion per cui ora sono stanchi e si riposano], i diciotto membri decisero dunque di passare direttamente alla vendetta, provvedendo a trovare un’occupazione adeguata a quegli oziosi impiegatucoli.

Le ostilità si aprirono in una serena giornata di fine inverno, quando Alberto I [NdG: presumibilmente, come avviene per Silvia G, si tratta di un alunno col nome di battesimo seguito dall’iniziale di un cognome, se non che in quanto filologo opto sempre per la lectio difficilior e pertanto avanzo l’ipotesi che Alberto I sia in realtà il capostipite della dinastia regnante su ***], esasperato a causa di un’imprevista interrogazione di latino, approfittò della ricreazione per scagliare quattro o cinque gessetti fuori dalla finestra, in direzione degli uffici della compagnia di assicurazioni. I gessetti in questione giunsero tutti quanti a destinazione, andando a frantumarsi contro i vetri dell’edificio e facendo saltare gli impiegati dalla sedia. Fu questo l’inizio di una lunga serie di lanci vendicativi da parte di tutti (o quasi tutti) i membri della Terzaddì [NdG: ne approfitto per ribadire che questi sono i primi risultati della moratoria sulla pena di morte: un rigurgito di adolescenziale trasporto per la lapidazione]. Le scorte di gesso sulla lavagna cominciarono improvvisamente a languire, e in più di un’occasione qualche insegnante spazientito non mancò di rimproverare l’innocente bidella di turno per non averle rimpinguate a dovere [NdG: fonti certe testimoniano che la medesima bidella sia stata dapprima licenziata e quindi messa al rogo in effigie]. Si sparse la voce tra i corridoi del liceo Voltaire che in Terzaddì i professori consumassero chili di gesso alla settimana, che l’impiego avesse dell’incredibile, che qualcuno addirittura se ne cibasse [NdG: ulteriori e più approfondite indagini hanno scartato l’ipotesi, avanzata dagli autorevoli inquirenti di Garlasco, che i gessetti siano stati rivenduti quale tachipirina in supposte]. Si arrivò a paventare lo spaccio clandestino di polvere di gesso per usi illegittimi. E intanto, gli alunni della Terzaddì seguitavano a lanciare impuniti. Alcuni gessetti, scagliati con scarso vigore, mancavano le finestre e piovevano copiosi sopra le automobili degli impiegati parcheggiate subito sotto, che ben presto furono ricoperte di polverina bianca, e talune addirittura di piccole ammaccature. Gli impiegatucoli, per quanto nullafacenti, non si resero immediatamente conto di quel che stava succedendo, poiché la scaltrezza degli studenti era tale che nessuno di loro si fece mai cogliere sul fatto. Davanti ai graffietti delle autovetture, tuttavia, qualcuno divenne improvvisamente più accorto, e la voce di quegli attacchi mattutini si sparse per gli uffici della compagnia, costringendo gli impiegatucoli a prendere i dovuti provvedimenti. Mancando essi di gessetti, si arrangiarono con degli elastici di gomma colorati: li tendevano fin quasi a spezzarli, e poi li lasciavano andare in direzione delle finestre della Terzaddì, rispondendo così al fuoco [NdG: a seguito dell’impegno profuso dai suoi dipendenti, la nota compagnia di assicurazioni è fallita]. Gli elastici tuttavia non erano sufficientemente aerodinamici, e il loro volo si concludeva ben prima di giungere a destinazione, con gran sollazzo degli alunni tutti, i quali seguitavano a bombardare di gesso le terrazze dell’edificio avversario. Colmi di dispetto e di ignominia, i pigri impiegati decisero dunque di contrattaccare in diversa maniera: chiamarono l’ufficio del preside per telefono, comunicando che da una finestra di qualche sezione del liceo Voltaire si faceva uso illegittimo del gesso da lavagna, che finiva tutto quanto sulle loro automobili e sul loro poggiolo. Il sommo dirigente scolastico, scandalizzato e furibondo, si precipitò dunque a interrogare le classi che davano sulla facciata nord dell’edificio, e tutte si professarono innocenti. Accidentalmente, passando un giorno davanti alla porta della Terzaddì, che era rimasta aperta dopo il suono della campanella della ricreazione, egli scorse l’alunno Alberto I e alcuni suoi compagni intenti a lanciare gessetti e insulti in direzione della compagnia di assicurazioni dall’altra parte della strada: ritenne quindi di aver trovato i colpevoli [NdG: senza nemmeno un incidente probatorio? né un rilevamento di campione di dna? né una puntata di Porta a Porta?].

Cosicché, dopo una severa ramanzina e molte minacce di punizioni, la Terzaddì è stata ora spostata dal versante opposto dell’edificio scolastico, e confina quindi con l’Arcivescovado. C’è speranza che il pensiero della scomunica, sommato a quello della sospensione, contribuisca a placare i bollenti spiriti dei garzoncelli scherz [NdG: il quaderno di Silvia G presenta a questo punto un vuoto incolmabile, un buco metafisico, una pagina corrosa dall’acqua santa: pertanto il manoscritto termina qui]

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