I coreani sono di per sé ridicoli: hanno buffi connotati indistinguibili, movenze bislacche e per nome dei trisillabi onomatopeici. Benedetto più di me dal dono della sintesi, un osservatore della Nazionale di calcio ai Mondiali del '66 riportò le proprie impressioni sulla Corea del Nord definendola "squadra di Ridolini" (poi andò come andò: l'Italia perse 0-1 con rete di Pak-Doo-Ik, forse ufficiale dell'esercito forse dentista, e i coreani vennero strapazzati dal governo al rimpatrio perché il Portogallo li aveva rimontati ai quarti di finale). I coreani fanno ridere soprattutto quando si prendono sul serio e non c'è dubbio che la scena sommamente mesta del funerale di Kim-Jong-Il muova più di ogni altra alla risata isterica. Bisogna andarci piano però col deridere il dolore di massa, manifestatosi nella circostanza in infinite scene di miliziani o anonimi civili (beninteso tutti uguali) che a stento venivano contenuti mentre, lacrimando forte, tentavano di gettarsi sopra o magari sotto il convoglio funebre. Nella migliore delle ipotesi sono cretini, abbiamo pensato; nella peggiore, e più verosimile, sono costretti a esprimere ciò che non provano. Per noi Kim-Jong-Il, con lo sguardo fisso da anni e l'ottuso apparato in costume che abitualmente lo circondava, era facilmente identificabile col male che non era solo un male etico ma anche un male estetico; peggio, un male spropositatamente e mostruosamente ridicolo, un despota più scemo che pazzo dalla cui falange dipendeva il lancio di non so quanti ordigni letali. Ma i coreani non sanno di essere ridicoli e parimenti non potevano concepire l'assurdità del Caro Leader, del polputo erede e dell'apparato carnevalesco. Per loro Kim-Jong-Il era l'immagine rasserenante che occhieggiava da ogni muro, il protettore da un mondo ostile e sconosciuto. Il Caro Leader era tutto; era il mondo che moriva e le lacrime erano vere.