(martedì 11 aprile 2006, copyright Ore Piccole)
La nazione più civile d’Europa, e a mio avviso conseguentemente del mondo, non ha mai avuto bisogno di una Costituzione. Usa da sette secoli il termine parlamento ma ha un monarca che, non contento di poter nominare primo ministro chiunque gli salti per la testa, è anche a capo della Chiesa nazionale, come avviene in tutte le teocrazie delle latitudini più diverse (il Vaticano, l’Iran, il Monte Athos). Ciò nonostante è fortunata abbastanza da esser quasi sempre stata retta da Re sufficientemente delicati da chiamare a presiedere il consiglio dei ministri il leader del partito più suffragato e da cedere l’effettivo esercizio del potere spirituale al titolare del più importante fra gli arcivescovadi. Non esiste stato migliore della Gran Bretagna per sentirsi abbastanza al sicuro da poter impunemente partorire utopie e distopie di ogni tipo - l’ha fatto, ultimo di una lunga serie, Rupert Thomson di cui ISBN edizioni ha da poco pubblicato Divided Kingdom.
Gli Inglesi hanno sempre avuto una predilezione per le distinzioni nette; non si spiegherebbe altrimenti la scelta di conservare nei secoli un rubinetto per l’acqua gelata e uno per l’acqua bollente, impossibili a moderarsi. Come specifica il sottotitolo scelto per l’edizione italiana (Sei collerico, malinconico, flemmatico o sanguigno?) le autorità del Regno stabiliscono di rinnovare la quadripartizione che è sempre stata caratteristica di quelle latitudini (pensate non solo alle quattro nazioni fuse in un’unica bandiera, ma per dire anche alle quattro province d’Irlanda: Ulster, Munster, Leinster e Connacht). Invece di Inghilterra, Scozia, Galles e Nord Irlanda, i confini vengono ridisegnati per accogliere, tenendoli accuratamente separati, i quattro temperamenti umorali in altrettanti quartieri designati cromaticamente: di blu la flemma, di rosso il sangue, di giallo la bile gialla e (per la tradizionale idiosincrasia britannica ai colori troppo cupi) di verde la bile nera.
La potente distopia di Thomson prende vita da due radici. La prima è banalmente geografica, potremmo dire: l’autore, che dalla biografia risulta essere un giramondo, si guarda intorno e si rende conto dell’irrefrenabile decadenza dei resti dell’Impero Britannico. “Una nazione allo sfascio”, scrive, “ossessionata dal consumismo e dalla celebrità (…). Il divorzio seguiva al matrimonio in modo rapido e prevedibile (…). La violenza era sempre dietro l’angolo. (…) Se non ti andava a genio come guidava qualcuno, gli sfasciavi i fari con un cric. Se il tuo vicino era un sospetto pedofilo, lo linciavi.” E l’etichetta british, si chiede l’ignaro lettore infarcito di stereotipi, e la smodata attenzione ai ps & qs (please and thankyous, per favore e grazie) che fine fanno in questa carneficina? Thomson spiega: “Per decenni, forse secoli, il paese aveva adottato una complicata rete di buone maniere e convenzioni sociali per stendere un velo sulla sua vera natura, ma ora aveva finito per abbandonare ogni pretesa di essere altro da ciò che era in realtà: un paese del Nord, isolazionista e fondamentalmente barbaro”.
La seconda radice nella quale Thomson affonda è implicita ma facilmente rintracciabile da alcune spie sparse per il romanzo, ad esempio un quartiere della capitale comune (manco a dirlo anch’essa divisa in quattro compartimenti stagni) che si chiama Gulliver. Come sostenevo in apertura, la Gran Bretagna è sempre stata, quasi con rassegnazione, la nazione migliore in cui vivere e quella dalla quale si tendeva a rifugiarsi in stati immaginari, nel tempo o nello spazio. Principiò Tommaso Moro con la sua Utopia, e la sua testa rotolò ai piedi di Enrico VIII (ma non per quel che aveva scritto, ci mancherebbe; non aveva approvato l’ennesimo matrimonio regale). Jonathan Swift mi insegnò che le uniche persone decenti sono i cavalli. Oscar Wilde presentò ne L’Anima dell’Uomo sotto il Socialismo l’idea inedita di un collettivismo individualista, o di un individualismo collettivo. William Golding smontò pezzo a pezzo la stupida teoria rousseauiana per la quale ogni uomo nasce buono. George Orwell scrisse 1984 e, oltre a fare la fortuna di Pietro Taricone, creò una smodata attesa del peggio. L’anno incriminato arrivò ed Anthony Burgess (parentesi: prima o poi cesserò gli indefessi studi voltairiani, tornerò ad avere a disposizione la mia biblioteca che giace a ottocento km di distanza da Modena, guarderò lo scaffaletto apposito e deciderò di scrivere davvero l’omaggio che merita il più grande affabulatore del postmoderno) confutò Orwell con un saggio ed un romanzo che racchiuse sotto il comune titolo di 1985. E taccio molti altri, ad esempio Andrew Crumey che in Pfitz ha retrodatato al Settecento l’invenzione di una città perfetta in tanto inesistente in quanto inventata. Ho il sospetto che tutti costoro, fossero nati sotto un regime atroce, avrebbero piuttosto scritto poesiole.
Più di ogni altro mi sembra che Thomson possa dirsi erede di Samuel Butler, che gli inglesi, per distinguerlo da un perfetto omonimo del XVII secolo, usano delineare maggiormente giustapponendo fra parentesi le sue date estreme (1835-1902) ovvero il titolo dell’opera sua più celebre (The Way of All Flesh). L’anno prima di morire Butler rimise mano a un’utopia che aveva composto trent’anni prima, intitolata Erewhon (l’anagramma di Nowhere, appunto ou topos). Non ho idea se l’abbiano mai tradotta in Italiano, tant’è vero che per leggerla ho dovuto comprarla in un’edizione Penguin del 1936. Butler immagina, come farà grossomodo Thomson, una società in cui le malattie sono considerate delitti e i delitti malattie - e cita al proposito, in un punto che sono ancora troppo scosso dagli esiti delle elezioni per trovare, l’abitudine tutta italocattolica di compatire chi ha fatto qualche sproposito: “povero disgraziato, ha ammazzato suo zio” (avete intuito bene, sono le uniche parole in Italiano di tutto il libro).
Thomson, beninteso, non è Swift e nemmeno Burgess. Però gode di notevoli squarci di chiaroveggenza e, soprattutto, non ha mai la pretesa dell’ultima parola, sovente moralistica, che soffoca sul nascere i profeti della politica, tutti intenti a farsi venire i crampi all’indice a furia di tenerlo puntato. Un’umanissima simpatia è palpabile nella pungente descrizione del Quartiere Blu, dove i flemmatici “avevano visto tredici amministrazioni diverse e altrettante coalizioni al governo, con il risultato che perfino le decisioni prese ai livelli più alti erano regolarmente revocate e si risolvevano in un nulla di fatto” (avete intuito bene-bis, nei suoi cinquant’anni di vita Thomson ha risieduto anche a Roma). Al contrario, un naturale scetticismo circonda i pur ragionevolissimi (anti)dogmi della Chiesa del Cielo in Terra, che adorava Dio “non in quanto giudice o vendicatore, ma in senso astratto, in quanto seme da cui si era sviluppato l’universo, fonte dell’esistenza”.
Se avessi veramente venticinque anni come c’è scritto sulla carta d’identità, che pure mi ritrae con una barbaccia che non ho più, forse mi commuoverei maggiormente di fronte al destino dei Bianchi, i paria della regno riorganizzato, il suo quinto quarto, irriducibili a nessun umore e quindi a nessun quartiere; soggetti a diversi trattamenti a seconda dell’umore circostante (visti come mistici nel Quartiere Blu, mendichi nel Quartiere Rosso, capri espiatori nel Quartiere Giallo) tacendo e vagando per ogni dove portano avanti, parrebbe, la loro silenziosa e come tutte sterile rivoluzione. Se invece considero l’artrosi, la disperazione escatologica, le notturne levate per la pipì e l’inesorabile incartapecorirsi delle amichette, be’, allora riconosco di buon grado che di anni ne ho duecentootto e che quindi questi Bianchi non mi commuovono affatto, anzi mi fanno pure un poco schifo. Sono invece morbosamente attratto (e già mi figuro i risolini isterici delle mie candide lettrici) dal Quartiere Verde.
Esplicitamente Thomson appunta il trasferimento del protagonista dal Quartiere Rosso al Quartiere Verde come il conseguente sviluppo della trama, e quindi designa la melanconia come conseguenza della vita umana, connaturata alla vecchiaia: “C’era qualcosa di logico, quasi inevitabile, nell’essere trasferiti qui.” - lamenta - “Era una sorta di percorso naturale”. Con terrore i malinconici osservano il progressivo e ciclico avvicinarsi del Natale - avete idea di cosa sia Natale in Inghilterra? L’ultima volta che ci sono stato sono scappato il 15 dicembre. E il frenetico Christmas Shopping. E gli sconti sui libri che restavano comunque troppo costosi. E gli allegri zampognari nelle strade semideserte. E la brina a terra alle undici del mattino. E il sole che non saliva mai più su del mio stesso naso. E le ragazzine languide con il cappello luminoso di Santa Claus sopra e le lattescenti cosciotte scoperte sotto. E, peggio di tutto, gli Italiani che volevano trascorrere un Natale diverso dal solito e m’intercettavano per sapere se fossi in vacanza anch’io.
Riguardo al Natale, spiega Thomson, “tutti conoscevano le statistiche: alcuni si sarebbero suicidati, altri sarebbero caduti in una grave depressione e così via”. Nel Quartiere Verde il Natale è l’ipostasi dell’infelicità; e come col passare degli anni l’immalinconirsi è inevitabile, e come col passare dei mesi il Natale (con il pudding!) è ineludibile, così l’infelicità stessa diventa non soltanto un’eventualità da cui difendersi per quel che è possibile, ma una prospettiva reale, presente, quasi necessaria e da abbracciare con impeto, se non si vuol rimanerne soffocati. È anche l’unico appiglio concreto al sentimento di questo mondo; Thomson intuisce che nella sua tribolata storia la felicità aveva sempre pagato un problema fondamentale: “era sfuggente, quasi diafana. Non lanciava segnali, non gli lasciava nulla alle spalle. Il dolore, invece, era diverso. Il dolore si poteva raccogliere, esibire. E se potevamo provare di essere stati tristi, allora potevamo anche provare di essere stati felici (…). Preservando il dolore, dunque, avremmo preservato la felicità. Il Museo delle Lacrime significava molto di più di quanto il suo nome potesse suggerire. Non si trattava solo di file di bottigliette di vetro identiche (…). Si trattava di persone che tentavano di aggrapparsi alla felicità che avevano conosciuto.”Viene in mente che, come accadde a Sciascia per Il Contesto, Rupert Thomson abbia iniziato a scrivere questa distopia per divertimento e che invece, finendola, si sia accorto di non essersi divertito affatto.
Gli Inglesi hanno sempre avuto una predilezione per le distinzioni nette; non si spiegherebbe altrimenti la scelta di conservare nei secoli un rubinetto per l’acqua gelata e uno per l’acqua bollente, impossibili a moderarsi. Come specifica il sottotitolo scelto per l’edizione italiana (Sei collerico, malinconico, flemmatico o sanguigno?) le autorità del Regno stabiliscono di rinnovare la quadripartizione che è sempre stata caratteristica di quelle latitudini (pensate non solo alle quattro nazioni fuse in un’unica bandiera, ma per dire anche alle quattro province d’Irlanda: Ulster, Munster, Leinster e Connacht). Invece di Inghilterra, Scozia, Galles e Nord Irlanda, i confini vengono ridisegnati per accogliere, tenendoli accuratamente separati, i quattro temperamenti umorali in altrettanti quartieri designati cromaticamente: di blu la flemma, di rosso il sangue, di giallo la bile gialla e (per la tradizionale idiosincrasia britannica ai colori troppo cupi) di verde la bile nera.
La potente distopia di Thomson prende vita da due radici. La prima è banalmente geografica, potremmo dire: l’autore, che dalla biografia risulta essere un giramondo, si guarda intorno e si rende conto dell’irrefrenabile decadenza dei resti dell’Impero Britannico. “Una nazione allo sfascio”, scrive, “ossessionata dal consumismo e dalla celebrità (…). Il divorzio seguiva al matrimonio in modo rapido e prevedibile (…). La violenza era sempre dietro l’angolo. (…) Se non ti andava a genio come guidava qualcuno, gli sfasciavi i fari con un cric. Se il tuo vicino era un sospetto pedofilo, lo linciavi.” E l’etichetta british, si chiede l’ignaro lettore infarcito di stereotipi, e la smodata attenzione ai ps & qs (please and thankyous, per favore e grazie) che fine fanno in questa carneficina? Thomson spiega: “Per decenni, forse secoli, il paese aveva adottato una complicata rete di buone maniere e convenzioni sociali per stendere un velo sulla sua vera natura, ma ora aveva finito per abbandonare ogni pretesa di essere altro da ciò che era in realtà: un paese del Nord, isolazionista e fondamentalmente barbaro”.
La seconda radice nella quale Thomson affonda è implicita ma facilmente rintracciabile da alcune spie sparse per il romanzo, ad esempio un quartiere della capitale comune (manco a dirlo anch’essa divisa in quattro compartimenti stagni) che si chiama Gulliver. Come sostenevo in apertura, la Gran Bretagna è sempre stata, quasi con rassegnazione, la nazione migliore in cui vivere e quella dalla quale si tendeva a rifugiarsi in stati immaginari, nel tempo o nello spazio. Principiò Tommaso Moro con la sua Utopia, e la sua testa rotolò ai piedi di Enrico VIII (ma non per quel che aveva scritto, ci mancherebbe; non aveva approvato l’ennesimo matrimonio regale). Jonathan Swift mi insegnò che le uniche persone decenti sono i cavalli. Oscar Wilde presentò ne L’Anima dell’Uomo sotto il Socialismo l’idea inedita di un collettivismo individualista, o di un individualismo collettivo. William Golding smontò pezzo a pezzo la stupida teoria rousseauiana per la quale ogni uomo nasce buono. George Orwell scrisse 1984 e, oltre a fare la fortuna di Pietro Taricone, creò una smodata attesa del peggio. L’anno incriminato arrivò ed Anthony Burgess (parentesi: prima o poi cesserò gli indefessi studi voltairiani, tornerò ad avere a disposizione la mia biblioteca che giace a ottocento km di distanza da Modena, guarderò lo scaffaletto apposito e deciderò di scrivere davvero l’omaggio che merita il più grande affabulatore del postmoderno) confutò Orwell con un saggio ed un romanzo che racchiuse sotto il comune titolo di 1985. E taccio molti altri, ad esempio Andrew Crumey che in Pfitz ha retrodatato al Settecento l’invenzione di una città perfetta in tanto inesistente in quanto inventata. Ho il sospetto che tutti costoro, fossero nati sotto un regime atroce, avrebbero piuttosto scritto poesiole.
Più di ogni altro mi sembra che Thomson possa dirsi erede di Samuel Butler, che gli inglesi, per distinguerlo da un perfetto omonimo del XVII secolo, usano delineare maggiormente giustapponendo fra parentesi le sue date estreme (1835-1902) ovvero il titolo dell’opera sua più celebre (The Way of All Flesh). L’anno prima di morire Butler rimise mano a un’utopia che aveva composto trent’anni prima, intitolata Erewhon (l’anagramma di Nowhere, appunto ou topos). Non ho idea se l’abbiano mai tradotta in Italiano, tant’è vero che per leggerla ho dovuto comprarla in un’edizione Penguin del 1936. Butler immagina, come farà grossomodo Thomson, una società in cui le malattie sono considerate delitti e i delitti malattie - e cita al proposito, in un punto che sono ancora troppo scosso dagli esiti delle elezioni per trovare, l’abitudine tutta italocattolica di compatire chi ha fatto qualche sproposito: “povero disgraziato, ha ammazzato suo zio” (avete intuito bene, sono le uniche parole in Italiano di tutto il libro).
Thomson, beninteso, non è Swift e nemmeno Burgess. Però gode di notevoli squarci di chiaroveggenza e, soprattutto, non ha mai la pretesa dell’ultima parola, sovente moralistica, che soffoca sul nascere i profeti della politica, tutti intenti a farsi venire i crampi all’indice a furia di tenerlo puntato. Un’umanissima simpatia è palpabile nella pungente descrizione del Quartiere Blu, dove i flemmatici “avevano visto tredici amministrazioni diverse e altrettante coalizioni al governo, con il risultato che perfino le decisioni prese ai livelli più alti erano regolarmente revocate e si risolvevano in un nulla di fatto” (avete intuito bene-bis, nei suoi cinquant’anni di vita Thomson ha risieduto anche a Roma). Al contrario, un naturale scetticismo circonda i pur ragionevolissimi (anti)dogmi della Chiesa del Cielo in Terra, che adorava Dio “non in quanto giudice o vendicatore, ma in senso astratto, in quanto seme da cui si era sviluppato l’universo, fonte dell’esistenza”.
Se avessi veramente venticinque anni come c’è scritto sulla carta d’identità, che pure mi ritrae con una barbaccia che non ho più, forse mi commuoverei maggiormente di fronte al destino dei Bianchi, i paria della regno riorganizzato, il suo quinto quarto, irriducibili a nessun umore e quindi a nessun quartiere; soggetti a diversi trattamenti a seconda dell’umore circostante (visti come mistici nel Quartiere Blu, mendichi nel Quartiere Rosso, capri espiatori nel Quartiere Giallo) tacendo e vagando per ogni dove portano avanti, parrebbe, la loro silenziosa e come tutte sterile rivoluzione. Se invece considero l’artrosi, la disperazione escatologica, le notturne levate per la pipì e l’inesorabile incartapecorirsi delle amichette, be’, allora riconosco di buon grado che di anni ne ho duecentootto e che quindi questi Bianchi non mi commuovono affatto, anzi mi fanno pure un poco schifo. Sono invece morbosamente attratto (e già mi figuro i risolini isterici delle mie candide lettrici) dal Quartiere Verde.
Esplicitamente Thomson appunta il trasferimento del protagonista dal Quartiere Rosso al Quartiere Verde come il conseguente sviluppo della trama, e quindi designa la melanconia come conseguenza della vita umana, connaturata alla vecchiaia: “C’era qualcosa di logico, quasi inevitabile, nell’essere trasferiti qui.” - lamenta - “Era una sorta di percorso naturale”. Con terrore i malinconici osservano il progressivo e ciclico avvicinarsi del Natale - avete idea di cosa sia Natale in Inghilterra? L’ultima volta che ci sono stato sono scappato il 15 dicembre. E il frenetico Christmas Shopping. E gli sconti sui libri che restavano comunque troppo costosi. E gli allegri zampognari nelle strade semideserte. E la brina a terra alle undici del mattino. E il sole che non saliva mai più su del mio stesso naso. E le ragazzine languide con il cappello luminoso di Santa Claus sopra e le lattescenti cosciotte scoperte sotto. E, peggio di tutto, gli Italiani che volevano trascorrere un Natale diverso dal solito e m’intercettavano per sapere se fossi in vacanza anch’io.
Riguardo al Natale, spiega Thomson, “tutti conoscevano le statistiche: alcuni si sarebbero suicidati, altri sarebbero caduti in una grave depressione e così via”. Nel Quartiere Verde il Natale è l’ipostasi dell’infelicità; e come col passare degli anni l’immalinconirsi è inevitabile, e come col passare dei mesi il Natale (con il pudding!) è ineludibile, così l’infelicità stessa diventa non soltanto un’eventualità da cui difendersi per quel che è possibile, ma una prospettiva reale, presente, quasi necessaria e da abbracciare con impeto, se non si vuol rimanerne soffocati. È anche l’unico appiglio concreto al sentimento di questo mondo; Thomson intuisce che nella sua tribolata storia la felicità aveva sempre pagato un problema fondamentale: “era sfuggente, quasi diafana. Non lanciava segnali, non gli lasciava nulla alle spalle. Il dolore, invece, era diverso. Il dolore si poteva raccogliere, esibire. E se potevamo provare di essere stati tristi, allora potevamo anche provare di essere stati felici (…). Preservando il dolore, dunque, avremmo preservato la felicità. Il Museo delle Lacrime significava molto di più di quanto il suo nome potesse suggerire. Non si trattava solo di file di bottigliette di vetro identiche (…). Si trattava di persone che tentavano di aggrapparsi alla felicità che avevano conosciuto.”Viene in mente che, come accadde a Sciascia per Il Contesto, Rupert Thomson abbia iniziato a scrivere questa distopia per divertimento e che invece, finendola, si sia accorto di non essersi divertito affatto.
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