(lunedì 8 maggio 2006, copyright Ore Piccole)
Pare che sia il libro più venduto in Gran Bretagna, sebbene l’autrice, l’ambientazione, la trama, la maniera di svilupparla, il rimbalzare delle voci narranti, il titolo e il ritondo stemma Best Sellers (al plurale!) schiaffato in copertina dell’edizione italiana siano inequivocabilmente americani. Sarà che, come disse non ricordo chi in non ricordo quale film giusto due minuti prima che io mi addormentassi, “gli americani amano l’Inghilterra perché è la loro più grande colonia”. Sarà che America e Inghilterra non sono più due nazioni insormontabilmente divise dalla stessa lingua. Sarà che, come il battito d’ali farfallesche scatena uragani, il repentino licenziamento, dal bar dove quotidianamente mi servo, della cassiera più bella del mondo ha causato una scompaginazione universale (e adesso chi mi sorride mentre pago il caffè?). Fatto sta che in Inghilterra la gente va in libreria e, oltre all’autobiografia di David Beckham, compra e legge volentieri La moglie dell’uomo che viaggiava nel tempo, di Audrey Niffenegger.
In Italia l’ha pubblicato Mondadori nella collana Scrittori Italiani e Stranieri (come Saul Bellow, per dire, come Piperno e Buttafuoco), e ora che è stato ripubblicato in Oscar, per giunta con il tradizionale sconto del 30% che segna l’arrivo della primavera, la consacrazione è completa - tanto da comprarlo perfino io, che preferisco spendere i miei (pochi) guadagni in edizioni d’antan dell’Almanacco Illustrato del Calcio Panini (mica per niente vivo a Modena). Pertanto mi farò forza e, invece di esporre la formazione della Sampdoria campione d’Italia nel 1991, tenterò un raffronto qualità prezzo del romanzo dal titolo enorme.
Clare DeTamble nata Abshire, la protagonista, è una linea retta, come tutti noi d’altronde. La sua vita inizia con la nascita e finisce con la morte, e nel mezzo è prevista una parabola fatta di giorni successivi a giorni e decenni successivi a decenni, così che la sua età aumenti regolarmente: ogni anno che passa, un anno di più. Henry DeTamble nato DeTamble, al contrario, è un ghirigoro. La sua vita inizia con la nascita e finisce con la morte (mentre la mia è iniziata con la nascita e finita con la laurea), ma in mezzo il tempo non procede regolarmente, così che di punto in bianco, ad esempio mentre sta presenziando alla veglia di Natale con la famiglia della fidanzata, si ritrova completamente nudo nella biblioteca in cui lavora otto anni dopo. Oppure assiderato in un garage. O in compagnia della sua stessa fidanzata all’età di sei anni. O peggio ancora insieme a sé stesso, più grande e più piccolo, ad accarezzarsi vicendevolmente lo strumento oppure ad insegnarsi come si sfilano portafogli.
Nel corso delle infinite e ingovernabili curve, la linea-Henry incontra, forse farei meglio a dire si interseca, con la retta-Clare svariate volte. La prima volta per Clare è il 23 settembre 1977; lei ha sei anni e lui trentasei; lei sta giocando in un prato e dal nulla vede comparire un uomo nudo. Poiché l’età in cui le donne si scandalizzano per la nudità altrui viene con l’adolescenza (ma dopo i quaranta si scandalizzano solo per la propria), lo accetta e se ne innamora, com’è inevitabile che avvenga poiché lui sa già di averla sposata. Al contrario, la prima volta per Henry è il 26 ottobre 1991, lei ha vent’anni e lui ventotto; nelle sue funzioni di bibliotecario a Chicago, lui le chiede “In cosa posso servirla?” e lei melodrammaticamente urla “Henry!” e gli butta le braccia al collo. E dire che io vado in biblioteca tutti i giorni.
Per ovviare a questo doppio piano temporale, in cui non è facile distinguere cosa sia il prima e il dopo, o meglio in cui il prima dell’uno è il dopo dell’altra, Niffenegger adotta la tecnica narrativa non tanto dello shifting point of view quanto di un continuo rimbalzo della voce narrante, come una partita di tennis, in cui prima parla Clare e poi parla Henry, tenendo come punto fermo, all’inizio del singolo paragrafo, la data del giorno come unico dato temporale indiscutibile, ma pure considerando la temporalità soggettiva più (l’età di Clare) o meno (l’età di Henry) ordinata. Con mirabile simmetria, Clare parla per prima e per ultima. La faccenda è ingarbugliata - altrimenti non ne sarebbe uscito un romanzo di cinquecento pagine - ma si fa più semplice quando Henry e Clare, nel presente di lei, si sposano: così la linea aggrovigliata si trova a coincidere il più delle volte con la retta. Il più delle volte, però; perché di tanto in tanto, magari mentre taglia l’erba del giardino, Henry svanisce e a Clare, che è in casa a leggere Proust (non a caso), restano solo i suoi vestiti sul prato, vestigia del tempo momentaneamente perduto. Henry va a spasso per lo spaziotempo per qualche ora, per giorni tutt’al più, finché rieccolo che ricompare al fianco di Clare, magari mentre lei sta per addormentarsi. Verrebbe da pensare che sono felici insieme proprio perché tendono ad evitarsi.
Sto scrivendo con addosso un’abbagliante maglietta rossa del FestivalFilosofia con la scritta “so di non sapere”. Sono certo che questo mi alienerà le simpatie delle mie rutilanti lettrici, molte delle quali prima d’oggi erano disposte ad ingollare arsenico per amore degli occhi miei sì belli, ma è un sacrificio che va fatto per spiegare che è come se Henry DeTamble andasse in giro con scritto addosso: “io non sono ora”, che è come dire “io non sono qui”, ovvero “io non esisto”. Parlando col dottor Kendrick (il cui nome è racchiuso fra due k, scientificamente intesa per costante), Henry, che al loro primo incontro sa già cosa il dottore scoprirà in seguito, parla della propria cronoalterazione come di un problema al Dasein, l’esserci, l’hic et nunc per gli amanti del latino. Sparire improvvisamente, magari durante un party elegante, senza sapere quando né dove riapparire completamente nudi, socialmente è riprovevole quasi quanto dichiarare di aver votato per Berlusconi. Così Henry è costretto ad inventarsi una vita, vomita frequentemente, rubacchia, mente sulle proprie assenze (o, peggio ancora, sulle proprie presenze, quando lo vedono picchiare un passante per spogliarlo) e, concordemente al destino di chiunque sia benedetto da una diversità, muore vittima.
Man mano che leggevo - e ce ne ho messo di tempo, perché il romanzo ora è un pageturner ora un esercizio un po’ infiacchito - cambiavo le mie convinzioni: ero sicuro che, archetipicamente, Henry DeTamble fosse Ulisse, che invece di gironzolare per vent’anni sparisce all’improvviso annullando i ventennii nel passato o nel futuro; e che Clare fosse Penelope, che lo aspetta all’inizio, lo aspetta alla fine, lo aspetta tutte le volte che c’è da aspettarlo. Quale controprova, Henry appare nudo, sempre come Ulisse, davanti a Clare che gioca, stavolta come Nausicaa (che è una sorta di Penelope giovane, quest’ultima disposta ad aspettare in un eterno presente, la prima pronta a cancellare in eterno il passato dell’uomo piovutole dal cielo, dal mare anzi; Penelope moglie indefessa e Nausicaa fidanzatina indefettibile; infatti Ulisse piglia e se ne va dall’isola dei Feaci, perché le mogli vanno sempre accudite e le fidanzate sempre ingannate).Le spie che mi hanno fatto cambiare idea sono state le tante e raffinate citazioni poetiche che Niffenegger pone ad esergo delle macrosequenze - Derek Walcott, Rilke, Antonia S. Byatt; per quanto l’ultima sia Omero, a conferma che l’autrice pensava proprio ad Ulisse, mi sono convinto che, poiché il lettore non deve necessariamente pensarla allo stesso modo, senza saperlo Niffenegger in realtà pensava a Gesù. Non ci sarebbe stato altro motivo, credo, di intitolare il romanzo non all’effettivo protagonista, l’uomo straordinario, quanto a sua moglie, che di straordinario ha solo la pazienza, l’affetto, la sofferenza - pregevolissimi sentimenti che la pongono, nel suo misurarsi con l’inspiegabile, col sovrumano, su un piano simile a quello della Madonna. Un’operazione simile, curiosamente anch’ella in Oscar Mondadori, l’ha fatta quasi dieci anni fa Laura Bosio con Annunciazione: un labirinto di citazioni colte (cito alla rinfusa: Adolf Harnack, Jacopo da Varagine, Hölderlin, John Henry Newman) per spiegare l’inevitabile stupore di fronte all’essere scelta quale strumento dell’incommensurabile. Henry, la cui estrema umanità confuta la possibile appartenenza a una nuova specie scientifica, è figura Christi: come lui è sopra il tempo, come lui muore vittima, come lui riappare dopo la morte. Le lacrime di Clare sono le stesse che Maria deve aver versato nella meraviglia dell’Annunciazione, nella crudeltà della Passione, nel trionfo della Resurrezione: il precipitato della vita che non finisce in sé, ma è appiglio e strumento di qualcuno di più grande.
In Italia l’ha pubblicato Mondadori nella collana Scrittori Italiani e Stranieri (come Saul Bellow, per dire, come Piperno e Buttafuoco), e ora che è stato ripubblicato in Oscar, per giunta con il tradizionale sconto del 30% che segna l’arrivo della primavera, la consacrazione è completa - tanto da comprarlo perfino io, che preferisco spendere i miei (pochi) guadagni in edizioni d’antan dell’Almanacco Illustrato del Calcio Panini (mica per niente vivo a Modena). Pertanto mi farò forza e, invece di esporre la formazione della Sampdoria campione d’Italia nel 1991, tenterò un raffronto qualità prezzo del romanzo dal titolo enorme.
Clare DeTamble nata Abshire, la protagonista, è una linea retta, come tutti noi d’altronde. La sua vita inizia con la nascita e finisce con la morte, e nel mezzo è prevista una parabola fatta di giorni successivi a giorni e decenni successivi a decenni, così che la sua età aumenti regolarmente: ogni anno che passa, un anno di più. Henry DeTamble nato DeTamble, al contrario, è un ghirigoro. La sua vita inizia con la nascita e finisce con la morte (mentre la mia è iniziata con la nascita e finita con la laurea), ma in mezzo il tempo non procede regolarmente, così che di punto in bianco, ad esempio mentre sta presenziando alla veglia di Natale con la famiglia della fidanzata, si ritrova completamente nudo nella biblioteca in cui lavora otto anni dopo. Oppure assiderato in un garage. O in compagnia della sua stessa fidanzata all’età di sei anni. O peggio ancora insieme a sé stesso, più grande e più piccolo, ad accarezzarsi vicendevolmente lo strumento oppure ad insegnarsi come si sfilano portafogli.
Nel corso delle infinite e ingovernabili curve, la linea-Henry incontra, forse farei meglio a dire si interseca, con la retta-Clare svariate volte. La prima volta per Clare è il 23 settembre 1977; lei ha sei anni e lui trentasei; lei sta giocando in un prato e dal nulla vede comparire un uomo nudo. Poiché l’età in cui le donne si scandalizzano per la nudità altrui viene con l’adolescenza (ma dopo i quaranta si scandalizzano solo per la propria), lo accetta e se ne innamora, com’è inevitabile che avvenga poiché lui sa già di averla sposata. Al contrario, la prima volta per Henry è il 26 ottobre 1991, lei ha vent’anni e lui ventotto; nelle sue funzioni di bibliotecario a Chicago, lui le chiede “In cosa posso servirla?” e lei melodrammaticamente urla “Henry!” e gli butta le braccia al collo. E dire che io vado in biblioteca tutti i giorni.
Per ovviare a questo doppio piano temporale, in cui non è facile distinguere cosa sia il prima e il dopo, o meglio in cui il prima dell’uno è il dopo dell’altra, Niffenegger adotta la tecnica narrativa non tanto dello shifting point of view quanto di un continuo rimbalzo della voce narrante, come una partita di tennis, in cui prima parla Clare e poi parla Henry, tenendo come punto fermo, all’inizio del singolo paragrafo, la data del giorno come unico dato temporale indiscutibile, ma pure considerando la temporalità soggettiva più (l’età di Clare) o meno (l’età di Henry) ordinata. Con mirabile simmetria, Clare parla per prima e per ultima. La faccenda è ingarbugliata - altrimenti non ne sarebbe uscito un romanzo di cinquecento pagine - ma si fa più semplice quando Henry e Clare, nel presente di lei, si sposano: così la linea aggrovigliata si trova a coincidere il più delle volte con la retta. Il più delle volte, però; perché di tanto in tanto, magari mentre taglia l’erba del giardino, Henry svanisce e a Clare, che è in casa a leggere Proust (non a caso), restano solo i suoi vestiti sul prato, vestigia del tempo momentaneamente perduto. Henry va a spasso per lo spaziotempo per qualche ora, per giorni tutt’al più, finché rieccolo che ricompare al fianco di Clare, magari mentre lei sta per addormentarsi. Verrebbe da pensare che sono felici insieme proprio perché tendono ad evitarsi.
Sto scrivendo con addosso un’abbagliante maglietta rossa del FestivalFilosofia con la scritta “so di non sapere”. Sono certo che questo mi alienerà le simpatie delle mie rutilanti lettrici, molte delle quali prima d’oggi erano disposte ad ingollare arsenico per amore degli occhi miei sì belli, ma è un sacrificio che va fatto per spiegare che è come se Henry DeTamble andasse in giro con scritto addosso: “io non sono ora”, che è come dire “io non sono qui”, ovvero “io non esisto”. Parlando col dottor Kendrick (il cui nome è racchiuso fra due k, scientificamente intesa per costante), Henry, che al loro primo incontro sa già cosa il dottore scoprirà in seguito, parla della propria cronoalterazione come di un problema al Dasein, l’esserci, l’hic et nunc per gli amanti del latino. Sparire improvvisamente, magari durante un party elegante, senza sapere quando né dove riapparire completamente nudi, socialmente è riprovevole quasi quanto dichiarare di aver votato per Berlusconi. Così Henry è costretto ad inventarsi una vita, vomita frequentemente, rubacchia, mente sulle proprie assenze (o, peggio ancora, sulle proprie presenze, quando lo vedono picchiare un passante per spogliarlo) e, concordemente al destino di chiunque sia benedetto da una diversità, muore vittima.
Man mano che leggevo - e ce ne ho messo di tempo, perché il romanzo ora è un pageturner ora un esercizio un po’ infiacchito - cambiavo le mie convinzioni: ero sicuro che, archetipicamente, Henry DeTamble fosse Ulisse, che invece di gironzolare per vent’anni sparisce all’improvviso annullando i ventennii nel passato o nel futuro; e che Clare fosse Penelope, che lo aspetta all’inizio, lo aspetta alla fine, lo aspetta tutte le volte che c’è da aspettarlo. Quale controprova, Henry appare nudo, sempre come Ulisse, davanti a Clare che gioca, stavolta come Nausicaa (che è una sorta di Penelope giovane, quest’ultima disposta ad aspettare in un eterno presente, la prima pronta a cancellare in eterno il passato dell’uomo piovutole dal cielo, dal mare anzi; Penelope moglie indefessa e Nausicaa fidanzatina indefettibile; infatti Ulisse piglia e se ne va dall’isola dei Feaci, perché le mogli vanno sempre accudite e le fidanzate sempre ingannate).Le spie che mi hanno fatto cambiare idea sono state le tante e raffinate citazioni poetiche che Niffenegger pone ad esergo delle macrosequenze - Derek Walcott, Rilke, Antonia S. Byatt; per quanto l’ultima sia Omero, a conferma che l’autrice pensava proprio ad Ulisse, mi sono convinto che, poiché il lettore non deve necessariamente pensarla allo stesso modo, senza saperlo Niffenegger in realtà pensava a Gesù. Non ci sarebbe stato altro motivo, credo, di intitolare il romanzo non all’effettivo protagonista, l’uomo straordinario, quanto a sua moglie, che di straordinario ha solo la pazienza, l’affetto, la sofferenza - pregevolissimi sentimenti che la pongono, nel suo misurarsi con l’inspiegabile, col sovrumano, su un piano simile a quello della Madonna. Un’operazione simile, curiosamente anch’ella in Oscar Mondadori, l’ha fatta quasi dieci anni fa Laura Bosio con Annunciazione: un labirinto di citazioni colte (cito alla rinfusa: Adolf Harnack, Jacopo da Varagine, Hölderlin, John Henry Newman) per spiegare l’inevitabile stupore di fronte all’essere scelta quale strumento dell’incommensurabile. Henry, la cui estrema umanità confuta la possibile appartenenza a una nuova specie scientifica, è figura Christi: come lui è sopra il tempo, come lui muore vittima, come lui riappare dopo la morte. Le lacrime di Clare sono le stesse che Maria deve aver versato nella meraviglia dell’Annunciazione, nella crudeltà della Passione, nel trionfo della Resurrezione: il precipitato della vita che non finisce in sé, ma è appiglio e strumento di qualcuno di più grande.
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