lunedì 26 febbraio 2007

Sulla via della carne


(lunedì 24 luglio 2006, copyright Ore Piccole)


Racconta Umberto Eco - non ricordo dove, né forse lo ricorda lui - come alcuni libri nuovi, non ancora letti, una volta iniziati sanno di già visto, già sentito, già saputo; e come, miracolosamente, questa sensazione non sia affatto spiacevole, non spinga a chiedere indietro i soldi, ma anzi rilassi il lettore e gli consenta di adagiarsi su una comoda culla, di lasciarsi trasportare da un passeggino, dimèntico di tutto. Questo, argomentava Eco, perché i libri che iniziamo a leggere ex novo sono i libri di cui abbiamo sentito parlare, che abbiamo furtivamente sfogliato in libreria o spolverato a casa nostra, e riponendoli ci immaginavamo - sulla scorta di due o tre parole colte qua e là, di un inizio rubato o di una fine sbirciata - cosa vi avremmo trovato scritto pagina dopo pagina.
Ma io non sono Umberto Eco, pertanto lascio perdere questa retorica un po’ tronfia benché finemente ragionata, tanto più in quanto so per certo che, se leggendo Il Collezionista di Città di Camillo Langone (Marsilio, un mese fa) mi è parso di leggere il già letto, è perché avevo effettivamente non solo già letto buona parte nel giro di un paio d’anni su Il Foglio, ma anche morbosamente ritagliato e accuratamente conservato il tutto come a formare lo stesso libro senza rilegatura. Io, che sono un fogliante (relativamente) precoce, un fogliante parossistico, un fogliante un po’ pirla, mi dico non solo a priori favorevole alla rilegatura editoriale delle raccolte di articoli (sebbene non abbia il coraggio, poi, di gettare i ritagli sfusi), ma soprattutto favorevolissimo a che i testi di Langone sboccino più in là della in fin dei conti limitata tiratura de Il Foglio (che è una setta ed è meglio così) e raggiungano la maggior possibile diffusione, sia a ciò necessaria la riedizione in volume tanto quanto il volantinaggio a tappeto da un elicottero sulle piazze del Festivalbar.
Titolo e sottotitolo (Viaggi Italiani) potrebbero trarre in inganno, lasciando intuire l’ennesimo giroditalia fatto e finito, o peggio la pallosissima esplorazione della provincia a fini elettorali, o peggio la riscoperta di borghi e paeselli dimenticati (se li abbiamo dimenticati, una ragione ci sarà), o peggio di tutto un tuffo sui luoghi della cronaca (sulla mia testa e su Gravina ronzano gli elicotteri in ricerca di bambini scomparsi, così da rendermi impossibile qualsiasi virtuosismo, e mi arrivano messaggini del tipo: “Ora che il tuo paese è sempre in tv ti penso tanto spesso”). Già le prime parole dell’autore, riportate anche in seconda di copertina, fugano però qualsiasi sospetto in cui sia potuto cadere chi invece de Il Foglio compra chissà che giornalacci, illustrando infatti che si tratta di un itinerario diverso: al consueto tragitto Milano-Napoli (o Bolzano-Palermo, se si ha fegato) si sostituisce un sinuoso itinerario ad esse, da Parma (dove Langone vive, specificando che si parte necessariamente da casa propria) su fino a Trieste e poi giù fino a Marsala per risalire infine a Potenza (di dove Langone è originario, specificando che si arriva necessariamente a casa propria).
Gira molto, Langone, ed è un piacere accompagnarlo nel suo petit tour, sebbene lui a quella dei lettori preferisca comprensibilmente la compagnia della bella penna di “amici meglio se defunti” (d’Annunzio, Berto, così via) e delle belle forme di “amiche il più possibile vive”. Io sono invece stanziale, se non per poche e necessarie transumanze periodiche, da Modena a Gravina, da Gravina ad Oxford: basti pensare che non mi commuovo nemmeno di fronte a messaggini implorantemente impositivi come questo che Piccolina mi ha mandato mentre recitavo ora terza: “Gurrado ti voglio assolutamente a Pavia il 26. Mi laureo.” Al che le ho risposto: “Ma non eri al primo anno? Comunque non se ne parla nemmeno, primo perché sono appena rientrato a Gravina, secondo perché sei femmina quindi devi soffrire”, perché chi se non Eva ha introdotto il peccato nel mondo? Senza contare che il 26 c.m. è sant’Anna pertanto dovrò trascorrere la giornata al telefono per fare gli auguri a una pletora di ex fidanzate, future mogli, amiche, amichette, sorelline e mamme - un motivo in più per ricordarsi sia che è bene spegnere il cellulare mentre si prega, sia per ribadirsi che le donne sono tutte uguali e la migliore va impiccata, sebbene io che sono misericordioso le ami tutte o quasi.
Fuga ogni dubbio, se proprio si insiste a non aprire il libro, l’immagine di copertina della quale non sono riuscito a trovare la fonte: una mappa dell’Italia antica e capovolta. Antica e capovolta è l’Italia dei vagheggiamenti di Langone, soavemente borbonico (Parma è l’unica città del nord che possa fregiarsi del meritorio titolo), nostalgicamente propositivo (il canto gregoriano nelle chiese, ad esempio: l’altro giorno sono capitato a un battesimo pop, con tamburelli e gran battimani, e mi chiedo la creatura si salverà davvero), innamorato dell’infedeltà (vorrebbe una fidanzata a Teramo, una a Giulianova, una ad Atri, una a Castelli, una a Civitella del Tronto e una a Controguerra, tanto per limitarsi agli Abruzzi) ma devotissimo nei confronti della donna prima, non già Eva (da cui, certo, tutte discendono, “ma non per questo mi viene voglia di copulare con le mummie del Museo Egizio: meglio un epigono vivo che un caposcuola morto”) bensì Maria, nelle sue mille forme di mater castissima, sedes sapientiae, vas honorabile, turris eburnea, ovviamente refugium peccatorum (e in particolare della Madonna con Bambino di Jean Fouquet: Langone la descrive talmente bene, incoronata popputa e monicabellucciana, che io, uomo di poca fede, non ho avuto il coraggio di cercarne una riproduzione).
Poco meno di due settimane fa, nel giorno in cui la miope Francia celebra il selvaticume nazionale, cadeva la festa di San Camillo de Lellis (1550-1614, per gli irreligiosi internauti): il gigantesco perdigiorno che sbagliava ogni scommessa ma decise di salvarsi l’anima, il Filottete cattolico afflitto da una piaga purulenta ma capace di dedicarsi tutto ai mali altrui, il Ministro degli Infermi che esortava a scorgere in ogni ammalato terminale - e quindi in ogni uomo, inevitabilmente e disperatamente peccatore - la reiterata riedizione di Cristo morente. È un nome impegnativo, dunque, e io ho la fortuna di conoscere ben due Camilli: uno è Langone, l’abbiamo capito. L’altro è mons. Camillo Pezzuoli, meraviglioso vegliardo modenese, già canonico dell’Accademia in Palazzo Ducale, già rettore del Collegio San Carlo, già successore di Paolo VI alla guida della FUCI, già un sacco di cose ma ancora combattivo nei processi di beatificazione e nelle cause della Sacra Rota, l’uomo di cui più d’ogni altro le mie fidanzate sono gelose perché intuiscono che mai un’oretta con loro potrà equiparare una pizza con lui - al massimo, organizzo l’oretta per dopo la pizza. Fra l’altro, ora che ci penso, il 14 luglio cade anche il compleanno di una mia amica che - qualora ce ne fosse bisogno - è la sesta prova dell’esistenza di Dio, l’unica con occhi capaci di far distogliere lo sguardo dal portentoso resto, l’unica in grado di riconciliare cielo e terra con un sorriso, l’unica in grado di indossare per tutto l’inverno un baschetto sulle ventitré senza apparire né ridicola né più sadomaso del necessario, ecco cosa viene in mente a furia di leggere Langone ad oltranza.
La ventitreesima ora (sebbene non faccia alcun riferimento al baschetto della mia amica, anche perché mai gliel’ho presentata) è centrale nel retropensiero di Langone, come appare esplicito nel più lungo degli articoli, dedicato a Roma città eterna benché in fin di vita. “Appena eletto, papa Alessandro VIII diceva che doveva affrettarsi perché la ventitreesima ora era già suonata”: Langone accorre al capezzale di Roma, che è il capezzale del Vaticano, della cristianità e dell’Italia tutta, e (cattolicamente) intende abbracciare tutto, salvare ogni cosa, “dalle camere fruscianti di seta di certi alberghi lussuosi ai pulpiti di pietra delle cattedrali”; tuttavia è un uomo, le sue braccia hanno portata limitata, qualcosa deve necessariamente essere lasciata indietro e ciò lo dispera. Il (nostro) mondo sta per finire, fra cinquant’anni saremo tutti morti o mussulmani, e prospera una civiltà che non sa difendersi per troppa educazione (e anche per troppa istruzione: l’Italia di Langone capovolge l’Italia dei dottori, me compreso, in cui si inizia ad essere dott. semplici a ventun anni per poi divenire dott. mag. - che incute timore, sembra dottore magistrato - e, se si sopravvive al dottorato come io dubito al mio riguardo, dott. ric. - che incute terrore, sembra dottore ricchione).
È suonata l’ultima ora e Langone si affretta a salvare il salvabile. Il suo volume, in duecentocinquanta pagine, non costituisce una selezione (questo sì, questo no; sebbene sia evidente che alcune cose, o persone, proprio no) ma, lungi da ogni pretesa di completezza, intende segnare la via e insegnare ad essere Italiani, senza esagerare, apprezzando baudelairianamente i residui di ordine, bellezza, lusso, calma e voluttà, possibilmente sorseggiando Negroni. È suonata l’ultima ora e io, per affrettarmi a scrivere tutto lo scrivibile, venerdì mi son tagliato un dito vicino alla carcassa metallica di un computer: sono corso al pronto soccorso, ho perso mezza giornata e più d’ogni altra cosa mi costernava immaginarmi col dito amputato e costretto - per dattiloscrivere altrettanto velocemente - a utilizzare pure il naso; ho perso mezza giornata e la morte s’avvicina, sotto la garza continuava a scorrere sangue e invece che al pronto soccorso sarebbe stato più utile andare dall’altro lato di Gravina a visitare la chiesa del Purgatorio, sulla fiancata della quale un nastro in tufo sotto un teschio spiega: Via Universae Carnis - Samuel Butler avrebbe tradotto The Way of All Flesh e il traduttore Einaudi, un po’ a senso, Così Muore la Carne. È suonata l’ultima ora, quindi è meglio trattenere presso di sé la carne propria e quella altrui (di vita eterna ce ne sarà a sufficienza), così come raccomanda Belli, come spiega Langone (che era stato sfiorato dall’idea di intitolare la raccolta Viaggio in Italia di un erotomane ratzingeriano), com’è ritenuto blasfemo da chi, scrive, “confonde Cristo con Platone”. Anche mio padre si confonde dove non vorrebbe; parla e parla, ma è buono o ingenuo e finisce per finanziare la propaganda bolscevica acquistando tutti i volumi delle Guide Touring in allegato con Repubblica - ne sono quarantuno, i quali, moltiplicati per dodici euro e novanta l’uno, danno cinquecentoventotto euro e novanta, ovvero soldi gettati che ci sarebbero potuti servire a fare un salto nelle Marche, o in Toscana. Io non le apro se non per stupire con effetti speciali e dettagli inauditi sulla Lettonia o su Pisticci le mie amiche lèttoni o pisticcesi (pisticciane?). Mio padre, invecchiando, vorrebbe andare chissà dove; io sono stanziale, e per quest’estate mi basta e mi avanza il libro di Langone, e mi concederò anche una retrospettiva sui ritagli accumulati negli anni, dei quali nel volume vanno ahimè persi i titoli, asetticamente sostituiti dai nomi delle città - vuoi mettere Porno Teramo? vuoi mettere Notte Luciferina a Riccione? vuoi mettere Com’è strano l’amore a Milano, Malinconia Estense, Cercasi bimbo di nome Petronio? vuoi mettere Com’è porca Venezia? Resterò a casa quest’estate, mentre mio padre spulcia le quarantuno Guide Touring; e per sant’Anna non manderò nemmeno un messaggino.

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