(Gurrado per Ore Piccole)
La scrittura è un atto bidimensionale (inchiostro su carta) che si propone di raggiungere un obiettivo tridimensionale (il libro) mediante un procedimento quadri- e addirittura pentadimensionale, nel senso che servono anche tempo e, possibilmente, silenzio. La cosa peggiore è che allo scopo di scrivere è necessaria la lettura (ma viceversa la lettura non è necessariamente finalizzata alla scrittura, e meno male), e che la lettura è un atto pressoché adimensionale. Per leggere non c’è bisogno di spazio: altrimenti non si riuscirebbe a farlo in metrò o su un treno pieno di pendolari sudati. Né c’è bisogno di tempo, almeno in senso stretto: in quanto avere intere e lasche giornate libere può risultare circostanza meno favorevole alla lettura del ritrovarsi con un’oretta soltanto di adamantina e inattaccabile concentrazione. L’unità di misura della lettura è il silenzio, che però è impossibile a misurarsi, non c’è decibel che tenga; il silenzio necessario alla lettura è la creazione di un vuoto spinto nel cervello per far spazio ai contenuti del libro che via via vengono incamerati. Per questo, ad esempio, è più gradevole leggere in un’acciaieria (o in un aereo), dove un costante rumore di fondo copre ogni possibile interferenza invece che nel sospettoso silenzio di una casa familiare, con l’angoscia dello starnuto che esplode, del telefono che interrompe, della televisione che si accende, dei testimoni di Geova al citofono da un momento all’altro. Come atto in sé, leggere è impossibile, tanto più se si ha l’ardire di volerlo fare in santa pace; e l’elenco di libri che quotidianamente aggiorno – allo scopo di rileggerlo e interpretarlo all’ultimo dell’anno – finisce per essere il resoconto di tutto ciò che telefoni invadenti, preoccupazioni transeunti e genitori affettuosi non sono riusciti a non farmi leggere.
Quest’anno ho vergogna di me stesso perché ho letto poco: da Sotto la Pelle di Michael Faber (iniziato a Capodanno) a Écumes (Sphères III) di Peter Sloterdijk (finito a San Silvestro), complessivamente centodue libri. Chi ha seguito questa stessa disamina lo scorso anno ricorderà che nel 2006 di questi tempi ero arrivato a centoquarantaquattro, il che significa un decremento prossimo al cinquanta per cento, e che negli anni immediatamente precedenti mi ero attestato su un’onorevole media di centoventi, il che significa che ormai sono sceso sotto la decina di libri per mese. (Parentesi autobiografica: non leggevo così poco dal 2001, anno in cui per cause tuttora ignote smarrii svariati chilogrammi ed diventai verde in pianta stabile, colorito che ho abbandonato immemorabile tempo fa in favore di uno più roseo). In particolare – e non c’era bisogno dell’elenco dettagliato delle mie letture per ricordarmelo – quest’anno sono aumentati esponenzialmente i giorni trascorsi senza aprire libro, per un motivo o per un altro; ricordo con estremo piacere un’intera settimana a Miramare di Rimini in cui mi sembravano troppo impegnative perfino le parole crociate, più tutta una serie di giorni abilmente sottratti con le scuse più varie al senso del dovere e alla mia stessa rigidissima custodia (a proposito, bisognerà leggere prima o poi Per Invigilare Me Stesso, i taccuini di lavoro di Benedetto Croce curati da Gennaro Sasso).
Io sono un lettore onnivoro ma abitudinario, per cui tendo a conservare orari e luoghi di lettura, salvo cambiamenti di città o nazione, che quest’anno sono stati fin troppi. Ne deriva che scorrendo l’elenco tendo a soffermarmi con maggiore attenzione sui libri letti in circostanze inconsuete, e stavolta soprattutto in treno: La Sindrome di Brontolo di Stefano Bollani, da Milano a Modena; Nice Work di David Lodge, da Londra a Parigi; Il Diavolo Custode di Luigi Balocchi, da Bari a Modena; Lunario dell’Orfano Sannita di Giorgio Manganelli, da Modena a Pavia; Lo Scandalo della Stagione di Sophie Gee, da Pavia a Milano; Le 120 Giornate di Sodoma di Sade, da Milano a Meda; La Vita Agra di Luciano Bianciardi, da Pavia a Brescia; La Lezione di Anatomia di Philip Roth, da Milano a Bari; un giorno dovrò fermarmi oppure impazzirò.
Sarà dunque perché a me i treni fanno schifo quasi quanto i passeggeri che ho sviluppato una reazione pavloviana di repulsione nei confronti della lettura, quest’anno? Probabile. Se non che a mio supporto nonché parziale giustificazione sto elaborando una pensata alternativa, e cioè: purtroppo, man mano che il tempo passa diminuiscono i libri che mi restano da leggere, ciò nondimeno senza raggiungere un numero tale da garantirmi di leggerli tutti prima della mia morte, che tuttavia mi auguro tardiva; poiché però ho la tendenza a leggere subito i libri che mi attraggono maggiormente, ne consegue che avanzano i libri che mi attraggono di meno, e che quindi più roba ho letto (1147 libri dalla media adolescenza a tutt’oggi) meno voglia ho di continuare a leggere. Ciò nondimeno, tiro avanti.
Infatti quest’anno ho avuto a che fare con parecchia roba che avrei preferito non fosse mai stata scritta (non è corretto dirlo; avrei preferito non sapere che era stata scritta), e che ha aggiunto sofferenza a fatica. La palma del libro che mi ha fatto desiderare di essere un’altra persona, possibilmente analfabeta, va alle mille e rotte pagine dei Racconti di Cechov (ce n’è uno carino, ma non vale la pena di leggerli tutti per scoprire qual è); ma anche sarebbe stato meglio lasciar chiusi Santa Barbara dei Fulmini di Jorge Amado, On Beauty di Zadie Smith, addirittura The Innocent di Ian McEwan (capita a tutti di sbagliare), fino allo zero assoluto di Mille Anni Che Sto Qui di Mariolina Venezia; addirittura Le Bostoniane di Henry James si sono rivelate una delusione (James? una delusione? sarò mica depresso?). A fronte di quel che prometteva, poi, si sgonfia troppo presto Special Topics in Calamity Physics di Marsha Pessl (tradotto in Italiano come Teoria e Pratica di Ogni Cosa), mentre è un caso a parte Giancarlo De Cataldo, del quale in estate ho adorato Romanzo Criminale tanto da augurarmi di non aver mai letto, in autunno, Nelle Mani Giuste.
Le sorprese positive, d’altro canto, sono state pochine. Non conoscevo affatto Edoardo Mendoza e ho scoperto che Il Tempio delle Signore è gradevolissimo (consegue ringraziamento ufficiale a chi me l’ha regalato). Inconsolabile di Anne Godard (narrato in seconda persona singolare) ed E Poi Siamo Arrivati alla Fine di Joshua Ferris (in prima persona plurale) uniscono un’acuta capacita introspettiva a un certo coraggio stilistico (entrambi editi da Neri Pozza, guardacaso); con Niente da Ridere di Livio Romano e La Vera Religione Spiegata alle Ragazze di Camillo Langone, l’editore Marsilio ha pubblicato due libri che dovrebbero sopravvivere all’ansia diffusa di continue novità. Leggere L’Avvento dell’Anticristo di Vladimir Solov’ev è decisamente utile a capire e condividere i motivi per cui il cardinale Biffi (a proposito, bisognerà leggere meditare e diffondere la sua autobiografia appena uscita) lo cita tanto spesso. È valsa la pena di aspettare per gustarsi come meritavano The Pickwick Papers di Dickens e The Man Who Was Thursday di Chesterton. Fuori dalla narrativa, che preferiamo, menzione d’onore per i saggi Dio: una biografia di Jack Miles, Shakespeare di Anthony Burgess e il già citato Écumes di Sloterdijk, mentre il Papa (Gesù di Nazaret e Spe Salvi) è ovviamente hors catégorie.
Ragion per cui mi sento molto a disagio nell’intraprendere le eliminatorie per la consueta assegnazione del libro dell’anno - riconoscimento privato senza scopo di lucro che, giova ricordarlo, premia di volta in volta il miglior libro letto nel corso dell’anno, e non quello scritto, ritenendo che non stia bene affibbiare una data di scadenza a dei volumi che hanno pazienza, e tanto meno dover rassegnarsi a scegliere il migliore fra prodotti contemporanei sostanzialmente tutti uguali, salvo alcuni peggiori di altri; riconoscimento che, giova ricapitolarlo, nel 2004 ha arriso a Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo, nel 2005 a La Versione di Barney di Mordecai Richler e l’anno scorso, da queste stesse pagine virtuali, a Espiazione di Ian McEwan. Il procedimento è il solito: si suddivide l’elenco in dodici gironi, uno per mese, e si sceglie da ciascuno di essi uno e un solo libro, sapendo di star facendo in qualche modo torto a tutti gli altri. La scelta è assolutamente arbitraria (non ci si deve sentire in dovere di preferire, poniamo, Heidegger a Pippo Franco al solo scopo di sembrare intelligenti), istintiva (si finisce sempre per scegliere il libro il cui titolo porta con sé piacevoli ricordi di buona compagnia), irrevocabile e soprattutto ingiustificata (gloriosamente antidemocratica, dunque, a ribadire che il lettore è insormontabile monarca di quello che fa accadere fra i propri scaffali e che non deve renderne conto a nessuno).
Mi sento molto a disagio, dovendo scegliere fra pochi libri letti i pochissimi decenti e poi farli combattere l’uno contro l’altro come se non bastasse, ma dalle eliminatorie mensili seleziono la dozzina qui di seguito: La Prima Moglie di Daphne Du Maurier (gennaio), Il Deserto dei Tartari di Dino Buzzati (febbraio), Memorie di una Musa di Lara Vapnyar (marzo), Shalimar the Clown di Salman Rushdie (aprile, mese in cui ho letto quattro libri come un qualsiasi intellettuale italiano medio), Everyman di Philip Roth (maggio), Nice Work di David Lodge (giugno), Romanzo Criminale di Giancarlo De Cataldo (luglio), L’Educazione Sentimentale (1869) di Flaubert (bella forza, agosto), Lunario dell’Orfano Sannita di Giorgio Manganelli (settembre), L’Informazione di Martin Amis (in mancanza di meglio, ottobre), I Sotterranei del Vaticano di André Gide (novembre) e infine La Vita Agra di Luciano Bianciardi (dicembre).
La selezione stagionale è facilitata dal livello mediobasso delle eliminatorie (ci sono stati mesi in cui la cosa più interessante che ho letto è stata la mia tesi, il che è tutto dire). Per il trimestre invernale, Lara Vapnyar brava quantunque deve cedere il passo allo scontro fra titani Du Maurier – Buzzati, fra i quali la mia ben nota cavalleria non può che far prevalere La Prima Moglie. Curiosamente sono tutti in Inglese i libri della primavera (anche perché ero a Oxford, e tendo a leggere nella lingua della nazione che mi circonda); scartato Rushdie che sa fare di meglio, i romanzi di Philip Roth sono tutti talmente perfetti e conchiusi in sé stessi (ed Everyman è più perfetto del solito) da far preferire il più scoppiettante Nice Work di David Lodge. L’estate è stata tempo di bella prosa, poiché si legge con più calma, e per quanto accattivante De Cataldo si squaglia a fronte della sostanziale parità fra Manganelli e Flaubert, che mi fa accordare la preferenza a L’Educazione Sentimentale (1869) solamente per la superiorità del romanzo come genere letterario. L’autunno è stato deprimente, come spesso suole in Lombardia, e solo la lettura de La Vita Agra mi ha trattenuto dal rimpianto di esser nato.
Le semifinali sono squilibrate. Da un lato La Prima Moglie ha un afflato narrativo, un fascino stilistico, una capacità di accaparrarsi l’attenzione del lettore che David Lodge nemmeno si proponeva al momento di scrivere (bene) Nice Work; quindi prevale Daphne Du Maurier. Dall’altro lato Flaubert benedetto lo amo talmente tanto che averlo già letto tutto è un problema, poiché si finisce per essere delusi quando scrive benissimo e non sorprendersi affatto quando mitraglia capolavori; La Vita Agra di Bianciardi, invece, ha superato ogni più rosea aspettativa, e quindi va in finale.
Fra una raffinata signora britannica e un toscano alcolizzato la scelta è meno ardua di quel che sembri. Per quanto da La Prima Moglie sia stato tratto un ottimo film di Alfred Hitchcock, va pure ammesso che la Du Maurier non ha mai scritto sul Guerin Sportivo, e questo è un handicap non da poco nel confronto con Bianciardi; il quale invece con La Vita Agra è riuscito a fare ciò cui ogni scrittore dovrebbe mirare, ossia muovere dalla propria esperienza personale per renderla universale ed eterna. Universale è La Vita Agra in quanto storia di un’anima catalogatrice e affabulatrice, innamorata del preciso significato delle parole, in una Milano industriale e ostile a ogni accuratezza terminologica, se non nemica tout court del linguaggio e della chiacchiera, irrefrenabili perdite di tempo e di danè. Eterna nel suo aver raccontato una storia anni ’60 che, fra i roghi in fabbrica e gli umanisti costretti al precariato intellettuale, cambiando la valuta in euro potrebbe sembrare scritta ieri, se non oggi o domani.
Evviva Luciano Bianciardi ed evviva La Vita Agra, che dal mio minuzioso elenco si staglia libro dell’anno 2007. Basta così? Macchè, una parola ancora. Uno (io) intanto tiene un elenco di tutto ciò che legge non solo per crocianamente invigilarsi ma anche, e soprattutto, per capire cos’è meglio fare l’anno dopo. Ormai è evidente, mi sono ridotto a invidiare chi ha sedici o diciott’anni (oppure chi ne ha cinquanta ma s’è conservato ignorante a sufficienza) perché vive ancora un’apertura di possibilità, ovvero perché s’è conservato il piacere di poter leggere e scoprire in futuro libri che per me sono già irrimediabilmente assodati e digeriti, mannaggia. Avendo fatto indigestione, avendo accumulato nello scorso decennio abbondante una notevole quantità di ottima e decisiva letteratura, ho sortito il principale effetto di trovare per lo più deludente ciò che progressivamente mi è capitato di leggere. Sarà mica il tempo di liberarsi dalla nevrosi che mi costringe a tirare dritto prendendo in mano ogni volta un libro nuovo, come se dovessi affrettarmi a finire tutto ciò che viene stampato da Gutenberg alla fine del mondo, e di dedicarmi da domattina a un cospicuo numero di riletture di autori (Proust, Pirandello, Woolf, Wilde, Nietzsche, etc.) dai nomi più rassicuranti di gran parte degli scrittori vivi e operanti ancora? Risalire ai miti fondativi della mia cultura (necessariamente limitata, relativa) potrebbe essere una suggestiva maniera di celebrare il decennale degli esami di maturità; e di scoprire magari che sono serviti a qualcosa.
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