venerdì 1 febbraio 2008

Parole con la pelle

(Gurrado per Ore Piccole)


Non è un mistero che i libri inizino dalla copertina – lo sa bene l’editore Neri Pozza che notoriamente produce i volumi con le copertine più belle e suggestive d’Italia (non mi stancherò mai di ripeterlo). Chi è convinto che i libri inizino dalla copertina si distingue recisamente da chi è invece convinto che i libri inizino con la prima parola: è più o meno la stessa distinzione fra chi considera il corpo e chi considera (o quanto meno sostiene di voler considerare) esclusivamente l’anima umana. Il Signore guarda il cuore, scrive la Bibbia (1Samuele 16, 7); ma noi non siamo il Signore – e l’altra metà dello stesso versetto dice esplicitamente che l’uomo guarda l’apparenza, e amen. Il sembiante è impossibile a trascendersi. Il manoscritto è un’idea astratta, ma la copertina fa sì che il libro diventi un oggetto, e che come tale esista veramente.

Neri Pozza, editore così attento alle copertine, non poteva non pubblicare La Rilegatrice dei Libri Proibiti, il romanzo d’esordio di Belinda Starling (che in Inghilterra era stato pubblicato da Bloomsbury, la stessa casa editrice di Harry Potter, sotto il titolo di The Journal of Dora Damage e con una copertina che rendeva altrettanto onore al mestiere della protagonista). Ciò che in questo caso accomuna editore e protagonista (per il presumibile tramite dell’autrice) è l’altissima considerazione del libro come oggetto, che si riversa – con sopraffina naturalezza e concettosa maestria – nell’atto stesso di rilegare i volumi: esso non consiste esclusivamente nel tenere insieme fogli volanti, ma nel tentare di conferire al libro un valore aggiunto dovuto alla foggia della pelle in cui è racchiuso e al disegno più o meno fantasioso che lo identifica. Nel suo romanzo Belinda Starling lo passa quasi sotto silenzio, ma la primissima peculiare caratteristica di Dora Damage, rilegatrice per necessità, è che ama leggere i libri prima di rilegarli; a differenza degli altri bookbinders londinesi, intende afferrare l’idea fluida contenuta nel testo per immobilizzarla sulla copertina, e trasformare le parole in cose.

Si tratta, alla fin fine, dell’operazione opposta a quella (che dovrebbe essere) compiuta da ogni autore: ossia trasformare le cose in parole. Non si può sfuggire al sospetto, acutizzato in caso di esordio narrativo, che autrice e protagonista in qualche modo possano coincidere, benché allo specchio, nonostante i centocinquant’anni di differenza. Belinda Starling scrive all’inizio del XXI secolo; Dora Damage rilega a metà del XIX. Entrambe, in qualche modo, cooperano allo stesso libro, quello che abbiamo in mano e leggiamo.

L’identità di fondo potrebbe essere confermata da altri indizi, non tanto contenutistici quanto formali. Di fatto, la protagonista si fa spesso portavoce dell’autrice e accompagna il lettore con le proprie elucubrazioni nella spirale di interconnessioni tematiche sottese allo sviluppo della trama. La pelle è con ogni probabilità la parola chiave del romanzo, nelle sue molteplici accezioni. Su un livello più immediato, indubbiamente, ci si riferisce alla pelle per rilegare i volumi. Non viene trascurata, però, nemmeno la pelle come identità – nello stesso modo in cui una pelle è più adatta di un’altra a conferire a prima vista un senso a ciascun libro (e inversamente ogni libro resta prigioniero dell’identità visiva che gli è data dalla pelle), anche l’uomo vive la pelle al contempo come casa e prigione. Chi considera i libri come oggetti, sarà naturalmente portato a dare maggior peso al corpo; e la pelle è, con ardita metafora, la rilegatura dell’anima.

La Londra vittoriana del 1859 si trova faccia a faccia con la questione dello schiavismo. Inizia a serpeggiare nell’aristocrazia la condannabile moda dell’emancipazione degli afroamericani (condannabile in quanto moda, ideologia indotta e passatempo ipocrita). I negri finiscono per esserne vittime quasi più che dello schiavismo stesso, poiché si tratta di una subordinazione non più del corpo ma dell’intelletto. Ancora una volta, nella dicotomia fra fisicità e psicologismi, Dora Damage sa come collocarsi in base alla stessa morbosa predilezione che prova per la corporeità dei libri; accetta presso di sé un lavorante nero proprio perché segretamente (sempre meno segretamente) attratta dalla coloritura e dalle venature della sua pelle. La negritudine non viene ridotta a vacua suggestione etnologica, ma elevata a tangibilità concreta che le permette di arrivare dritta all’anima del suo aiutante – necessariamente, inevitabilmente mediante il corpo, la sensualità, l’amore carnale.

Una cosa mi permetto di rimproverare alla prosa di Belinda Starling: una certa malaccortezza, un po’ di disagio nell’atto di descrivere le scene d’amore (è in buona compagnia; tanto per mirare in alto, il medesimo difetto caratterizzava Pirandello narratore). Talvolta si lascia andare a sentimentalismi, qualche altra volta a frasi fatte. Al contrario, è percepibile il compiacimento (prosaico, appunto) nella descrizione della perversione tout court; con l’apice del triplice riferimento al vizio di Lord Glidewell, che ama farsi impiccare per provare un orgasmo progressivamente più intenso nel momento in cui la corda viene tagliata salvandogli la vita sempre un po’ più tardi (un accorgimento sul quale molto aveva ricamato Sade ne Le Centoventi Giornate di Sodoma). Se ne può dedurre che l’autrice condivida i disagi della protagonista: la quale traballa un po’ di fronte alla potenza dei sentimenti (è sposata, la passione coniugale è sopita da tempo, si trasforma in materno accudire il marito infermo) ma è gravitazionalmente attratta verso l’inferno letterario dischiuso dai libri erotici dei quali un gruppo di insospettabili nobiluomini londinesi le commissiona la rilegatura. E che Dora Damage, fedele alla propria consegna, legge con gusto e con disgusto inscindibili.

Il cognome stesso di Dora Damage racchiude in sé il peccato, come non manca di notare il nobile deuteragonista, il perverso sir Jocelyn Knightley, intorno al quale ruota tutta la vicenda – e non per niente questi ha un sole tatuato intorno all’ombelico, motore immobile del corpo proprio e altrui. Per non dire che Knightley si pronunzia esattamente come nightly, notturno; e infatti lo pseudonimo latino Nocturnus identifica il ricco collezionista di volumi sconvenienti rovesciandone il ruolo da solare a tenebroso. Knightley è la personificazione della più profonda (e polisemica) valenza della pelle: è un fanatico delle copertine lussuose; propugna un vigoroso razzismo; è un sincero ammiratore della nudità, tanto erotica (da pornomane incallito) quanto anatomica (da medico oltranzista).

La pelle nelle sue diverse accezioni si configura come ciò che rende tangibile l’ossessione estetica etnica ed erotica, nonché il profondo senso di colpa che le si accompagna, e nel quale Dora Damage progressivamente sprofonda, sempre meno padrona della situazione che all’inizio dominava ritagliando le pelli bovine per caste copertine a fiori di volumi sconci. Man mano che la castità della rilegatrice viene minata, quando si vede venir meno ogni possibile distinzione fra copertina e testo, fra simbologia floreale e pornografia esplicita, le tre diverse accezioni della pelle si fondono in un’unica: testimoniata dal colpo di scena (oltremodo intuibile già cinquanta pagine prima che la protagonista possa rendersene conto e stupirsene ingenuamente) di un libro rilegato con la pelle nuda di una bellissima indiana.

Dora Damage è al contempo attratta e schifata dall’evenienza. Ha trasfuso tanta di quella fisicità nella composizione dei suoi volumi da dover sentirsi inesorabilmente spinta verso l’eventualità di divenire libro ella stessa, di fondere la propria pelle (e il proprio eros, e la propria privata battaglia antirazzista) con il lavoro che da necessità è diventato passione e ossessione irredimibile. L’istinto taciuto della rilegatrice è di poter fare di sé stessa un libro, identificandovisi appieno. E a questo punto veramente fa tremare i polsi apprendere dalla terza di copertina che Belinda Starling sia morta la scorsa estate, giovane ancora, subito dopo aver finito di scrivere il suo primo e unico romanzo.

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