Video killed the radio star.
(The Buggles, 1979)
Mi preme innanzitutto informarvi che questo pomeriggio andrò dall’oculista. “Ce ne stavamo fottendo”, direte voi. Io invece no, e non soltanto per preoccupazione ed egocentrismo: se mi permettete cinque minuti di autobiografismo spinto (che prometto di non prolungare oltre l’ora e mezza), ve ne spiegherò immediatamente il motivo.
Ricordo con orrore le ultime volte che sono andato dall’oculista, decisamente rare rispetto all’effettivo bisogno che ne avrei. In primo luogo perché mi viene infilata negli occhi una sostanza necessaria a dilatare le pupille e che, per il resto della giornata, non solo rende particolarmente invasiva la luce del sole (provate voi ad attraversare la strada al centro di Bari mentre i marciapiedi mandano bagliori aurei che farebbero impallidire la scala aurea di Giacobbe, con tutti gli angeli che vanno su e giù) ma soprattutto rende impossibile la lettura nel resto della giornata: finché infatti non sopraggiunge liberatorio il sonno, ecco che se si posano gli occhi su un libro le parole si sciolgono, si squacquerano anzi, fino a diventare impossibili a leggersi ma soltanto una macchia d’inchiostro da guardare, scrutare e indagare in un ambizioso test di Rorschach letterario.
Questo è niente tuttavia in confronto a quando, per un motivo o per l’altro, di fronte al mio progressivo accecamento e profondamente offeso dall’evenienza che io insista a chiamarlo “signorina infermiera”, l’anziano oculista decide di farmi passare a lenti più possenti per garantirmi immagini meno equivoche: il che comporta come minimo tre giorni di forzata pausa nel mentre che l’ottico provvede alla sostituzione.
Porto gli occhiali dal 2001, avrei dovuto portarli dal 1997 e ricordo i tre giorni del2004 in cui ho cambiato gradazione come i più spiacevoli della mia vita, o se non altro i più noiosi, visto che ho l’abitudine di leggere tutto quel che mi capita sott’occhio e che sfugge all’umano genere: l’altra sera, tanto per dire, ho accompagnato un’amica al Naviglio Pavese e sono stato l’unico del circondario ad accorgermi che sulla visiera il distributore di kebab bisunti recava orgoglioso la spiazzante dicitura Il Vero Ok, che mi ha fatto desistere sull’istante dall’idea di assaggiare un qualsiasi suo prodotto poiché, alla Feuerbach, in fin dei conti siamo ciò che ci scriviamo addosso. Poiché leggo tutto, tre giorni senza occhiali sono un abisso che mi si para davanti, impedendomi di recitare il salterio e di guardare il televideo e di sapere se i medicinali che assumo mi uccideranno entro la fine settimana e di controllare l’email e di scorrere il listino prezzi della pizzeria e di mandare messaggi compromettenti a cellulari ignoti e di fare insomma buona parte delle faccende per cui vale la pena di sopravvivere in questa valle di lacrime. Sono tre giorni di silenzio visivo e di solitudine interiore che si ripercuote anche nelle notti, quando anche i sogni svuotati di senso si palesano come le vignette della Settimana Enigmistica: senza parole.
Ovviamente, nella mia mezza settimana enigmatica, i libri sono del tutto inservibili. Se non che, dopo i primi giorni trascorsi a occhi aperti senza di loro, guardando due film al giorno e riempiendo di videogiochi il tempo libero e facilmente combustibile che progressivamente mi avvicina alla morte (quando non leggo, i pensieri tristi si affollano), inevitabilmente finisco per rassegnarmi a una vita senza letture e a pascermi segretamente dell’immaginario prolungamento eterno dell’impossibilità di leggere, meravigliosa scusa che mi permette di guardare un qualsiasi libro senza più il senso di colpa derivante dal non averlo ancora letto o dal non averlo già riletto, che è in fin dei conti quasi lo stesso. Poi, purtroppo, un bel dì gli occhiali ritornano riparati, la facoltà di lettura pure e le pagine che mi attendono sono tante, troppe, potenzialmente infinite: allora i tre giorni perduti mi pesano come macigni, e calcolo quanta roba avrei potuto leggere se l’intervento dell’ottico fosse stato tempestivo.
Omero, se mai è veramente esistito, era cieco (per definizione: “ho mè oròn”, “il tizio che non ci vede”). John Milton, che è nato il 9 dicembre come me, era cieco (va notato incidentalmente che fra noi due, nonostante le apparenze, quello nato nel 1608 è lui; mentre io risalgo al 1980). James Joyce, a furia di scrivere roba illeggibile, era diventato cieco e dovette vergare le prime due paginette dell’ultimo definitivo romanzo oltranzista, che via via si andava componendo nella sua mente rabbuiata, a caratteri cubitali su dei fogli sparsi pur di poter rileggere ciò che lui stesso aveva appena scritto. Giambattista Vico, invece, ci vedeva benone ma deliberatamente evitava di leggere i libri di qualsiasi autore ancora vivo, ignorandone l’uscita e rifugiandosi in un passato di classici che traeva maggior gloria dall’essere frutto di una scelta consapevole, densa di rinunzie.
Chiudete gli occhi, o almeno provate a non vederci bene per un paio di giorni e a dover riconsiderare i libri sotto tutt’altro aspetto: non già come testi bensì come oggetti. Smettete per un po’ di leggere e sistematevi davanti a un battaglione di libri chiusi: prendeteli in mano, sfiorateli, lasciate scorrere la dita lungo il dorso, soffermatevi sulla macchia descritta dall’immagine di copertina e dai caratteri colorati del titolo. Provate ad aprirli e, non potendo leggerli, guardateli scoprendo la disposizione dei capoversi, la sinuosità dei caratteri, l’ammontare di pagine bianche e il ritmico avvicendarsi di corsivi e maiuscole. Proverete un aguzzo sollievo nei vostri cuori, quando sarete arrivati all’ultima pagina senza averlo letto ma sbirciando qua e là qualche paroletta fuor di contesto; sentirete un rimorso dettato dal senso del dovere che, tuttavia, andrà spegnendosi man mano che il libro vi avrà lasciato una sensazione più tattile che visiva, rivelandosi fatto di carta e inchiostro che ne racchiudono il contenuto così come si può afferrare l’anima dell’uomo soltanto accettandone carne e ossa.
Allora vi renderete conto che quello che non si legge è tanto importante quanto quello che si legge, se non ancora di più; vi ricorderete che, quando guardate un qualsiasi oggetto, il colore che ne risulta è deciso dal riflesso residuo di tutti i colori che l’oggetto stesso è incapace di assorbire, e che in un modo o nell’altro siamo tutti ciechi.
Ricordo con orrore le ultime volte che sono andato dall’oculista, decisamente rare rispetto all’effettivo bisogno che ne avrei. In primo luogo perché mi viene infilata negli occhi una sostanza necessaria a dilatare le pupille e che, per il resto della giornata, non solo rende particolarmente invasiva la luce del sole (provate voi ad attraversare la strada al centro di Bari mentre i marciapiedi mandano bagliori aurei che farebbero impallidire la scala aurea di Giacobbe, con tutti gli angeli che vanno su e giù) ma soprattutto rende impossibile la lettura nel resto della giornata: finché infatti non sopraggiunge liberatorio il sonno, ecco che se si posano gli occhi su un libro le parole si sciolgono, si squacquerano anzi, fino a diventare impossibili a leggersi ma soltanto una macchia d’inchiostro da guardare, scrutare e indagare in un ambizioso test di Rorschach letterario.
Questo è niente tuttavia in confronto a quando, per un motivo o per l’altro, di fronte al mio progressivo accecamento e profondamente offeso dall’evenienza che io insista a chiamarlo “signorina infermiera”, l’anziano oculista decide di farmi passare a lenti più possenti per garantirmi immagini meno equivoche: il che comporta come minimo tre giorni di forzata pausa nel mentre che l’ottico provvede alla sostituzione.
Porto gli occhiali dal 2001, avrei dovuto portarli dal 1997 e ricordo i tre giorni del
Ovviamente, nella mia mezza settimana enigmatica, i libri sono del tutto inservibili. Se non che, dopo i primi giorni trascorsi a occhi aperti senza di loro, guardando due film al giorno e riempiendo di videogiochi il tempo libero e facilmente combustibile che progressivamente mi avvicina alla morte (quando non leggo, i pensieri tristi si affollano), inevitabilmente finisco per rassegnarmi a una vita senza letture e a pascermi segretamente dell’immaginario prolungamento eterno dell’impossibilità di leggere, meravigliosa scusa che mi permette di guardare un qualsiasi libro senza più il senso di colpa derivante dal non averlo ancora letto o dal non averlo già riletto, che è in fin dei conti quasi lo stesso. Poi, purtroppo, un bel dì gli occhiali ritornano riparati, la facoltà di lettura pure e le pagine che mi attendono sono tante, troppe, potenzialmente infinite: allora i tre giorni perduti mi pesano come macigni, e calcolo quanta roba avrei potuto leggere se l’intervento dell’ottico fosse stato tempestivo.
Omero, se mai è veramente esistito, era cieco (per definizione: “ho mè oròn”, “il tizio che non ci vede”). John Milton, che è nato il 9 dicembre come me, era cieco (va notato incidentalmente che fra noi due, nonostante le apparenze, quello nato nel 1608 è lui; mentre io risalgo al 1980). James Joyce, a furia di scrivere roba illeggibile, era diventato cieco e dovette vergare le prime due paginette dell’ultimo definitivo romanzo oltranzista, che via via si andava componendo nella sua mente rabbuiata, a caratteri cubitali su dei fogli sparsi pur di poter rileggere ciò che lui stesso aveva appena scritto. Giambattista Vico, invece, ci vedeva benone ma deliberatamente evitava di leggere i libri di qualsiasi autore ancora vivo, ignorandone l’uscita e rifugiandosi in un passato di classici che traeva maggior gloria dall’essere frutto di una scelta consapevole, densa di rinunzie.
Chiudete gli occhi, o almeno provate a non vederci bene per un paio di giorni e a dover riconsiderare i libri sotto tutt’altro aspetto: non già come testi bensì come oggetti. Smettete per un po’ di leggere e sistematevi davanti a un battaglione di libri chiusi: prendeteli in mano, sfiorateli, lasciate scorrere la dita lungo il dorso, soffermatevi sulla macchia descritta dall’immagine di copertina e dai caratteri colorati del titolo. Provate ad aprirli e, non potendo leggerli, guardateli scoprendo la disposizione dei capoversi, la sinuosità dei caratteri, l’ammontare di pagine bianche e il ritmico avvicendarsi di corsivi e maiuscole. Proverete un aguzzo sollievo nei vostri cuori, quando sarete arrivati all’ultima pagina senza averlo letto ma sbirciando qua e là qualche paroletta fuor di contesto; sentirete un rimorso dettato dal senso del dovere che, tuttavia, andrà spegnendosi man mano che il libro vi avrà lasciato una sensazione più tattile che visiva, rivelandosi fatto di carta e inchiostro che ne racchiudono il contenuto così come si può afferrare l’anima dell’uomo soltanto accettandone carne e ossa.
Allora vi renderete conto che quello che non si legge è tanto importante quanto quello che si legge, se non ancora di più; vi ricorderete che, quando guardate un qualsiasi oggetto, il colore che ne risulta è deciso dal riflesso residuo di tutti i colori che l’oggetto stesso è incapace di assorbire, e che in un modo o nell’altro siamo tutti ciechi.
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