Sin dal titolo, il Metodo della sopravvivenza di Dante Virgili ricalca un libro pubblicato circa venticinque anni fa e destinato a far discutere (anzi, concepito nell’esplicito intento): Suicide, mode d’emploi di Claude Guillon, testo che Virgili stesso cita traducendolo in Tecnica del suicidio. Nel titolo di Guillon risuona forte e chiara l’eco parodistica de
Questo rapido esempio è tipico dell’atteggiamento del narratore autodiegetico del Metodo, nel quale si ha gioco facile a ravvisare ampi tratti di Virgili stesso. Questo spiega inoltre anche la scelta del peculiare titolo, in riferimento a quello di Guillon. Se Guillon intendeva fornire un prontuario di ogni possibile annullamento di qualsiasi vita, Virgili al contrario si auto-fornisce il faticoso resoconto dell’unica possibile maniera di sopravvivere a sé stesso. L’anonimo protagonista e narratore del Metodo, infatti, è un triste professore di tedesco di non velate simpatie naziste; la sua tragedia è di essere nato fuori tempo massimo, e di star vivendo un anno – il 1990 – in cui la principale gloria riconosciuta alla Germania è quella calcistica, in concomitanza coi mondiali d’Italia.
Le notti magiche, per il protagonista, sono tutt’altro. La sua estraneità alla cultura popolare è tale da fargli ammettere candidamente (p.35): “qui si parla di Schillaci, e non so chi sia”. Due pagine dopo la tragedia nazionale dell’eliminazione ai rigori in semifinale, per la mano diabolica dell’Argentina di Maradona, è ridotta a tre righe di notazione impassibile. La distanza fra il professore di tedesco e un’intera nazione pedatoria non poteva venire espressa più recisamente.
Nell’assolata cornice del luglio milanese, Virgili dà il meglio nell’ironia nera riguardo allo squilibrio fra le proiezioni del professore e la triste realtà. Un uomo che cura nel minimo dettaglio la pronunzia e l’inflessione tedesche, allo scopo di garantire alla Germania una gloria se non altro culturale benché per certi versi postuma, si ritrova a dover leggere sui giornali il grottesco titolo del Corriere della Sera, posto in esergo alla prima parte del romanzo: “Sotto il Duomo sventola la bandiera tedesca”. Il professore, che avrebbe preferito vederla sventolare in ben diversi anni e circostanze, non ha altra scelta che tracciare un recinto impenetrabile intorno alla propria vita e – fatti salvi i rapporti di cordialità minima con barbiere e giornalaio – convertirla a una sorta di nazismo privato.
Il suo nazismo su piccola scala si esercita pressoché esclusivamente nel sesso. È forse inevitabile, stante che il corpo è l’unico comun denominatore che lega l’avulso professore alle persone che lo circonda; e, al contempo, l’unica possibile comunicazione fra sé e l’altro da sé viene lasciata agli umori corporali.
Sarebbe stucchevole, tuttavia, che il professore si limitasse a una serie di bestiali accoppiamenti di varia soddisfazione. Il suo metodo, più sottile, consiste nell’imporsi innanzitutto un’altissima soglia del piacere, così da poter tenere saldo il controllo sminuendo l’atto del sesso in sé (è superfluo dire che non una sola briciola di amore appare lungo le duecento e più pagine del romanzo; e che, se fosse apparsa, avrebbe portato all’immediata e definitiva chiusura del libro per manifesta inverosimiglianza). La sua impassibilità gli consente di esercitare il dominio sulle donne e sugli uomini che si avvicendano nella sua casa-museo torturandoli con gli strumenti più variegati ma soprattutto ottenendo che costoro lo implorino per riceverne torture. Il dato di fatto, ciò che emerge incontestabile dalle pagine di Virgili, è la sfolgorante possibilità di assoggettare a sé le altre persone. Le donne sono corruttibili con la promessa di cospicue somme di denaro, che poi finiscono quasi sempre per non accettare. Quanto agli uomini, basta qualche giornaletto sconcio e la promessa di un piacere più intenso del solito. Nulla li differenza dalle bestie, se non un po’ d’ipocrisia.
In ciò si realizza l’ideale del professore; ma, lungi dal soddisfarlo, è foriero di nuovi interrogativi. La domanda chiave del romanzo è lasciata al tedesco (non tradotto) di Hitler, dove si ricorda che questi soleva chiedersi (p.178): “Wozu veiterleben?”, “perché sopravvivere?”. La risposta è chiara dal principio. Perfino l’ultimo sussulto d’interesse del professore, la vitalità della guerra rinfocolata nell’agosto 1990 dall’invasione irachena del Kwait, si spegne nella consapevolezza di star vivendo in un mondo ridotto a parodia, in cui l’energia vitale e bellica si accartoccia sulla “battaglia al Senato” per l’approvazione della legge Mammì.
Il professore, distante da tutto ciò, sopravvive per inerzia, per consapevole fedeltà alla stessa impossibilità di realizzare l’ideale che ne segna l’animo in profondo.
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