Gli Imitatori di Marco Bellotto contiene, neanche tanto nascosta fra le righe, una verità insindacabile: i conservatori scrivono meglio dei rivoluzionari. Forse però le 215 pagine del romanzo non sono sufficienti a sviluppare appieno tutti i complessi temi che l’autore ha in mente e che si dipartono da questa apparentemente semplice e solare verità.
Bellotto ha scelto di raccontare la storia (immaginaria) di Livio Mantarro, uno dei più grandi autori (immaginari) del Novecento (reale) nonché lo scrittore preferito (immaginario) dello stesso Bellotto. Quest’ultimo figura nel proprio romanzo quale avvocato (reale: nella vita è penalista) della difesa di Mantarro nel corso di un processo (immaginario) per terrorismo rosso (reale), a seguito dell’accusa (plausibile) mossa a Mantarro riguardo al sequestro e all’uccisione (immaginari) di un industriale milanese nel 1979.
Mantarro è rinchiuso in una casa di cura dopo che, nello stesso anno, durante una conferenza s’è accasciato al suolo biascicando frasi poco lusinghiere riguardo all’opera propria e, più in generale, alla produzione letteraria militante e impegnata del periodo. L’inaudito coraggio nel denunziare ciò che molti pensano e nessuno dice è il sintomo irreversibile di una malattia mentale che lo costringe in un isolamento sempre più profondo, tanto da fargli seguire con indifferenza assoluta il processo che gli viene intentato. Più che combattere contro l’accusa, quindi, l’avvocato Bellotto (reale e immaginario) deve scardinare il silenzio e le divagazioni di Mantarro, più che mai restio a fornire indicazioni utili alla difesa.
Si è detto che la biografia è l’atto di riconoscenza e invidia che un autore minore rende a chi è più grande di lui. Per Bellotto scavare nella vita di Mantarro, dapprima loquacissima poi silenziosa, e progettare di scriverne la biografia non è soltanto un dovuto omaggio ma soprattutto un tentativo estremo di salvare un idolo, di fatto identificandosi con lui. Come spesso accade, gli ammiratori si appassionano all’opera di un autore più dell’autore stesso; Mantarro poi, a seguito dello strappo del 1979, insieme alla letteratura impegnata ha mollato del tutto anche l’attività che l’aveva reso celebre, discusso e amato nel secondo dopoguerra: ha deciso di non scrivere più, di lasciar perdere la politica e di parlare d’altro.
Mantarro è, per certi versi, il distillato dell’intellettuale di sinistra degli anni ’60 e ’70. Bellotto (reale) intercala nel proprio romanzo vari estratti (immaginari) dei romanzi più celebri di Mantarro, con tanto di luogo e data di pubblicazione: Sia fatta
Se il ritratto di Feltrinelli è troppo agiografico e quello di Arbasino un po’ stucchevole, Bianciardi (immaginario) è il personaggio più riuscito di tutto il romanzo. Ho il sospetto però che la riuscita derivi dall’essere Bianciardi (reale) un personaggio riuscito dalla nascita, uno che avrebbe meritato di essere stato scritto da sé stesso. Bellotto ha il merito di averlo descritto alla perfezione in poche pagine, da un’irruzione disinvolta (p.102: “Luciano Bianciardi aveva detto che quella scena non c’entrava un beato cazzo con il resto del romanzo”) a un distacco secco e risolutivo (p.168: “Per Mantarro il decennio terminò il 14 novembre 1971, il giorno della morte di Bianciardi”). Purtroppo la riuscita del personaggio Bianciardi, superiore a quella del personaggio Mantarro, introduce forse uno iato eccessivo fra la metà reale e quella immaginaria del romanzo, che Bellotto si propone invece di far combaciare perfettamente.
Una controprova è offerta proprio dagli otto inserti metanarrativi che riproducono le pagine (reali) dei romanzi (immaginari) di Mantarro. L’intento di Bellotto è indubbiamente pregevole ma non si avverte alcuno scarto stilistico fra la prosa (immaginaria) di Mantarro e quella (reale) di Bellotto; è come se una medesima penna, quella del Bellotto autore, stesse prestando la propria voce tanto al Bellotto narratore quanto al Mantarro apocrifo. Senza voler per questo rifugiarsi negli esercizi di stile, l’inserzione in un romanzo esistente di un brano inesistente dovrebbe lasciare il lettore con una sana insoddisfazione, col desiderio di continuare a leggere il romanzo di cui ha avuto un assaggio e con l’irragionevole frustrazione derivante dalla consapevolezza che il resto del romanzo non si trova da nessuna parte. Così ha fatto, tanto per dire, Calvino; mentre gli estratti dello pseudo-Mantarro fanno piuttosto venir voglia di andare avanti col romanzo vero e lasciano con l’atroce dubbio che, in fin dei conti, scriva meglio Bellotto (autore e narratore, reale e immaginario).
Gli Imitatori è un libro gradevole, di scorrevole lettura ma mai banale nelle soluzioni narrative. Quanto allo stile, avrebbe davvero avuto bisogno del doppio delle pagine (facciamo quattrocentocinquanta) per distendersi comodamente a discettare dei numerosi argomenti che Bellotto affastella con un po’ di fretta: il tema del doppio, la critica al Novecento, il tramonto della letteratura impegnata, la parodia espressiva, il ritratto memorialistico, il giallo politico, lo scandaglio umano degli attori del processo, la riflessione sul terrorismo e quant’altro. È un romanzo che si legge velocemente, e quando finisce lascia col rimpianto della lentezza.
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