lunedì 11 agosto 2008

SuperBianciardi

(Gurrado per Books Brothers)

L’irrefrenabile mito di Luciano Bianciardi sorge il 3 giugno 1956, in una pagina interna de L’Unità. Beninteso, a quel punto Bianciardi ha già trentatre anni e due figli, ha già collaborato più o meno stabilmente con una decina d’altri giornali, ha già inventato il Bibliobus che porta i libri della biblioteca Chielliana in giro per le irraggiungibili campagne grossetane, ha già composto con Carlo Cassola una vibrante inchiesta sulle condizioni disumane dei minatori di Ribolla, ha già iniziato a lavorare nella neonata Feltrinelli, ha già preso armi e bagagli per trasferirsi a Milano, ha già pubblicato I minatori della Maremma e ha già tradotto il primo romanzo, Il flagello della svastica di Edward Russell, secondo titolo assoluto nel catalogo Feltrinelli. Il 3 giugno 1956 Bianciardi è già il Bianciardi che resterà fino al 1971 e perfino oltre la morte, ma il pubblico non lo sa ancora; può intuirlo, alcuni lo fanno, solo quando legge il titolo Rivoluzione a Milano e il conseguente incipit: “Di una città come Milano uno può dire tutto il male che vuole…”.

Rivoluzione a Milano occupa tre pagine scarse sulle milleottocentottatntuna, introduzione e indici esclusi, del secondo volume dell’Antimeridiano, il librone (anzi, il Bianciardone) edito per i candidi tipi della ISBN (in collaborazione con la piccola ma virtuosa ExCogita editrice di Luciana Bianciardi figlia ed erede omonima) che raccoglie tutta ma proprio tutta la produzione giornalistica di Bianciardi curata e riorganizzata da Massimo Coppola, Alberto Piccinini e dalla figlia Luciana medesima. Per leggerlo tutto ammetto che c’è voluto del tempo – un mese esatto, e io vado veloce – ma va sottolineato che è stato un piacere pressoché ineguagliabile, stante che ogni articolo, della lunghezza variabile fra l’una e le trenta pagine, immediatamente ne richiamava un altro come ciliegie metafisiche; per comprarlo ammetto che ci vogliono sessantanove euri, ma va sottolineato che un quotidiano in fin dei conti costa un euro e che se comprate, che so io, la Repubblica per sessantanove giorni filati non trovate mica trecentottanta articoli così belli, scritti così bene, destinati a perdurare nei decenni scavalcando la necessaria estemporaneità della cronaca applicata.

Dunque, Rivoluzione a Milano, tre pagine su milleottocentottantuna, 3 giugno 1956. Bianciardi prende il luogo comune della rivoluzione, allora ancora in auge, e lo traspone dal settore lavorativo e proletario a quello più generale, umano tout court, che si riverbera negli atti minimi e preconsci del singolo e della collettività asserviti a un’autorità invisibile e interiorizzata: “La gente di Milano rispetta le leggi, le autorità, le ordinanze, le disposizioni e i regolamenti”, e ancora “il milanese rispetta l’orario e, quando non vi sia, invoca l’orologio a timbro, che segna e marca l’ora di ingresso in ditta”. Su questa struttura ideologica Bianciardi innesta la parodia sistematica di ritmi e tempi di Milano, che sei anni dopo avrebbe costituito il nucleo dolce de La Vita Agra, uno dei tre grandi romanzi italiani del secondo Novecento (gli altri essendo, per la cronaca, Il Male Oscuro di Berto e Horcynus Orca di D’Arrigo; tutto il resto è letteratura): “In tram il milanese non sputa, non fuma, non schiamazza, non canta, non parla, non disturba il personale. Cede il posto agli invalidi e alle persone anziane, conserva il biglietto per tutta la durata della corsa, viaggia aggrappato agli appositi sostegni, non scende né sale quando il veicolo è in moto, va vestito in maniera corretta”. Il terzo movimento dell’articolo sintetico e perfetto consiste nel delineare appunto la rivoluzione, che si distanzia dal luogocomunismo imperante e proprio allora degenerante (il ’56, tanto per dire, è l’anno dei carri armati in Ungheria) in quanto ripesca un mito in fin dei conti avverso alla cultura di sinistra, il Risorgimento al quale Bianciardi dedicherà anni e fatica e libri in abbondanza: “Mi occorrono mille uomini spregiudicati, decisi, ben addestrati. Mille uomini disposti a scendere dal tram in corsa, a passare col rosso, a cantare nei giorni feriali, a far capannello nelle vie del centro”. Uno legge Rivoluzione a Milano e, se intende fra le righe queste sorrise paginette brevi, non si sorprende che la pluriennale collaborazione con L’Unità cessi di lì a poco.

Era infatti Bianciardi un umanista assoluto, che vedeva le lettere al servizio della società e mirava a sottrarre l’uomo dal dominio dell’alienazione alla quale, progressivamente, anche lo stesso marxismo voleva spingerlo, risolvendo il tutto in una dinamica interna a forza lavoro, plusvalore e caduta tendenziale del saggio di profitto. Bianciardi era un anarchico esteta, riguardo al quale curiosamente nessuno ha scritto uno straccio di articolo per ricavarne il succo del pensiero teorico, la filosofia spiccia e ben salda. L’Antimeridiano 2 aiuta invece, forse più della raccolta completa di romanzi nel volume precedente, a rintracciare qualche filo rosso e qualche leitmotiv filosofico che Bianciardi disseminava nella sua letteratura più o meno d’occasione, esattamente come faceva l’uomo che in punto di morte dichiarava di ammirare più d’ogni altro: “Sono un discepolo di Voltaire, non di Diogene”, scriveva il 13 settembre 1971, a due mesi dalla fine.

A leggerla tutta insieme, la raccolta di articoli dell’Antimeridiano 2 è un flusso continuo di coscienza civile che, assecondando i moti più o meno tumultuosi della cronaca immanente, fornisce un quadro piuttosto chiaro delle convinzioni che Bianciardi aveva mantenuto stabili e aveva visto crescere nei vent’anni circa che seguirono i suoi esordi sulla locale stampa maremmana. Questo spiega le soventi ripetizioni, che magari lì per lì avranno preoccupato i curatori ma che anzi, a prodotto finito, forniscono il gradevole effetto di leitmotiv wagneriani che riemergono qua e là dall’infinita quantità di parole che Bianciardi riversa sul suo pubblico mutevole e fedele: il senso di impotenza di fronte alle morti sul lavoro, il favore non tanto verso l’istituzione del divorzio quanto verso l’abolizione del matrimonio, la perplessità (tutta maschile e paterna) di fronte all’aborto, l’avversione per le trasmissioni registrate e la conseguente censura televisiva, la sottile distinzione fra rivoluzione e rivolta, l’ideale risorgimentale tradito che si rispecchia negli ultimi eroi seri del Novecento ovvero i campioni sportivi, l’irritazione dinanzi a Mike Bongiorno, l’inutilità anzi dannosità dello sbarco sulla luna (che allontana, sterilizzandola, la vicinissima luna irraggiungibile dei poeti), l’ammirazione per Giacomo Leopardi giornalista sportivo e per Gianni Brera filologo ugrofinnico, la superiorità e la modernità di Verga su Faulkner, l’insofferenza per l’invenzione di un’apposita grammatica televisiva – nell’Antimeridiano 2 c’è tutto. Né potrebbe essere altrimenti, visto che dal 1952 al 1971 Bianciardi ha scritto su trentacinque testate le più disparate (La Gazzetta, Il Nuovo Corriere, Belfagor, Avanti!, L’Automobile, Il Mondo, Comunità, Il Contemporaneo, La Voce degli Assegnatari, Cinema Nuovo, L’Unità, Cultura Moderna, L’Indicatore EDA, Vie Nuove, Critica Sociale, Le Vie d’Italia, Notizie, Le Ore, Il Giorno, Notizie Letterarie, Domus, La Donna, Il Delatore, ABC, L’Europeo, Annabella, Kent, Executive, Playmen, il Guerin Sportivo, L’Ombrone, Epoca, AZ, Tempo e il Secolo XIX), ovviamente ripetendosi di quando in quando ma senza mai scadere nella banalità ritrita che è, per certi versi, la cifra del giornalismo italiano talvolta colpevolmente considerato “alto”.

Chi gradisce una controprova è invitato a leggere le ampie sezioni (centinaia e centinaia di pagine, a conti fatti) che il volume dedica alla televisione. Bianciardi è stato uno dei primi critici televisivi, forse il primo modernamente inteso, grazie soprattutto alle rubriche Rai Tv su Notizie Letterarie, TeleBianciardi su ABC e Televisione su Playmen, che offrono una radiografia della tv italiana dal 1963 al 1971. Essendo nata la Rai nel 1954, si può dire che Bianciardi l’ha vista crescere e diventare da bambina di anni nove a più o meno provocante ragazzetta diciassettenne, ancora minore ma ben consapevole dei propri ruspanti mezzi di seduzione.

Da critico televisivo Bianciardi non perde mai il proprio carattere di esploratore. Scrive il 25 ottobre 1971, a tre settimane dalla fine, che come il calciatore lo scrittore deve “camminare, correre, guardare e concludere. Uno scrittore che non cammina non conta nulla”. Camminar guardando è la peculiarità del Bianciardi narratore, felicissimo nelle descrizioni di ambienti e nella fedele caricatura delle persone varie. Altrettanto insight Bianciardi conserva nel giornalismo, che in fin dei conti è una narrazione stampata in fretta, e ancor più quando si tratta dell’elettrodomestico progettato apposta per la visione: quando parla della tv, Bianciardi è geniale nello spiegare agli altri cos’hanno appena visto. Come un esploratore, prima di giudicare descrive: questo rende possibile a me, che son sbucato parecchi anni dopo Carosello, di poter visualizzare per concetti la trasmissione sulla quale Bianciardi sta per esprimersi. È intuibile che lo stesso sentimento di visione ex novo pigliasse i lettori di TeleBianciardi e derivati, i quali dalle parole di Bianciardi potevano accorgersi di aver visto qualcosa di diverso da quel che credevano. Filosofia e politica, in Bianciardi, arrivano dappertutto e così l’invito settimanale al revisionismo televisivo si fa propaganda per una rivoluzione permanente nel tinello.

Bianciardi è abile nel prevedere il futuro: pronostica che un dì Celentano sarà famoso non tanto per quello che canta, ma soprattutto per quello che dice e per come sta zitto; che la Roma vincerà lo scudetto intorno al duemila; che alla domenica pomeriggio la tv trasmetterà tutte le partite in simultanea; che i canali si moltiplicheranno all’infinito specializzandosi per ambiti sempre più limitati; che si verificherà una progressiva inarrestabile commistione fra Tribuna Politica e Carosello (“Movimento Sociale etichetta nera, la fiamma tricolore che ricrea l’atmosfera” ). Ha in uggia l’ampex, ossia il marchingegno che serviva a tagliare i nastri registrati per rimontarli secondo un ideale galateo televisivo che non di rado sconfinava nella censura di tutto ciò che non era prevedibile e controllabile, foss’anche solo la parola “membro”; perfino il playback gli sembra un tradimento della buona fede dello spettatore, una mistificazione della verità che la tv ha il dovere di offrirgli. Bianciardi carica la televisione di un compito documentaristico prima ancora che educativo: il suo scopo, spiega, non è quello di venire montata come un collage di buone maniere ma di presentare ogni evento all’assente, in diretta, consentendogli di vedere ciò che è lontano: su un canale San Siro, sull’altro il Parlamento, sull’altro ancora il funerale del Papa, il festival di Sanremo, lo sbarco sulla Luna, l’invasione dell’Ungheria, l’appartamento della signora di fronte, etc. Vuole che la tv sia pensata per tutti e ciascuno dei milioni di spettatori sparsi in Italia, non per le singole famigliole di quattro-cinque persone che vi si piazzano seralmente davanti a essere intrattenuti con canzoni che parlano d’amor e giochini per ritardati. Per questo detesta Mike Buongiorno e sovente condanna Corrado.

Anche quando affronta lo sport Bianciardi ha quale estremo ideale irrinunciabile la verità; lo rattrista la consapevolezza che una partita di calcio sia due cose ben diverse se vista dalla tribuna centrale o da dietro la linea di fondo, a cercare di scansare (ovvero parare con lo stomaco) le bordate di Gigi Riva. Il lungo reportage de Il Giorno su Urss-Italia 2-0, valevole per le qualificazioni agli Europei del 1964, consiste in tre paginette sulla partita e ventinove sul viaggio da Milano a Mosca, documentario che sfocia da un lato nella narrativa pittoresca e dall’altro nel racconto filosofico, volto a cercare un significato nelle diverse attese, speranze e disillusioni degli Italiani che vedono per la prima volta la patria dell’ideale allora più diffuso al mondo, e per i quali vedere la partita, tifare e perderla è l’ultimo pensiero.

Questa ricerca della verità, nel tentativo di offrirla vergine a un pubblico più che assuefatto alle mistificazioni a destra e a manca, emerge prepotente in Così è se vi pare, la rubrica epistolare che Bianciardi ha tenuto sul Guerin Sportivo di Gianni Brera nell’ultimo suo anno di vita (fate conto che oggi sul Guerino ogni tanto scrive Gianluca Morozzi, e poi uno non deve lamentarsi che la storia è una corsa scapicollata verso l’orrendo peggio). La leggenda vuole che Bianciardi si scrivesse da solo le lettere firmate da celebrità diverse, alcune delle quali (Milva, ad esempio, o Lauretta Masiero) è altamente improbabile che leggessero il Guerino, ma non si può mai dire. Così è se vi pare occupa più di cento pagine sull’Antimeridiano 2 e consta di una quarantina di corpose lettere con più corposa risposta in cui Bianciardi non solo si pone, rispondendosi, domande che accostino originalmente gli argomenti più diversi (le bottiglie di Coca Cola, i capelli lunghi, Oliver Cromwell e Helenio Herrera) e le grandi passioni della sua vita (letteratura, calcio, rivoluzione, televisione, Risorgimento, donne e alcol), ma sottoponendosi a una continua requisitoria in prima e terza persona Bianciardi si accusa e si difende, si elogia e si denigra. È, in termini e ambienti impropri, il definitivo esame di coscienza di un letterato, la cui ultima puntata appare sul Guerino il 15 novembre 1971, postuma di un sol giorno.

Mi piace pensare che, di là dall’istintiva contrapposizione con il canone mondadoresco, l’Antimeridiano si chiami così in omaggio a uno scrittore che si alzava presto al mattino per spremere di lavoro ogni ora del giorno, e che accumulava fogli su fogli di articoli, romanzi e traduzioni per trasformarli in altrettante banconote utili a pagare affitto, luce, acqua, gas e tre figli. Contrario ai miti dello scrittore impegnato (se non a scrivere), esaltato e retorico, Bianciardi si proietta come in uno specchio invertito quando scrive per Il Giorno un lungo saggio divulgativo su d’Annunzio esteta e guerriero, L’eroe immoralista della piccola Italia. Di suo, Bianciardi era armato esclusivamente della macchina per scrivere, sulla quale dichiarava pubblicamente d’esercitare quotidiano battonaggio, e la sua ardita beffa di Buccari consisteva nello spiazzante ricupero, quando il lettore meno se l’aspetta, di termini desueti come “unviuno” o “corbello”, pronti a venire infilati lì dove necessari, in luogo di termini più generici e diffusi che, avanguardisti di un linguaggio appiattito su poche parole comprensibili a tutti, facevano perdere il senso proprio delle cose e quindi la loro verità.

Così anche Bianciardi era nemico della sovrastruttura giornalistica, che portava a intruppare l’avvenimento nel giornalese prefabbricato, che portava i lettori del telegiornale a separare innaturalmente gli articoli dai sostantivi (ascoltateli, non hanno ancora smesso) e a dare al pubblico ciò che esso stesso ritiene di doversi aspettare, consolandolo e blandendolo. Bianciardi è un formidabile dialoghista, e sceneggiatore di interviste. Di mille che ne ho lette e sentite a calciatori d’ogni tempo, nessuna pareggia l’assurdo e smozzicato colloquio con Gianni Rivera nel 1963: “Come l’è parsa l’Inghilterra?” “Ho visto molto poco. Eravamo in ritiro.” “Sa che lei gioca benissimo?” “Be’, faccio del mio meglio.” “Dove andrà in vacanza?” “Non ho ancora deciso.” “Preferisce il mare o la montagna?” “Un po’ il mare, un po’ la montagna.” “Allora grazie, signor Rivera, e buongiorno.” “Speriamo.”

In quest’intervista Rivera potrebbe non aver messo più bocca di Ionesco. Potrebbe essere completamente inventata, intrinsecamente surreale, furiosamente anarchica: per questo è bella e vera.


[Update: questa sera alle 20:30, su La7, verrà trasmesso il film La Vita Agra (Italia 1964), di Carlo Lizzani con Ugo Tognazzi e Giovanna Ralli, tratto dal romanzo di Luciano Bianciardi.]

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