L’irrefrenabile mito di Luciano Bianciardi sorge il 3 giugno
Rivoluzione a Milano occupa tre pagine scarse sulle milleottocentottatntuna, introduzione e indici esclusi, del secondo volume dell’Antimeridiano, il librone (anzi, il Bianciardone) edito per i candidi tipi della ISBN (in collaborazione con la piccola ma virtuosa ExCogita editrice di Luciana Bianciardi figlia ed erede omonima) che raccoglie tutta ma proprio tutta la produzione giornalistica di Bianciardi curata e riorganizzata da Massimo Coppola, Alberto Piccinini e dalla figlia Luciana medesima. Per leggerlo tutto ammetto che c’è voluto del tempo – un mese esatto, e io vado veloce – ma va sottolineato che è stato un piacere pressoché ineguagliabile, stante che ogni articolo, della lunghezza variabile fra l’una e le trenta pagine, immediatamente ne richiamava un altro come ciliegie metafisiche; per comprarlo ammetto che ci vogliono sessantanove euri, ma va sottolineato che un quotidiano in fin dei conti costa un euro e che se comprate, che so io,
Dunque, Rivoluzione a Milano, tre pagine su milleottocentottantuna, 3 giugno 1956. Bianciardi prende il luogo comune della rivoluzione, allora ancora in auge, e lo traspone dal settore lavorativo e proletario a quello più generale, umano tout court, che si riverbera negli atti minimi e preconsci del singolo e della collettività asserviti a un’autorità invisibile e interiorizzata: “La gente di Milano rispetta le leggi, le autorità, le ordinanze, le disposizioni e i regolamenti”, e ancora “il milanese rispetta l’orario e, quando non vi sia, invoca l’orologio a timbro, che segna e marca l’ora di ingresso in ditta”. Su questa struttura ideologica Bianciardi innesta la parodia sistematica di ritmi e tempi di Milano, che sei anni dopo avrebbe costituito il nucleo dolce de
Era infatti Bianciardi un umanista assoluto, che vedeva le lettere al servizio della società e mirava a sottrarre l’uomo dal dominio dell’alienazione alla quale, progressivamente, anche lo stesso marxismo voleva spingerlo, risolvendo il tutto in una dinamica interna a forza lavoro, plusvalore e caduta tendenziale del saggio di profitto. Bianciardi era un anarchico esteta, riguardo al quale curiosamente nessuno ha scritto uno straccio di articolo per ricavarne il succo del pensiero teorico, la filosofia spiccia e ben salda. L’Antimeridiano 2 aiuta invece, forse più della raccolta completa di romanzi nel volume precedente, a rintracciare qualche filo rosso e qualche leitmotiv filosofico che Bianciardi disseminava nella sua letteratura più o meno d’occasione, esattamente come faceva l’uomo che in punto di morte dichiarava di ammirare più d’ogni altro: “Sono un discepolo di Voltaire, non di Diogene”, scriveva il 13 settembre
A leggerla tutta insieme, la raccolta di articoli dell’Antimeridiano 2 è un flusso continuo di coscienza civile che, assecondando i moti più o meno tumultuosi della cronaca immanente, fornisce un quadro piuttosto chiaro delle convinzioni che Bianciardi aveva mantenuto stabili e aveva visto crescere nei vent’anni circa che seguirono i suoi esordi sulla locale stampa maremmana. Questo spiega le soventi ripetizioni, che magari lì per lì avranno preoccupato i curatori ma che anzi, a prodotto finito, forniscono il gradevole effetto di leitmotiv wagneriani che riemergono qua e là dall’infinita quantità di parole che Bianciardi riversa sul suo pubblico mutevole e fedele: il senso di impotenza di fronte alle morti sul lavoro, il favore non tanto verso l’istituzione del divorzio quanto verso l’abolizione del matrimonio, la perplessità (tutta maschile e paterna) di fronte all’aborto, l’avversione per le trasmissioni registrate e la conseguente censura televisiva, la sottile distinzione fra rivoluzione e rivolta, l’ideale risorgimentale tradito che si rispecchia negli ultimi eroi seri del Novecento ovvero i campioni sportivi, l’irritazione dinanzi a Mike Bongiorno, l’inutilità anzi dannosità dello sbarco sulla luna (che allontana, sterilizzandola, la vicinissima luna irraggiungibile dei poeti), l’ammirazione per Giacomo Leopardi giornalista sportivo e per Gianni Brera filologo ugrofinnico, la superiorità e la modernità di Verga su Faulkner, l’insofferenza per l’invenzione di un’apposita grammatica televisiva – nell’Antimeridiano 2 c’è tutto. Né potrebbe essere altrimenti, visto che dal 1952 al 1971 Bianciardi ha scritto su trentacinque testate le più disparate (
Chi gradisce una controprova è invitato a leggere le ampie sezioni (centinaia e centinaia di pagine, a conti fatti) che il volume dedica alla televisione. Bianciardi è stato uno dei primi critici televisivi, forse il primo modernamente inteso, grazie soprattutto alle rubriche Rai Tv su Notizie Letterarie, TeleBianciardi su ABC e Televisione su Playmen, che offrono una radiografia della tv italiana dal 1963 al 1971. Essendo nata
Da critico televisivo Bianciardi non perde mai il proprio carattere di esploratore. Scrive il 25 ottobre
Bianciardi è abile nel prevedere il futuro: pronostica che un dì Celentano sarà famoso non tanto per quello che canta, ma soprattutto per quello che dice e per come sta zitto; che
Anche quando affronta lo sport Bianciardi ha quale estremo ideale irrinunciabile la verità; lo rattrista la consapevolezza che una partita di calcio sia due cose ben diverse se vista dalla tribuna centrale o da dietro la linea di fondo, a cercare di scansare (ovvero parare con lo stomaco) le bordate di Gigi Riva. Il lungo reportage de Il Giorno su Urss-Italia 2-0, valevole per le qualificazioni agli Europei del 1964, consiste in tre paginette sulla partita e ventinove sul viaggio da Milano a Mosca, documentario che sfocia da un lato nella narrativa pittoresca e dall’altro nel racconto filosofico, volto a cercare un significato nelle diverse attese, speranze e disillusioni degli Italiani che vedono per la prima volta la patria dell’ideale allora più diffuso al mondo, e per i quali vedere la partita, tifare e perderla è l’ultimo pensiero.
Questa ricerca della verità, nel tentativo di offrirla vergine a un pubblico più che assuefatto alle mistificazioni a destra e a manca, emerge prepotente in Così è se vi pare, la rubrica epistolare che Bianciardi ha tenuto sul Guerin Sportivo di Gianni Brera nell’ultimo suo anno di vita (fate conto che oggi sul Guerino ogni tanto scrive Gianluca Morozzi, e poi uno non deve lamentarsi che la storia è una corsa scapicollata verso l’orrendo peggio). La leggenda vuole che Bianciardi si scrivesse da solo le lettere firmate da celebrità diverse, alcune delle quali (Milva, ad esempio, o Lauretta Masiero) è altamente improbabile che leggessero il Guerino, ma non si può mai dire. Così è se vi pare occupa più di cento pagine sull’Antimeridiano 2 e consta di una quarantina di corpose lettere con più corposa risposta in cui Bianciardi non solo si pone, rispondendosi, domande che accostino originalmente gli argomenti più diversi (le bottiglie di Coca Cola, i capelli lunghi, Oliver Cromwell e Helenio Herrera) e le grandi passioni della sua vita (letteratura, calcio, rivoluzione, televisione, Risorgimento, donne e alcol), ma sottoponendosi a una continua requisitoria in prima e terza persona Bianciardi si accusa e si difende, si elogia e si denigra. È, in termini e ambienti impropri, il definitivo esame di coscienza di un letterato, la cui ultima puntata appare sul Guerino il 15 novembre 1971, postuma di un sol giorno.
Mi piace pensare che, di là dall’istintiva contrapposizione con il canone mondadoresco, l’Antimeridiano si chiami così in omaggio a uno scrittore che si alzava presto al mattino per spremere di lavoro ogni ora del giorno, e che accumulava fogli su fogli di articoli, romanzi e traduzioni per trasformarli in altrettante banconote utili a pagare affitto, luce, acqua, gas e tre figli. Contrario ai miti dello scrittore impegnato (se non a scrivere), esaltato e retorico, Bianciardi si proietta come in uno specchio invertito quando scrive per Il Giorno un lungo saggio divulgativo su d’Annunzio esteta e guerriero, L’eroe immoralista della piccola Italia. Di suo, Bianciardi era armato esclusivamente della macchina per scrivere, sulla quale dichiarava pubblicamente d’esercitare quotidiano battonaggio, e la sua ardita beffa di Buccari consisteva nello spiazzante ricupero, quando il lettore meno se l’aspetta, di termini desueti come “unviuno” o “corbello”, pronti a venire infilati lì dove necessari, in luogo di termini più generici e diffusi che, avanguardisti di un linguaggio appiattito su poche parole comprensibili a tutti, facevano perdere il senso proprio delle cose e quindi la loro verità.
Così anche Bianciardi era nemico della sovrastruttura giornalistica, che portava a intruppare l’avvenimento nel giornalese prefabbricato, che portava i lettori del telegiornale a separare innaturalmente gli articoli dai sostantivi (ascoltateli, non hanno ancora smesso) e a dare al pubblico ciò che esso stesso ritiene di doversi aspettare, consolandolo e blandendolo. Bianciardi è un formidabile dialoghista, e sceneggiatore di interviste. Di mille che ne ho lette e sentite a calciatori d’ogni tempo, nessuna pareggia l’assurdo e smozzicato colloquio con Gianni Rivera nel 1963: “Come l’è parsa l’Inghilterra?” “Ho visto molto poco. Eravamo in ritiro.” “Sa che lei gioca benissimo?” “Be’, faccio del mio meglio.” “Dove andrà in vacanza?” “Non ho ancora deciso.” “Preferisce il mare o la montagna?” “Un po’ il mare, un po’ la montagna.” “Allora grazie, signor Rivera, e buongiorno.” “Speriamo.”
In quest’intervista Rivera potrebbe non aver messo più bocca di Ionesco. Potrebbe essere completamente inventata, intrinsecamente surreale, furiosamente anarchica: per questo è bella e vera.
[Update: questa sera alle 20:30, su La7, verrà trasmesso il film La Vita Agra (Italia 1964), di Carlo Lizzani con Ugo Tognazzi e Giovanna Ralli, tratto dal romanzo di Luciano Bianciardi.]
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.