Voglio cantare una canzone,
senza pensare alle parole.
(Uccio De Santis)
senza pensare alle parole.
(Uccio De Santis)
La prassi vuole che si vada in libreria, dal giornalaio, al supermercato o addirittura in Feltrinelli per comprare uno, due, cinquanta libri da leggere durante la villeggiatura. La consuetudine è che si faccia spazio fra i bagagli non solo per il secchiello e la picozza (o per il bicarbonato e i preservativi, se si è più cresciutelli), ma anche per – come minimo – un freschissimo bestseller, e poi un bestseller di vent’anni prima che s’era perso nei meandri degli scaffali domestici, e poi inevitabilmente un grande classico da rileggere (con la tacita convenzione che nel novanta per cento dei casi i grandi classici da rileggere non sono mai stati aperti prima). È costume (da bagno, in questo caso) che al mattino presto si guardi con commiserazione i poveracci che leggono tutt’al più Repubblica o il Corriere dello Sport e si sguaini, mezz’unto di crema solare fuoriuscita dalla confezione che si credeva di aver richiuso il pomeriggio prima, il volume col quale ripararsi la faccia dal sole girando le pagine con l’estrema voluttà di chi deliberatamente ignora il circostante rintocco dei racchettoni, il patio del baretto della spiaggia, i preziosi consigli per le vacanze trasmessi a volume hitleriano dalla radio litoranea a circuito chiuso. È buona educazione, infine, bullarsi con parenti amici e sconosciuti assumendo un falso tono afflitto: “Meno male che arriva l’estate, solo in vacanza ho tempo di leggere qualcosa”.
Balle. Dire che solo durante l’estate si ha tempo di leggere è offensivo come dire che solo di domenica si ha tempo di andare in chiesa. Dire che durante l’anno non si ha tempo di leggere, all’inverso, è come raccontare che non si ha tempo di fare sport – un elegante vezzo per togliersi di torno un fastidio potenzialmente assassino. Se uno, foss’anche l’uomo più impegnato del mondo, ritagliasse dall’anno precedente il tempo sprecato in telefonate vane o code dal dottore o sonni fuori contesto o filmati su YouTube con bebè che si fanno la pipì addosso, si renderebbe agevolmente conto che avrebbe avuto modo di – se ne avesse avuto voglia – mettere insieme un paio d’ore di corsa ogni settimana nonché – sempre se ne avesse avuto voglia – di leggere qua e là una decina di romanzi. In un anno non è molto, significa circa duecento pagine al mese per undici mesi, significa sei (virgola sei periodico) pagine al giorno, che con un po’ di applicazione ce la fa pure un analfabeta cieco.
Per protesta contro questo modus legendi (e subordinatamente per evitare il tracollo psicofisico del bibliomane che legge legge e a un certo punto non ce la fa più) quest’estate ho deciso di non portare in vacanza con me nemmeno un libro che fosse uno. In fin dei conti, pensa uno (cioè io), d’estate al mare ci sono più cose da fare che a casa nel resto dell’anno, visto che (tanto per dire) si può prendere il sole, fare il bagno, correre all’alba o al tramonto, imparare il Tedesco dalle turiste, dar due calci al pallone, mulinare il calciobalilla, ammirare quelli che giocano a bocce senz’aver raggiunto l’età legale di sessantacinque anni, rafforzarsi nella convinzione che i bikini bianchi qualora si bagnino diventano trasparenti, parlare di politica col vicino di ombrellone fingendo di essere comunista mentre lui finge di essere berlusconiano, mangiare come un porco, eventualmente uscire a bere qualcosa o andare addirittura in discoteca – tutte attività che non prevedono (anzi aborrono) l’eventualità di leggere o scrivere, la sola presenza teorico-ipotetica di un libro qualsiasi, compreso il manuale di tresette.
Decidere di smettere di leggere, foss’anche per un periodo misero come quindici giorni, è un po’ come far fioretto di non fumarne una per tutto il mese mariano, far Quaresima di digiuno e astinenza dalle carni animali e femminili o decidere di non mangiare più dolci fino a che non verrà sancito il trionfale ritorno al di sotto degli ottanta chili arrotondati per difetto. È, soprattutto, un rostro gettato per saltare al volo dalla barca dei lettori a quella delle persone normali, quelle che non mi regalerebbero mai un libro perché sanno che ne ho già almeno uno. Si fa presto a proporselo e a convincersi della bontà delle intenzioni, meno facile è realizzarle: una forza di gravità inversa ti incatena all’abitudine nel momento esatto in cui devi chiudere la valigia facendo scientemente a meno dell’oggetto-libro, il rassicurante parallelepipedo in cui tante volte ti sei riparato dalle persone noiose, dalle serate noiose, dai pensieri noiosi – da tutto insomma, tranne che dai libri noiosi.
Io medesimo, ad esempio, quindici giorni senza libri non ho potuto prepararli senza portare con me volumi atipici ma necessari comela Bibbia , da leggere appena sveglio e prima di addormentarmi, e il Salterio per seguire la liturgia delle ore. Per maggior sicurezza ho aggiunto l’edizione integrale del Catechismo (nel timore di finire la Bibbia ), ma libri veri – romanzi, saggi, cose scritte e rilegate senza evidenti soccorsi sovrumani – nemmeno parlarne.
Così, forte dell’assenza del libro, sono arrivato a Miramare di Rimini e ho potuto considerare con muto disprezzo la tizia dell’ombrellone dietro che si stravaccava sotto un saggio divulgativo sui Templari, e che di sicuro considerava con muto disprezzo la mia palese ignoranza – stante che non facevo mostra di leggere nemmeno un saggio divulgativo sui Templari. La tattica della contrapposizione netta (ossia: loro leggono d’estate perché sono ignoranti, quindi io che sono colto non devo prendere un libro in mano nemmeno se è l’istruzione per l’apertura dell’ombrellone) funziona fino a un certo punto, diciamo quattro o cinque giorni. A essere sinceri, per arrivare fino a quattro o cinque giorni ho dovuto concedermi un quotidiano al dì che sulle prime erala Gazzetta dello Sport, ma poi s’è rapidamente trasformato nel Foglio – essendo il quotidiano più simile a un volume: perché ha i caratteri più fitti e i congiuntivi più ragionevoli. Ma per il resto della giornata, le restanti ventitre ore e mezza, nisba: piuttosto che leggere un libro ero in grado di andare a piedi fino a Riccione. A piedi nudi. Sul bagnasciuga punteggiato di vongole aguzze.
Queste lunghe passeggiate, a posteriori, penso che siano state controproducenti. Iniziavo per sbirciare sempre più centimetri di pelle disposti e scoperti più o meno gradevolmente, o per sorprendermi sempre meno che bambini di due anni fossero in grado di scandire parole irriferibili mentre battevano con la paletta sulla sabbia compattata, e finivo per vergare un censimento a volo d’uccello delle letture altrui. Il signore con la panza sotto il collo legge un’antologia di racconti romantici dell’Einaudi. La signora col cappellino bianco a funghetto legge Yehoshua. La ragazzetta che ha appena finito la terza media legge l’Antologia di Spoon River, esagerata. Il bambino di due anni ha smesso di inveire fisicamente e verbalmente sulla sabbia e ora morde le pagine cartonate de Il trattore del fattore. Un vecchietto con un moncone penzoloni reca sotto braccio Lo zen e l’arte di scopare. Ottantasei tizi di ogni sesso ordine e grado leggono Faletti. Da una borsa abbandonata nella sabbia spunta lo spigolo della Fallaci postuma. Le giovani turiste inglesi leggono tutte in schiera, ma indossano un abbondante topless e con questo vile sotterfugio mi impediscono di concentrarmi sui titoli. La madre di una bambina che rotola giù dalla sdraio legge la normativa urbanistica di non si capisce che regione. Il bagnino chiude a metà Smettere di fumare per sempre e si accende una sigaretta.
Io non leggo niente: passeggio, rimugino, ricerco ulteriori attività estive ma, sopravvissuto alla prima settimana, va a finire che ne scarto sempre più. In fin dei conti se sto sotto il sole mi cuocio, se sto in mare muoio di stanchezza dopo tre bracciate e mezza, a pallone non gioco dai tardi anni novanta, a calciobalilla perdo irrimediabilmente, le bocce non le muove più nessuno (saranno tutti morti di vecchiaia, ora che ci penso), bikini bianchi nemmeno a pagarli, il vicino di ombrellone mi dà pedissequamente ragione qualsiasi sproposito gli esponga, le turiste tedesche in fin dei conti è meglio se se ne tornano in Germania, ogni volta che mi siedo a tavola ingrasso a vista d’occhio, ciò nondimeno programmo di andare a correre sempre la mattina dopo, non reggo più nemmeno l’acqua frizzante e andare in discoteca figuriamoci. Al pomeriggio del decimo giorno entro nell’unica libreria di Miramare dove – nascosto sotto una pletora di Harmony Passion, quaderni da colorare, guide al bricolage e libri di Marco Travaglio – rinvengo una copia de Il Giro del Mondo in 80 giorni.
Lo compro, lo apro, lo leggo. Un’altra estate sprecata.
Balle. Dire che solo durante l’estate si ha tempo di leggere è offensivo come dire che solo di domenica si ha tempo di andare in chiesa. Dire che durante l’anno non si ha tempo di leggere, all’inverso, è come raccontare che non si ha tempo di fare sport – un elegante vezzo per togliersi di torno un fastidio potenzialmente assassino. Se uno, foss’anche l’uomo più impegnato del mondo, ritagliasse dall’anno precedente il tempo sprecato in telefonate vane o code dal dottore o sonni fuori contesto o filmati su YouTube con bebè che si fanno la pipì addosso, si renderebbe agevolmente conto che avrebbe avuto modo di – se ne avesse avuto voglia – mettere insieme un paio d’ore di corsa ogni settimana nonché – sempre se ne avesse avuto voglia – di leggere qua e là una decina di romanzi. In un anno non è molto, significa circa duecento pagine al mese per undici mesi, significa sei (virgola sei periodico) pagine al giorno, che con un po’ di applicazione ce la fa pure un analfabeta cieco.
Per protesta contro questo modus legendi (e subordinatamente per evitare il tracollo psicofisico del bibliomane che legge legge e a un certo punto non ce la fa più) quest’estate ho deciso di non portare in vacanza con me nemmeno un libro che fosse uno. In fin dei conti, pensa uno (cioè io), d’estate al mare ci sono più cose da fare che a casa nel resto dell’anno, visto che (tanto per dire) si può prendere il sole, fare il bagno, correre all’alba o al tramonto, imparare il Tedesco dalle turiste, dar due calci al pallone, mulinare il calciobalilla, ammirare quelli che giocano a bocce senz’aver raggiunto l’età legale di sessantacinque anni, rafforzarsi nella convinzione che i bikini bianchi qualora si bagnino diventano trasparenti, parlare di politica col vicino di ombrellone fingendo di essere comunista mentre lui finge di essere berlusconiano, mangiare come un porco, eventualmente uscire a bere qualcosa o andare addirittura in discoteca – tutte attività che non prevedono (anzi aborrono) l’eventualità di leggere o scrivere, la sola presenza teorico-ipotetica di un libro qualsiasi, compreso il manuale di tresette.
Decidere di smettere di leggere, foss’anche per un periodo misero come quindici giorni, è un po’ come far fioretto di non fumarne una per tutto il mese mariano, far Quaresima di digiuno e astinenza dalle carni animali e femminili o decidere di non mangiare più dolci fino a che non verrà sancito il trionfale ritorno al di sotto degli ottanta chili arrotondati per difetto. È, soprattutto, un rostro gettato per saltare al volo dalla barca dei lettori a quella delle persone normali, quelle che non mi regalerebbero mai un libro perché sanno che ne ho già almeno uno. Si fa presto a proporselo e a convincersi della bontà delle intenzioni, meno facile è realizzarle: una forza di gravità inversa ti incatena all’abitudine nel momento esatto in cui devi chiudere la valigia facendo scientemente a meno dell’oggetto-libro, il rassicurante parallelepipedo in cui tante volte ti sei riparato dalle persone noiose, dalle serate noiose, dai pensieri noiosi – da tutto insomma, tranne che dai libri noiosi.
Io medesimo, ad esempio, quindici giorni senza libri non ho potuto prepararli senza portare con me volumi atipici ma necessari come
Così, forte dell’assenza del libro, sono arrivato a Miramare di Rimini e ho potuto considerare con muto disprezzo la tizia dell’ombrellone dietro che si stravaccava sotto un saggio divulgativo sui Templari, e che di sicuro considerava con muto disprezzo la mia palese ignoranza – stante che non facevo mostra di leggere nemmeno un saggio divulgativo sui Templari. La tattica della contrapposizione netta (ossia: loro leggono d’estate perché sono ignoranti, quindi io che sono colto non devo prendere un libro in mano nemmeno se è l’istruzione per l’apertura dell’ombrellone) funziona fino a un certo punto, diciamo quattro o cinque giorni. A essere sinceri, per arrivare fino a quattro o cinque giorni ho dovuto concedermi un quotidiano al dì che sulle prime era
Queste lunghe passeggiate, a posteriori, penso che siano state controproducenti. Iniziavo per sbirciare sempre più centimetri di pelle disposti e scoperti più o meno gradevolmente, o per sorprendermi sempre meno che bambini di due anni fossero in grado di scandire parole irriferibili mentre battevano con la paletta sulla sabbia compattata, e finivo per vergare un censimento a volo d’uccello delle letture altrui. Il signore con la panza sotto il collo legge un’antologia di racconti romantici dell’Einaudi. La signora col cappellino bianco a funghetto legge Yehoshua. La ragazzetta che ha appena finito la terza media legge l’Antologia di Spoon River, esagerata. Il bambino di due anni ha smesso di inveire fisicamente e verbalmente sulla sabbia e ora morde le pagine cartonate de Il trattore del fattore. Un vecchietto con un moncone penzoloni reca sotto braccio Lo zen e l’arte di scopare. Ottantasei tizi di ogni sesso ordine e grado leggono Faletti. Da una borsa abbandonata nella sabbia spunta lo spigolo della Fallaci postuma. Le giovani turiste inglesi leggono tutte in schiera, ma indossano un abbondante topless e con questo vile sotterfugio mi impediscono di concentrarmi sui titoli. La madre di una bambina che rotola giù dalla sdraio legge la normativa urbanistica di non si capisce che regione. Il bagnino chiude a metà Smettere di fumare per sempre e si accende una sigaretta.
Io non leggo niente: passeggio, rimugino, ricerco ulteriori attività estive ma, sopravvissuto alla prima settimana, va a finire che ne scarto sempre più. In fin dei conti se sto sotto il sole mi cuocio, se sto in mare muoio di stanchezza dopo tre bracciate e mezza, a pallone non gioco dai tardi anni novanta, a calciobalilla perdo irrimediabilmente, le bocce non le muove più nessuno (saranno tutti morti di vecchiaia, ora che ci penso), bikini bianchi nemmeno a pagarli, il vicino di ombrellone mi dà pedissequamente ragione qualsiasi sproposito gli esponga, le turiste tedesche in fin dei conti è meglio se se ne tornano in Germania, ogni volta che mi siedo a tavola ingrasso a vista d’occhio, ciò nondimeno programmo di andare a correre sempre la mattina dopo, non reggo più nemmeno l’acqua frizzante e andare in discoteca figuriamoci. Al pomeriggio del decimo giorno entro nell’unica libreria di Miramare dove – nascosto sotto una pletora di Harmony Passion, quaderni da colorare, guide al bricolage e libri di Marco Travaglio – rinvengo una copia de Il Giro del Mondo in 80 giorni.
Lo compro, lo apro, lo leggo. Un’altra estate sprecata.
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