(Gurrado per Il Sottoscritto)
Carlo Martinelli, cinquantenne, giornalista e trentino, ha una evidente predilezione per la levità e il disimpegno. Non pare amare i discorsi tronfi né i volumi ponderosi; e dal suo curriculum traspare una certa preferenza per le case editrici di nicchia (Priuli & Verlucca; Curcu & Genovese) e per una produzione più occasionale che sistematica. Lui stesso specifica che suoi racconti, brani, interviste e quant’altro sono sparsi un po’ dappertutto. Un orso sbrana Baricco, lungi dal voler esaurire tutta la produzione di Martinelli, raccoglie un po’ di quant’è stato sparso e lo riunisce con alcuni pezzi inediti così da fornire una visione d’insieme stuzzicante e per nulla banale.
Di questi tredici raccontini il più lungo misura quindici pagine, il più breve cinque righe e mezza. Stando ai contenuti, nessuno ha nulla a che vedere con gli altri, se non la frequente ambientazione trentina e una frase ricorrente che può essere presa come unità di misura della poetica di Martinelli: “il falso è un momento del vero”. Come riprova valga il primo racconto, che dà il titolo al volume. Prende spunto dall’effettiva attività di un personaggio realmente esistente, Alessandro Baricco che va in Trentino per girare un film; aggiunge un elemento di rottura non rispondente al vero, ossia l’orso che sbrana l’autore/regista, o che anzi dovrebbe sbranarlo; rende posticcia perfino l’invenzione, poiché la disgrazia avrebbe dovuto venire inscenata da un gruppo insurrezionale ambientalista; sposta la prospettiva complessiva raccontando il fatto non in presa diretta, ché anzi non è mai avvenuto nemmeno nel racconto, ma con le parole di un poliziotto che riferisce al ministro; e per finire offre al lettore solo metà della conversazione, tacendo le domande e le risposte che il poliziotto sente provenire dall’altro capo del telefono.
Il lettore viene tenuto sempre a una certa distanza di sicurezza dalla narrazione che gli viene via via sottoposta: questo tramite piccole incongruità che segnano gli sbalzi da una scena all’altra nell’ambito dello stesso racconto, oppure per mezzo della ricostruzione flebile, quasi acquerellata, del passato di grandi uomini, o anche solo grazie a scelte stilistiche che rasentano, volutamente s’intende, il grottesco – e che perciò finiscono per essere più rivelatrici.
Un esempio per ciascuna tipologia. La funicolare di Cislenko, il racconto più vibrante d’umanità e forse più vicino alla biografia di Martinelli, procede per piccoli sbalzi dalla prima alla terza persona ma, soprattutto, dal variopinto mondo interiore di un ragazzino di Mezzocorona che passa i pomeriggi a tirare la palla contro il muro, accompagnandosi con una telecronaca fai da te che coinvolge tutti (ma proprio tutti) i partecipanti ai Mondiali del 1966, al contrastante mondo degli adulti che giocoforza vien fatto di immaginarsi in bianco e nero. Il suo principale appiglio al mondo reale è la supremazia indiscussa nel ricordare a memoria le formazioni intere delle sedici nazionali, compresa l’impronunziabile filastrocca della Corea del Nord. Attende fiducioso di stupire gli adulti con quest’ultima sua capacità, ma nessuno glie ne chiede; il tempo passa, diventa adulto, e quarant’anni dopo, della Corea, ricorda a stento un paio di nomi che sanno tutti.
Sabato d’agosto riproduce il refolo di freschezza all’albeggiare, poco prima che giunga la canicola a sommergere ogni cosa. Un uomo, di ritorno in Svizzera, fa improvvisamente fermare il suo autista e scende a prendere una boccata d’aria sulla strada che costeggia San Michele. Una coppia in cinquecento, che sta andando a sposarsi nonostante l’ora estremamente antimeridiana, chiacchiera con lui. O meglio, a mo’ di nuova edizione del V dell’Inferno, con lui chiacchiera solo la donna, mentre l’altro tace – in Dante piange, in Martinelli più prosaicamente si apparta per far pipì: sunt lacrimae rerum. Guardano insieme l’Adige che scorre e si sentono impercettibilmente uniti, come se gli esili fili delle loro storie individuali si intersecassero una e una sola volta. Lui è Georges Simenon; loro sono Mara Cagol e Renato Curcio.
Ne ho viste di cose, porzelàna, è il martellante monologo interiore – con le minuscole dopo i punti – del barista di una stazione di servizio, che ora presta servizio a est “quella che porta le auto e i camion (…) verso i miei amici crucchi”, ora sostituisce qualche collega a ovest, sull’“autostrada che porta in terronia”. Lui è il punto fermo per il quale passano infinite rette, e nella sua impassibilità (invisibilità quasi) vede fermarsi, scendere dall’auto e ripartire ogni possibile tipologia d’Italiano e ne spia per un attimo l’esistenza, come se di ognuno assaggiasse un cucchiaino.
E forse l’intero volumetto di Martinelli è così. Un’antologia del curioso che, con lieve disincanto, guarda dalla serratura gli attimi irripetibili di una realtà in ebollizione: la coglie, la penetra e la incornicia.
Carlo Martinelli, cinquantenne, giornalista e trentino, ha una evidente predilezione per la levità e il disimpegno. Non pare amare i discorsi tronfi né i volumi ponderosi; e dal suo curriculum traspare una certa preferenza per le case editrici di nicchia (Priuli & Verlucca; Curcu & Genovese) e per una produzione più occasionale che sistematica. Lui stesso specifica che suoi racconti, brani, interviste e quant’altro sono sparsi un po’ dappertutto. Un orso sbrana Baricco, lungi dal voler esaurire tutta la produzione di Martinelli, raccoglie un po’ di quant’è stato sparso e lo riunisce con alcuni pezzi inediti così da fornire una visione d’insieme stuzzicante e per nulla banale.
Di questi tredici raccontini il più lungo misura quindici pagine, il più breve cinque righe e mezza. Stando ai contenuti, nessuno ha nulla a che vedere con gli altri, se non la frequente ambientazione trentina e una frase ricorrente che può essere presa come unità di misura della poetica di Martinelli: “il falso è un momento del vero”. Come riprova valga il primo racconto, che dà il titolo al volume. Prende spunto dall’effettiva attività di un personaggio realmente esistente, Alessandro Baricco che va in Trentino per girare un film; aggiunge un elemento di rottura non rispondente al vero, ossia l’orso che sbrana l’autore/regista, o che anzi dovrebbe sbranarlo; rende posticcia perfino l’invenzione, poiché la disgrazia avrebbe dovuto venire inscenata da un gruppo insurrezionale ambientalista; sposta la prospettiva complessiva raccontando il fatto non in presa diretta, ché anzi non è mai avvenuto nemmeno nel racconto, ma con le parole di un poliziotto che riferisce al ministro; e per finire offre al lettore solo metà della conversazione, tacendo le domande e le risposte che il poliziotto sente provenire dall’altro capo del telefono.
Il lettore viene tenuto sempre a una certa distanza di sicurezza dalla narrazione che gli viene via via sottoposta: questo tramite piccole incongruità che segnano gli sbalzi da una scena all’altra nell’ambito dello stesso racconto, oppure per mezzo della ricostruzione flebile, quasi acquerellata, del passato di grandi uomini, o anche solo grazie a scelte stilistiche che rasentano, volutamente s’intende, il grottesco – e che perciò finiscono per essere più rivelatrici.
Un esempio per ciascuna tipologia. La funicolare di Cislenko, il racconto più vibrante d’umanità e forse più vicino alla biografia di Martinelli, procede per piccoli sbalzi dalla prima alla terza persona ma, soprattutto, dal variopinto mondo interiore di un ragazzino di Mezzocorona che passa i pomeriggi a tirare la palla contro il muro, accompagnandosi con una telecronaca fai da te che coinvolge tutti (ma proprio tutti) i partecipanti ai Mondiali del 1966, al contrastante mondo degli adulti che giocoforza vien fatto di immaginarsi in bianco e nero. Il suo principale appiglio al mondo reale è la supremazia indiscussa nel ricordare a memoria le formazioni intere delle sedici nazionali, compresa l’impronunziabile filastrocca della Corea del Nord. Attende fiducioso di stupire gli adulti con quest’ultima sua capacità, ma nessuno glie ne chiede; il tempo passa, diventa adulto, e quarant’anni dopo, della Corea, ricorda a stento un paio di nomi che sanno tutti.
Sabato d’agosto riproduce il refolo di freschezza all’albeggiare, poco prima che giunga la canicola a sommergere ogni cosa. Un uomo, di ritorno in Svizzera, fa improvvisamente fermare il suo autista e scende a prendere una boccata d’aria sulla strada che costeggia San Michele. Una coppia in cinquecento, che sta andando a sposarsi nonostante l’ora estremamente antimeridiana, chiacchiera con lui. O meglio, a mo’ di nuova edizione del V dell’Inferno, con lui chiacchiera solo la donna, mentre l’altro tace – in Dante piange, in Martinelli più prosaicamente si apparta per far pipì: sunt lacrimae rerum. Guardano insieme l’Adige che scorre e si sentono impercettibilmente uniti, come se gli esili fili delle loro storie individuali si intersecassero una e una sola volta. Lui è Georges Simenon; loro sono Mara Cagol e Renato Curcio.
Ne ho viste di cose, porzelàna, è il martellante monologo interiore – con le minuscole dopo i punti – del barista di una stazione di servizio, che ora presta servizio a est “quella che porta le auto e i camion (…) verso i miei amici crucchi”, ora sostituisce qualche collega a ovest, sull’“autostrada che porta in terronia”. Lui è il punto fermo per il quale passano infinite rette, e nella sua impassibilità (invisibilità quasi) vede fermarsi, scendere dall’auto e ripartire ogni possibile tipologia d’Italiano e ne spia per un attimo l’esistenza, come se di ognuno assaggiasse un cucchiaino.
E forse l’intero volumetto di Martinelli è così. Un’antologia del curioso che, con lieve disincanto, guarda dalla serratura gli attimi irripetibili di una realtà in ebollizione: la coglie, la penetra e la incornicia.
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