giovedì 7 gennaio 2010

Scribi e farisei 2009

(Gurrado per Books Brothers)

È stata una buona annata. Uno cambia lavoro, nazione, ritmo della giornata e abitudini alimentari paventando il peggio, lamentando che da persona cazzutamente abitudinaria smarrirà la minima capacità di scandire le giornate e i mesi con i libri e preconizzando che il risultato delle variazioni insopprimibili sarà un calo vertiginoso di ciò che legge. Poi arriva il 31 dicembre, faccio i miei conti grazie alla lista dei libri letti che aggiorno dal 1996 – quanto si invecchia – e mi accorgo che è stata una buona annata perché quest’anno sono 141, da Né qui né altrove di Gianrico Carofiglio ad A passo d’uomo di Joaquim Navarro-Valls. Soprattutto è stata un’ottima annata quanto alla qualità della lettura, dovuta a un arroccamento su posizioni ultraitaliane, dovute indubbiamente al trasferimento all’estero, così che ho finalmente trovato tempo e modo di leggere i classici patri della seconda metà del Novecento che avevo trascurato. Ripercorrendo la lista dei libri letti nel 2009 dunque non sono solo contento perché il numero è ben superiore al misero 115 del 2008 e all’imbarazzante 102 del 2007 ma anche perché in molti casi ho soffermato lo sguardo su un punto della lista dicendo: però, questo libro m’è piaciuto assai. Anche le riletture sono state di gran classe, quest’anno: spaziano dall’antichità (Petronio, Lucrezio) ai megaromanzi sperimentali di ogni tempo (Beckett, Trilogy; Sterne, The life and opinions of Tristram Shandy) alla postmodernità più spinta (Arbasino, Super-Eliogabalo; Eco, Il nome della rosa) e su tutti campeggia I promessi sposi, uno dei libri che non bisognerebbe mai leggere ma sempre rileggere – come Woody Allen diceva di non voler sposarsi ma solo divorziare.

Riletture a parte, tanta abbondanza mi consente di selezionare addirittura 24 libri (due per mese) che sono orgoglioso di aver letto quest’anno. Sapendo che bisogna massimizzare i prodotti della prosperità in vista dei tempi di carestia, li elenco in ordine crescente di insindacabile piacere intellettivo e dividendoli sommariamente per criteri basilari: quelli letti in italiano e quelli letti in altra lingua; quelli scritti da autori italiani e quelli da autori stranieri; quelli i cui autori sono vivi e quelli i cui autori sono morti.

(Una parentesi a parte merita il Premio Tempo Perso, ossia il libro che avrei preferito non leggere risparmiando così due o tre ore preziose. Poiché sono generoso, lo assegno ex aequo a dodici concorrenti senza distinzione di categoria, poi ve la vedete voi: Eat Pray Love di Elizabeth Gilbert; Addio alle armi di Ernest Hemingway; Friction di Jonathan Stretch; L’Italiano di Sebastiano Vassalli; Martin Eden di Jack London; Non avevo capito niente di Diego De Silva; Atlante occidentale di Daniele Del Giudice; Canne al vento di Grazia Deledda; Tanatoparty di Laura Liberale; Venuto al mondo di Margaret Mazzantini; Il seme della colpa di Christian Lehmann; L’armata dei fiumi perduti, spiace dirlo, del compianto Carlo Sgorlon).

Partendo da sotto, Palomar (24°) è forse il testo migliore di Calvino, che solo in una postilla si lascia andare alla compiaciuta spiegazione del criterio col quale ha ordinato le sue storie, rovinando così al lettore la gioia ingenua di vedersele sciorinare davanti secondo un ordine che si può intuire senza capirlo – un tempo si insegnava che in questo risiedesse il piacere estetico. Il piacere di leggere Half a Life (23°) di V.S. Naipaul è stato meno letterario che egoistico, banalmente dovuto al desiderio di sapere come la trama procede e quanto il protagonista somiglia al lettore (effetto simile ha sortito Prima di sparire di Covacich); mentre proprio la trama è forse il peggior difetto in Io, Gesù (22°) di Gilbert Sinoué, quando le meravigliose descrizioni dei paesaggi della Galilea e la modulazione dei sentimenti contraddittori di chi si trova a vivere fianco a fianco con un mistero inafferrabile deve lasciare spazio alla soluzione simil-giallistica di una risurrezione (forse) senza morte. Pugni (21°) di Pietro Grossi, comprato per caso all’aeroporto di Linate, si è rivelato un esordio non sopravvalutato affatto, vista l’ottima capacità di calibrare i racconti lunghi ora che tutti i giovani pendono verso una tendenza all’accorciamento deleterio per manifesta carenza di respiro narrativo. Gli uccelli (20°) di Daphne Du Maurier non ha bisogno di giudizi critici ma conferma la stessa capacità calibrativa di Grossi moltiplicata per dieci, sceverata da ogni ingenuità e raffinata da scelte lessicale talmente meditate che nemmeno la traduzione potrebbe riuscire a rovinarle.

Christian Frascella mi ha restituito con Mia sorella è una foca monaca (19°) la curiosità e la fame di lettura dopo la consueta pausa per le due settimane estive (altrimenti impazzirei) e ha il merito di averlo fatto prima ancora che ripartissi a fine villeggiatura, costringendomi a trascorrere un pomeriggio apposito alla Mondadori di Rimini. Ascrivo una curiosa doppietta a Piovene, in quanto Viaggio in Italia è un libro abbastanza grosso e complicato da piazzarsi sia 18° in quanto saggio onnicomprensivo e ricco di rivelazioni sconvolgenti per la loro evidenza fino ad allora nascosta, come ad esempio l’idea di Bari e Genova città simili delle quali la più meridionale sembra Genova; sia 17° in quanto opera di un autore italiano morto che si rilegge ancora troppo poco ma che riesce a concentrare ottocento pagine sotto un unico sguardo narrativo tale che il lettore del Viaggio accompagni sempre l’ombra dell’autore che attraversa l’Italia con impermeabile e valigia. Piccolo e delizioso, Il libraio che imbrogliò l’Inghilterra (16°) di Roald Dahl ha dovuto essere assaporato parola per parola in maniera tale da cogliere appieno l’aria paradossale dei due racconti che contiene, grazie anche alla nobile traduzione del sempre ottimo Massimo Bocchiola (uno che, tanto per dire, non si spaventa di tradurre Thomas Pynchon e poi, nelle pause, va a fare due chiacchiere alla libreria Il Delfino al centro di Pavia). Un’aria meno leggera ma più ipnotizzante si respira nella raccolta È forse amore (15°) di Giuseppe Berto, che si muove dallo sfacciato ma plausibile presupposto espresso in prefazione, ossia la consapevolezza di essere l’autore migliore della propria generazione e di doverlo comunque dimostrare a ogni libro.

Il tempo materiale (14°) di Giorgio Vasta è bello e gelido ma patisce la prolungata assenza della minima concessione umoristica, correndo il rischio di far scoppiare qua e là a ridere in sacrilego contrasto con le intenzioni dell’autore. In ogni modo, se c’è uno scrittore capace d’impegnarsi a fotografare la contemporaneità italiana, è Vasta e non Saviano. L’opposto accade con Ritratto di una poltrona (13°) di Clio Pizzingrilli, in cui la credibilità della trama, l’affidabilità dell’autore e il senso stesso della narrativa vengono messi in discussione dall’enorme capoverso di 146 pagine che procede per “lampi e cantonate” come diceva ai suoi tempi Pirandello. Antonio Delfini è di Modena; anzi, per certi versi Antonio Delfini è Modena almeno a giudicare da Autore ignoto presenta (12°) che vi assicuro riesce a ricostruire nei dettagli l’aria morbida della città. Peccato solo per la discontinuità della selezione antologica, che serve soprattutto a sprone per riscoprire Delfini come autore integrale ormai consegnato alle biblioteche (una, accidentalmente la più bella dell’universo, è quella intitolata a lui in Corso Canalgrande). La stessa operazione riesce a Enrico Brizzi ne Il pellegrino dalle braccia d’inchiostro (11°), col vantaggio che la disinvolta riproduzione della mentalità emiliana viene inchiodata a una storia di sudore e redenzione sulla Via Francigena, che affronta i temi più caldi del cattolicesimo e, di conseguenza, dell’uomo tout court con una narratività vivace che si rifà dritta dritta agli exempla medievali. Anche Bernard Malamud parla a nuora perché suocera intenda ne Gli Inquilini (10°), dove la storia dei due scrittori rivali che si dividono un palazzo diroccato è buona per chi non ha mai scritto; la felice minoranza che sa tenere la penna in mano si rende conto invece che il succo del libro va cercato fra le righe, in quello che i due personaggi-autori segregati e un po’ folli non riescono a esprimere con la propria scrittura.

Di Malamud si è sempre detto allievo Philip Roth, che ha evidentemente superato il maestro e costituisce la prova vivente che il premio Nobel è meglio non vincerlo mai. Exit Ghost (9°) l’ho letto in lingua originale ma senza aspettare di andare in Inghilterra, comprandolo e sbafandolo anzi già in patria perché dopo il tour de force sintattico di Everyman non riesco più a concepire Roth se non nelle stesse identiche parole che sono uscite dalle sue mani, senza traduttore intermediario. Solo un’altra persona riesco con altrettanta vivacità a immaginare impegnata nell’atto di scrivere forsennatamente. Oriana Fallaci è l’unica giornalista che funzioni anche da romanziera, capace di scrollare il lettore per la collottola e costringerlo a leggere ogni giorno più di quanto avesse preventivato; in particolare, la saga plurisecolare Un cappello pieno di ciliegie (8°) sembra la moltiplicazione per un multiplo indefinito del disperato legame vitale fra generazioni che la Fallaci aveva mostrato al microscopio nella Lettera a un bambino mai nato. Non avevo mai letto niente di J.M. Coetzee ma Vergogna (7° e miglior straniero vivente) è bastato a farmi decidere di leggere tutto il resto, con calma e partendo dall’anno venturo.

Le interviste impossibili (6°) di Giorgio Manganelli sono uno dei pochi libri capaci di insegnare qualcosa di nuovo, sia per quel che concerne termini ormai desueti (o forse mai usati) sia per l’illuminazione di concetti paradossali come Dickens che ammette di sghignazzare mentre descrive le peggiori disgrazie dei bambini più indifesi. Intuizioni se ne trovano a quintali in Bolle (5° e miglior saggio), primo volume della trilogia Sfere che il filosofo tedesco Peter Sloterdijk ha composto anni fa e che solo ora viene con colpevole ritardo tradotto in Italiano. Di Sloterdijk ho abbondantemente parlato altrove quindi non mi addentro nel suo pensiero ma mi limito a notare che anche in questo caso si parte dalla sana ambizione di dire qualcosa di grande e di nuovo, senza la quale non si scriverebbero mai più libri interessanti per davvero. Invece Rimini (4°) di Tondelli deve la sua bellezza alla scelta opposta: scendere a compromessi, tentare di scrivere un libro che seguisse i gusti del pubblico e, senza che questo se ne accorgesse, guidarlo verso una concezione estetica tutta diversa.

Enrico Brizzi è il più bravo scrittore italiano al momento, altrimenti non mi capaciterei di come abbia potuto scrivere L’inattesa piega degli eventi (3° e miglior italiano vivente). È un romanzo che ha tutto: il rigido criterio di causa ed effetto della storia; l’immaginazione sfrenata; un protagonista che si fa amare; una trama dall’esito incerto; un umorismo implicito che non è mai sopra le righe. Un coraggio tramortente anima la Piccola cosmogonia portatile (2°, miglior straniero morto e migliore in lingua originale) di Raymond Queneau. Nonostante la pessima edizione italiana – un refuso nel frontespizio; una traduzione metrica raccapricciante; un commento di Calvino che sostiene che l’inizio del De rerum natura si trovi invece nel IV canto – il testo originale mi ha fatto smarrire felice nella selva di citazioni più o meno evidenti: ad esempio, quella dall’inizio del De rerum natura, dove l’“Aeneadum genetrix” diventa un controverso “Aimable banditrix”, o quella che descrive la terra “pâle et blette” come all’inizio della Genesi è “senza forma e muta”. Di là dall’evidente confronto con l’impegnativo antenato Lucrezio, Queneau fa almeno due cose geniali: riduce la storia dell’uomo a un distico fulminante (“le singe sans effort le singe devint homme / lequel un peu plus tard désagréa l’atome”) e fa entrare la storia dell’universo dalla nascita della terra ai computer in sei canti composti integralmente di versi alessandrini dalla rigida cesura mediana, dimostrando che la parola serve a mettere ordine in un mondo apparentemente caotico.

Il miglior libro del mio anno è stato Aprire il fuoco (1° e miglior italiano morto) di Luciano Bianciardi. Non è il suo miglior romanzo, tecnicamente parlando, ma è quello che ho sentito più vicino al mio cuore e che ho provato l’istinto a rileggere subito dopo averlo finito. Questo vale più di mille recensioni.

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