Stavo appunto meditando sulle stranezze del tifo, lunedì sera, dopo avere assistito in video all’indegno spogliarello genoano a Marassi; solo che non riflettevo nella tradizionale posizione del pensatore, con la fronte sul pugno e il gomito sulla coscia, bensì più arditamente sporgendo il mio periclitante baricentro dalla balaustra del palazzetto del CUS di Pavia, tanto sudato quanto afono, al tie-break della finale del torneo intercollegiale di pallavolo femminile. La distanza dal campo era minima, allungando le mani con un po’ di sforzo avrei potuto prendere a sberle gli allenatori. A un certo punto, all’ennesimo “Non sei capace” ululato coi palmi a megafono verso l’avversaria che aveva sbagliato la battuta o commesso invasione di campo o squacquerato la ricezione, una delle riserve del collegio rivale mi ha guardato dritto negli occhi con lo sguardo del vitello condotto al macello. Era infortunata e sedeva poggiando sulla panchina la gamba destra ingessata, lunga dietro le schiene delle compagne; la sua divisa gialloverde mi ricordava di quando Ferdinando IV di Borbone salutò l’ingresso in sala della moglie che sfoggiava un vestitino nuovo di identico colore: “Maestà, me parìte ’na frittata”.
Su Quasi Rete presento la cronaca (non del tutto imparziale) delle fasi finali del torneo intercollegiale pavese di pallavolo femminile, con illuminanti considerazioni generali sulla psicologia del tifo e sul perché il Genoa doveva tenersi la maglia.