Finalmente domenica!
Diciannovesima giornata, 6 gennaio 2013
Non c’è bisogno di essere Bobo Maroni per capire che ho la Lombardia in testa; non c’è bisogno di essere uno dei Pooh per capire che il mio posto è là. Quand’ero piccolo e il Guerin Sportivo era una questione di vita o di morte, il mio opinionista preferito era Vladimiro Caminiti e credo che ancora oggi qualcosa di lui mi sia rimasto appiccicato addosso: non la tintura per capelli, che pure iniziano a imbiancare, ma una certa passionaccia per considerazioni poco commestibili espresse in scintillante prosa barocca, sciasciana (mi riferisco a lui; io ci provo). Bene, Caminiti diceva che un uomo non è del luogo dov’è nato, ma di quello dove decide di vivere e di far nascere i propri figli; ragion per cui lui, venendo dalla Sicilia, diceva di essere di Torino.
Io non so se mi spingerei altrettanto, anche perché ancora non ho fatto nascere figli che mi inchiodino definitivamente a Pavia; però più passa il tempo più ho difficoltà, quando mi chiedono “Di dove sei?”, a rispondere “Di Gravina”. Delle due settimane di ferie pugliesi che termino oggi di trascorrere qui mi è rimasta l’impressione di un unico pasto lautissimo e copioso che si è snodato inarrestabile dal 21 dicembre a oggi, a causa soprattutto dell’improvvida circostanza per la quale le vigilie cadevano di lunedì, quando già si era sopramangiato per i due giorni del fine settimana. Forse per questo mai come quest’anno ho patito il cultural divide che mi separa dalla mia pretesa patria, dove il primo comandamento e fondamentale collante della società è: mangiare.
La masticazione qui cessa di essere sostentamento e diventa una via di mezzo fra il passatempo e la prova di forza: si mangia con gli amici, si mangia per non far dispiacere i parenti, si mangia quando si rende visita e quando si ospita qualcuno; si mangia alle presentazioni di libri o alle inaugurazioni di mostre, anzi si tende a inaugurare mostre e presentare libri per poter mangiare; si mangia fra un pasto e l’altro, per tirare sera e fare bella figura, perché non si può dire di no, perché il digiuno è in sé offensivo; si mangia tutto quello che gli antenati non hanno potuto mangiare, si mangia – tautologicamente – perché l’atto stesso del mangiare certifica la gravinesità; mangiare è obbligatorio tanto quanto lamentarsi, durante il pasto successivo, di avere mangiato troppo in precedenza.
Sul cibo posso reggere botta, per quanto barcolli e mi puntelli con la sottomarca di un noto effervescente. Le altre due persone della trinità locale mi trovano più impreparato, e sono: ordine e (no, non disciplina ma) una volta.
L’ordine è centripeto. Ogni famiglia ha un addetto all’ordine (generalmente, la signora) che provvede a cancellare le tracce degli insediamenti umani dalle abitazioni, a velocità talmente elevata che ormai si è radicata la convinzione che non si lavi il bagno perché lo si è usato ma che si debba usarlo in fretta perché c’è da lavarlo. La massima concentrazione di ordine si verifica negli immediati pressi di quest’addetto e va via via sfumando nell’allontanarsene, fino a raggiungere picchi di anarchia igienica per la pubblica strada dove i cittadini, sputando sull’asfalto o incendiando i cassonetti o parcheggiando a pettine metà in divieto di sosta e metà sulle strisce, si rifanno dell’oppressione alla quale sono costretti entro le mura domestiche. Dall’ossessione per l’ordine deriva la diffusa scarsa dimestichezza con l’oggetto libro, di difficile conservazione e foriero di polvere.
Da un approfondito esame della memoria collettiva emerge però la consolidata nozione che non sempre Gravina è andata a scatafascio; una volta era una città ideale. “Una volta” è un periodo storico di varia composizione che dura grossomodo dagli insediamenti rupestri all’infanzia del relatore. Era il periodo in cui Gravina era più grande di Bari, in cui Federico II di Svevia viveva a Gravina, in cui il Papa era gravinese, il traffico era scorrevole, gli artigiani sapevano lavorare come si deve, i giovani erano bravi, i vecchi erano giovani, l’aria era pulita, si poteva giocare per strada, e la collettività esercitava i tipici mestieri gravinesi che sono poi stati esportati nelle altre città garantendo così lo sviluppo del mondo; inoltre si mangiava bene e tutto era in ordine.
Sono dati di fatto che ho sempre avuto sotto gli occhi, eppure ci sono voluti anni perché giungessi ad accorgermene col lucido distacco degli antropologi. Funziona così: uno se ne va, poi si accorge dei motivi per cui se n’è andato e decide di far nascere i figli altrove, fino a che questi non crescono e gli dicono: “Papà, ma non ti eri accorto che quest’altrove è così e così? Come t’è venuto? Basta, ce ne andiamo”. A questo stavo pensando, mentre cercavo di adeguarmi e digerire senza mettere disordine (come si faceva una volta). Stavo anche pensando che quand’ero piccolo e leggevo il Guerin Sportivo ho forse sbagliato a scegliere modello di riferimento: metà siciliano e metà torinese, questi era talmente benvoluto da nord a sud dello Stivale che nella stagione di massimo fulgore dell’Anonima Sequestri un giorno in curva – non ricordo più lo stadio esatto – apparve lo striscione: “Diamo in cambio dei rapiti / Vladimiro Caminiti”.
[Il resto della rubrica, in cui Francesco Savio rivela le letture di Mario Monti, si trova come sempre su Quasi Rete, il blog letterario della Gazzetta dello Sport.]