Finalmente domenica!
Venticinquesima giornata, 17 febbraio 2013
Vi prego di notare il crescendo: lunedì il Papa abdica;
martedì Toto Cutugno canta a Sanremo col coro dell’Armata Rossa; mercoledì io
affronto il concorso per diventare professore alle superiori; giovedì Pistorius
spara alla fidanzata; venerdì, pioggia di meteoriti sulla Russia. Ieri, con
un’escalation del genere, non c’era bisogno di essere apocalittici per
aspettarsi chissà cosa e invece, nonostante una scossetta di terremoto che ai
giorni nostri è ormai routine, non è accaduto niente di che e mi è restato tutto
l’agio di pensare due cose. La prima è che forse aveva ragione Leibniz: perfino
questo gorgo autodistruttivo nel quale sembriamo essere entrati può servire a
dimostrare che viviamo nel migliore dei mondi possibili. Immaginate cosa
sarebbe accaduto cambiando l’ordine dei fattori: io che affronto il concorso
per diventare Toto Cutugno, il coro dell’Armata Rossa che spara a Pistorius, i
professori di liceo che si dimettono in massa, pioggia di Papi su Sanremo.
La seconda è più complessa, e ha a che fare col nostro essere
uomini e italiani. Siamo sempre così pronti a stupirci del banale (mercoledì mattina
su Rai Sport ho sentito Marco Mazzocchi dire: “Ecco, guardate l’importanza del
portiere”; mercoledì sera su Sky un liscio in area di Lewandowski è stato
definito “Finta clamorosa involontaria”) che lo straordinario non ci dice più
niente e per capirlo devono presentarcelo tagliuzzato come le fettine di carne arrostita
ai bambini che non sanno ancora tenere in mano il coltello. Cosa dice in questi
giorni la voce del popolo? L’abdicazione del Papa è diventata una dimissione, e
stamattina su Repubblica Eugenio Scalfari lascia intendere di averla causata
lui con l’editoriale della settimana scorsa. Il coro dell’Armata Rossa conferma
che il Festival avrebbe piuttosto dovuto essere trasmesso su Rai3. Della
pioggia di meteoriti non c’è da preoccuparsi, lo assicurano in simultanea
Roberto Giacobbo, che non si capisce cosa ci faccia ancora sulla terra dopo il
fatale 21 dicembre del Maya, e Michele Serra, che rivendica come l’evento celeste
non abbia comportato che qualche ferito grave mentre le guerre fatte dall’uomo
hanno causato milioni di morti e bla bla bla. Pistorius, femminicidio, la
tragedia di essere campioni, il tradimento dell’eroe buono, bla bla bla bla. Se
poi ascoltate cosa viene detto ai giornalisti dei tg popolari sguinzagliati a
interpellare passanti in piazza San Pietro vi accorgerete che un’ampia
maggioranza di sedicenti cattolici è in realtà eretica; solo che un tempo li
bruciavano, oggi li intervistano.
E il concorsone? Niente, nessun giornale ha scritto una
verità che mi è subito balzata agli occhi mentre facevo la fila per entrare
nelle aule di questo e quel liceo milanese e sedermi al banco per aspettare le
tracce di un tema, come se dal 1998 non fosse passato un mese: la verità,
dicevo, è che esclusi i presenti i concorrenti maschi erano in larga parte di ragguardevole
bruttezza. Sembra una considerazione di costume ma è demografia. Se voi
considerate questa fila di maschi in età più o meno fertile, dai trenta ai cinquant’anni,
che a passo lento si avvia verso i banchi di una scuola con sotto braccio il
manuale per prepararsi all’esame per la tal classe di concorso, o col
dizionario come se avessero quindici anni e non sapessero l’Italiano, o con il
bigino “Tuttostoria” o “Tuttofilosofia” bisunto e squadernato nella speranza
che basti a ottenere un posto fisso benché sottopagato, vi viene da pensare a un
esercito di padri di famiglia? A me viene in mente piuttosto una sfilza di
figli ancora attaccati alle mammelle, che nessuna donna ardirebbe sposare per
garantire una degna progenie alla patria cadente.
Mi sono chiesto allora se la bruttezza collettiva fosse
causa oppure effetto. Istintivamente sembra causa: uno è brutto, allora si
laurea e invece di andare per l’aspro mondo a cercare lavoro e moglie
preferisce la bambagia della giustificazione: “Eh, non posso mettere su
famiglia perché non ho ancora il posto”. E se invece fosse effetto, e se avesse
ragione quel tale Darwin di cui s’è fatto un gran parlare di recente? Uno
studia, si laurea, decide di aspettare il posto fisso ripassando più e più
volte il programma del liceo e mentre studia gli cresce la pancia, gli cascano
i capelli, un fitto vello gli ricopre le membra e gli si ingialliscono i denti,
diventa strabico, orbo, cieco, sordo, spastico, deforme e lettore di
Repubblica. A ventinove anni la natura ha fatto il suo corso e nessuna lo vuole
più, per evitare di sposare uno che dica: “Eh, non possiamo avere un bambino
perché non ho ancora il posto”.
Ovvio che non si può generalizzare. Due maschi esteticamente
validi in realtà c’erano: alti, snelli, ben vestiti, dai lineamenti nobili e
dagli accessori giusti. Poco prima di entrare in aula si sono dati un bacio.
Delle donne invece non parlo per evidente signorilità, e perché le donne sono
diverse. Dirò solo di quella che nei bagni mi ha chiesto com’era andata e mi ha
detto di essere venuta lì apposta da Napoli perché c’era qualche mezza
possibilità in più di vincere ma che temeva di essersi squacquerata sullo
scritto di storia perché non si aspettava le tracce sull’Unione Europea e
sull’Islam. Quando ha smesso di star piegata sul lavandino a lavarsi le mani le
ho guardato l’ombelico e ho chiesto: “Quanto manca?”. “Due mesi, sarà una femminuccia”.
[Come ogni lunedì, l'altra metà della rubrica si trova su Quasi Rete, il blog letterario della Gazzetta, e l'ha scritta Franceso Savio.]