Idea per un romanzo, di quelli fantastorici che erano in
voga nelle edicole delle stazioni negli anni Settanta. Nel mezzo della crisi
economica più grave del secolo, subito dopo un’imprevista pioggia di scaglie di
meteoriti incandescenti, in un’Italia immaginaria ma con ogni evidenza
riconoscibile sotto il velo distopico, si tengono elezioni politiche che
vengono vinte da un comico televisivo. Triste perché non fa più ridere da vent’anni,
questi gestisce un partito/setta i cui affiliati, reclutati su internet, gli
cedono i propri futuri guadagni perché credono che presto scoppierà la terza
guerra mondiale, sanguinosa ma necessaria a istituire un nuovo ordine terrestre
a partire dal 14 agosto 2054, non un giorno di più non un giorno di meno. Il
presidente del consiglio uscente, un emissario germanico, resta in carica a
oltranza cercando di evitare la deriva populista e sperando che nel corso dei
mesi uno dei due partiti tradizionali riesca a trovare una soluzione per
superare l’impasse istituzionale senza però svendersi alle istanze del partito
rivale; ma gli è consentito soltanto il disbrigo degli affari correnti, condannando
la nazione all’immobilismo politico ed economico mentre il presidente della
repubblica è entrato nel semestre bianco che gli impedisce di sciogliere le
camere e indire nuove elezioni sperando di essere più fortunato. È la
situazione ideale per un colpo di mano da parte delle forze dell’ordine, leste
a infilarsi in un vuoto di potere, ma il capo della polizia viene
misteriosamente ricoverato per un’emorragia cerebrale. Nel frattempo, sul
cupolone di San Pietro i fedeli vedono salire in volo un elicottero bianco con
la scritta “Repubblica Italiana” che si porta via il Papa e…
No, scusate, è troppo inverosimile. Cose del genere possono
solo accadere, non venire immaginate; ed è beffarda quest’impossibilità
paradossale se si pensa alla gran fame che il pubblico (e quindi gli editori) ha
di libri che siano al contempo romanzi e storie vere. Ci stavo pensando poco fa,
consigliando a un’amica di rifarsi una vita, editorialmente parlando. Ha una
storia (autobiografica, vera) forte e scioccante abbastanza da poter essere
letta con interesse da un pubblico lobotomizzato? Bene, non accetti di
confinarla nel suo librino uscito per un editore carbonaro che verrà letto da
pochi altri oltre me, e non si periti di raccontarla con tutte le cautele della
verità, ammettendo che fino a un certo punto ricordava i dettagli ma tutto no,
oppure che ha cambiato il nome a questo o a quello per non far fare brutta
figura, oppure che ha remore a descrivere entomologicamente cos’è accaduto,
cos’ha visto, cos’ha provato. Tutto ciò è inutile e dannoso per la sua storia.
È invece necessario che la renda vera e inventata al contempo: deve riscriverla
da cima a fondo sopperendo ai vuoti di memoria con la fantasia, riempiendo
tutti i buchi con ciò che il pubblico (e quindi gli editori) si aspetta di
trovarci, un po’ come i giornalisti che raccontano tutto dell’ennesima mattana
di Cassano in allenamento senza per questo esserne stati testimoni. Sappiamo
tutti com’è un allenamento, sappiamo tutti com’è Cassano, possiamo dedurre il
resto da soli e per credere alla verità della nostra immaginazione ci è
sufficiente trovarne conferma sulla carta stampata.
Scrivi, dico allora a questa mia amica, ma ti impedisco di
iscriverti a un corso di scrittura. Piuttosto noleggia un negro che scriva al
posto tuo, che raccolga il magma orale o scritto della tua ricostruzione e la
incaselli in una struttura preconcetta che risulti potabile al pubblico (e
quindi agli editori): ti costerebbe meno soldi e fatica. Fermo restando che
sarò favorevole ai corsi di scrittura solo quando mi dimostreranno che non dico
Manzoni e Proust ma almeno Bianciardi e Moravia ne hanno seguito uno, ammetto
che questi corsi partono da un presupposto tuttavia giusto: ossia che
l’editoria italiana s’è appiattita su un modello di narrativa abbastanza
prevedibile e codificabile espresso in Italiano neostandard (quello delle
fiction Rai, per capirci), sul quale si innestano variazioni a più livelli che
incontrano i gusti delle varie sfaccettature preesistenti di pubblico.
L’obiettivo non è sorprenderli ma confermarli nelle loro aspettative, e più che
insegnarti a scrivere ti insegnano a capire che esagono ti compete
nell’infinito alveare. Un giro in libreria, per chi sa leggere la disposizione
dei libri sugli scaffali, basta a notare che sempre meno conta l’autore e
sempre più il sottogenere nel quale l’autore viene incluso. Il massimo successo
viene raggiunto da un autore quando il proprio nome diventa un sottogenere a sé
stante: Saviano, ad esempio, o Sveva Casati Modignani, o Valerio Massimo
Manfredi, o il filone mai troppo esplorato dei libri di Totti da Tutte le barzellette su Totti (raccolte da
me) del 2003 a E mo’ te spiego Roma
del 2012.
Ieri pomeriggio stavo leggendo I fatti di Philip Roth, un’autobiografia risalente agli anni ’80 in
cui l’autore si sforza di diventare personaggio e poi conclude con una lettera
in cui il suo immaginario alter ego Nathan Zuckerman gli dice che è fiacco e fa
cilecca, che è meglio se si limita a fare l’autore perché risulta imbolsito
quando prova a sceverare i fatti dall’immaginazione e dalla conseguente libertà
di dire quello che gli pare su ciò che è realmente accaduto, fingendo che non
sia mai accaduto se non nella finzione. Non dico che la mia amica deve
diventare Philip Roth ma deve prendere in considerazione la fortuna che le è
capitata: la sua storia personale, che è anche la trama del romanzo che ha in
canna, è forte e inconsueta a sufficienza da garantirle di risultare un autore/personaggio,
di quelli che associ immediatamente a un’identità precisa come se fossero
creature immaginarie e invece sono lì che scrivono davvero (è il caso di
Melissa P., o di Nicolai Lilin, o di una qualsiasi star televisiva che abbia
imparato a battere a macchina). Essendo inverosimile, la sua storia ha tutti i
crismi per essere accettata come romanzo vero e questo le consentirà, quando
sarà una scrittrice famosa, di scrivere tutte le autobiografie che vuole
rimpinzandole di eventi immaginari. Infatti I
fatti ce lo siamo comprati tutti pur sapendo che sarebbe stata
un’autobiografia piena di reticenze o invenzioni che non sarebbe valsa la metà
di un romanzo vero di Philip Roth. Quindi, tanto vale che ci provi anch’io: nel
mezzo della crisi economica più grave del secolo, subito dopo un’imprevista
pioggia di scaglie di meteoriti incandescenti…
[L'altra metà della rubrica, in cui Francesco Savio parla de I Fatti di Philip Roth, si trova come sempre su Quasi Rete.]