lunedì 4 marzo 2013


Idea per un romanzo, di quelli fantastorici che erano in voga nelle edicole delle stazioni negli anni Settanta. Nel mezzo della crisi economica più grave del secolo, subito dopo un’imprevista pioggia di scaglie di meteoriti incandescenti, in un’Italia immaginaria ma con ogni evidenza riconoscibile sotto il velo distopico, si tengono elezioni politiche che vengono vinte da un comico televisivo. Triste perché non fa più ridere da vent’anni, questi gestisce un partito/setta i cui affiliati, reclutati su internet, gli cedono i propri futuri guadagni perché credono che presto scoppierà la terza guerra mondiale, sanguinosa ma necessaria a istituire un nuovo ordine terrestre a partire dal 14 agosto 2054, non un giorno di più non un giorno di meno. Il presidente del consiglio uscente, un emissario germanico, resta in carica a oltranza cercando di evitare la deriva populista e sperando che nel corso dei mesi uno dei due partiti tradizionali riesca a trovare una soluzione per superare l’impasse istituzionale senza però svendersi alle istanze del partito rivale; ma gli è consentito soltanto il disbrigo degli affari correnti, condannando la nazione all’immobilismo politico ed economico mentre il presidente della repubblica è entrato nel semestre bianco che gli impedisce di sciogliere le camere e indire nuove elezioni sperando di essere più fortunato. È la situazione ideale per un colpo di mano da parte delle forze dell’ordine, leste a infilarsi in un vuoto di potere, ma il capo della polizia viene misteriosamente ricoverato per un’emorragia cerebrale. Nel frattempo, sul cupolone di San Pietro i fedeli vedono salire in volo un elicottero bianco con la scritta “Repubblica Italiana” che si porta via il Papa e…

No, scusate, è troppo inverosimile. Cose del genere possono solo accadere, non venire immaginate; ed è beffarda quest’impossibilità paradossale se si pensa alla gran fame che il pubblico (e quindi gli editori) ha di libri che siano al contempo romanzi e storie vere. Ci stavo pensando poco fa, consigliando a un’amica di rifarsi una vita, editorialmente parlando. Ha una storia (autobiografica, vera) forte e scioccante abbastanza da poter essere letta con interesse da un pubblico lobotomizzato? Bene, non accetti di confinarla nel suo librino uscito per un editore carbonaro che verrà letto da pochi altri oltre me, e non si periti di raccontarla con tutte le cautele della verità, ammettendo che fino a un certo punto ricordava i dettagli ma tutto no, oppure che ha cambiato il nome a questo o a quello per non far fare brutta figura, oppure che ha remore a descrivere entomologicamente cos’è accaduto, cos’ha visto, cos’ha provato. Tutto ciò è inutile e dannoso per la sua storia. È invece necessario che la renda vera e inventata al contempo: deve riscriverla da cima a fondo sopperendo ai vuoti di memoria con la fantasia, riempiendo tutti i buchi con ciò che il pubblico (e quindi gli editori) si aspetta di trovarci, un po’ come i giornalisti che raccontano tutto dell’ennesima mattana di Cassano in allenamento senza per questo esserne stati testimoni. Sappiamo tutti com’è un allenamento, sappiamo tutti com’è Cassano, possiamo dedurre il resto da soli e per credere alla verità della nostra immaginazione ci è sufficiente trovarne conferma sulla carta stampata.

Scrivi, dico allora a questa mia amica, ma ti impedisco di iscriverti a un corso di scrittura. Piuttosto noleggia un negro che scriva al posto tuo, che raccolga il magma orale o scritto della tua ricostruzione e la incaselli in una struttura preconcetta che risulti potabile al pubblico (e quindi agli editori): ti costerebbe meno soldi e fatica. Fermo restando che sarò favorevole ai corsi di scrittura solo quando mi dimostreranno che non dico Manzoni e Proust ma almeno Bianciardi e Moravia ne hanno seguito uno, ammetto che questi corsi partono da un presupposto tuttavia giusto: ossia che l’editoria italiana s’è appiattita su un modello di narrativa abbastanza prevedibile e codificabile espresso in Italiano neostandard (quello delle fiction Rai, per capirci), sul quale si innestano variazioni a più livelli che incontrano i gusti delle varie sfaccettature preesistenti di pubblico. L’obiettivo non è sorprenderli ma confermarli nelle loro aspettative, e più che insegnarti a scrivere ti insegnano a capire che esagono ti compete nell’infinito alveare. Un giro in libreria, per chi sa leggere la disposizione dei libri sugli scaffali, basta a notare che sempre meno conta l’autore e sempre più il sottogenere nel quale l’autore viene incluso. Il massimo successo viene raggiunto da un autore quando il proprio nome diventa un sottogenere a sé stante: Saviano, ad esempio, o Sveva Casati Modignani, o Valerio Massimo Manfredi, o il filone mai troppo esplorato dei libri di Totti da Tutte le barzellette su Totti (raccolte da me) del 2003 a E mo’ te spiego Roma del 2012.

Ieri pomeriggio stavo leggendo I fatti di Philip Roth, un’autobiografia risalente agli anni ’80 in cui l’autore si sforza di diventare personaggio e poi conclude con una lettera in cui il suo immaginario alter ego Nathan Zuckerman gli dice che è fiacco e fa cilecca, che è meglio se si limita a fare l’autore perché risulta imbolsito quando prova a sceverare i fatti dall’immaginazione e dalla conseguente libertà di dire quello che gli pare su ciò che è realmente accaduto, fingendo che non sia mai accaduto se non nella finzione. Non dico che la mia amica deve diventare Philip Roth ma deve prendere in considerazione la fortuna che le è capitata: la sua storia personale, che è anche la trama del romanzo che ha in canna, è forte e inconsueta a sufficienza da garantirle di risultare un autore/personaggio, di quelli che associ immediatamente a un’identità precisa come se fossero creature immaginarie e invece sono lì che scrivono davvero (è il caso di Melissa P., o di Nicolai Lilin, o di una qualsiasi star televisiva che abbia imparato a battere a macchina). Essendo inverosimile, la sua storia ha tutti i crismi per essere accettata come romanzo vero e questo le consentirà, quando sarà una scrittrice famosa, di scrivere tutte le autobiografie che vuole rimpinzandole di eventi immaginari. Infatti I fatti ce lo siamo comprati tutti pur sapendo che sarebbe stata un’autobiografia piena di reticenze o invenzioni che non sarebbe valsa la metà di un romanzo vero di Philip Roth. Quindi, tanto vale che ci provi anch’io: nel mezzo della crisi economica più grave del secolo, subito dopo un’imprevista pioggia di scaglie di meteoriti incandescenti…


[L'altra metà della rubrica, in cui Francesco Savio parla de I Fatti di Philip Roth, si trova come sempre su Quasi Rete.]