martedì 22 aprile 2014

Sul sito di Tempi è disponibile la recensione-diluvio di Noah, il film con Russell Crowe, Anthony Hopkins e Tubalcaino. Sembra lunga, ma se la leggete tutta risparmiate sia tempo sia i soldi del biglietto. Eccola:

Bisogna anzitutto ricordarsi che nonostante le massicce apparenze la Bibbia ha il dono della sintesi. Lo aveva già capito due millenni fa il cosiddetto Anonimo del Sublime il quale individuò nei primi versetti della Genesi la fattispecie della narrazione vertiginosa, che mostra nel giro di poche parole un precipizio infinito. La fama della Bibbia – fama stilistica, intendo – è dovuta a espressioni brevi, concise, fulminanti: “E fu sera e fu mattina”. Ho controllato sulla mia copia; a non voler considerare la Genesi che da un versante meramente narrativo, una pagina basta a raccontare la creazione di luce, firmamento, acque e luminaria magna, ossia sole e luna; alla fine della seconda pagina la creazione è stata completata; alla fine della terza Eva viene data ad Adamo e alla fine della quarta avvengono la cacciata dal Paradiso terrestre e l’inizio della storia umana propriamente detta.

La lunga, complessa storia di Noè viene raccontata in soli quattro capitoli – Genesi 6-9 – dalla corruzione dell’umanità alla benedizione dei figli del patriarca. Nel suo nucleo centrale copre quanto meno duecento giorni: sette dall’annuncio del diluvio alla prima goccia d’acqua; quaranta di pioggia; centocinquanta di terre sommerse. È tuttavia un computo per difetto. Dice infatti la Genesi che le acque del diluvio inondarono la terra “il diciassette del secondo mese” dei seicento anni di Noè (7, 11), che l’arca si posò sulle montagne dell’Armenia “al ventisette del settimo mese” (8, 4) e che il primo giorno del decimo mese (8, 5) dalle acque che man mano si ritiravano iniziarono a spuntare le vette dei monti. A quel punto Noè attese altri quaranta giorni e spedì il corvo in perlustrazione; dopo un tempo imprecisato, smarrito il corvo, venne mandata la colomba che fallì il primo tentativo di trovare terre emerse e venne pertanto rispedita una seconda volta dopo sette giorni dal suo ritorno (8, 10). Tornata la colomba la sera stessa con un ramoscello d’ulivo nel becco, Noè attese altri sette giorni. Quanto tempo è passato dall’inizio della storia? La Genesi racconta che Noè scoperchiò il tetto dell’arca, guardò e vide che la superficie della terra era asciutta il primo giorno del primo mese del suo anno seicentesimo primo (8, 18) e nel versetto successivo aggiunge che la terra fu asciutta il ventisette del secondo mese. È trascorso più di un anno; la mano che scrisse la Bibbia lo ha raccontato in due capitoli, riservandosi un capitolo preliminare per le cause dell’ira di Dio e un capitolo ulteriore per il sigillo dell’alleanza fra Dio e l’uomo, l’istituzione dell’arcobaleno e la preconizzazione del destino della posterità di Noè.

Questa premessa puntigliosa serve a calibrare il raffronto con la narrazione degli stessi eventi nel film di Darren Aronofsky che racconta la storia del cugino americano di Noè, Noah, interpretato da Russell Crowe. Considerato che la pellicola dura centotrentotto minuti, si possono trarre alcune conseguenze significative. Anzitutto, se lo stesso ritmo narrativo di Noah fosse stato applicato all’intero racconto della Genesi, la quale dalla creazione della luce alla morte di Giuseppe in Egitto impiega cinquanta capitoli, ebbene quest’ipotetico film Genesis sarebbe durato millesettecentoventicinque minuti, ovvero un giorno quattro ore e rotti. Il sublime, la narrazione vertiginosa che contraddistingue le prime pagine della Bibbia, nel film americano va del tutto a farsi benedire; la solennità di termini e modi che puntella il resoconto veterotestamentario è maestosa se concentrata nelle poche pagine essenziali di un testo scritto quando scrivere era materialmente difficile e faticoso, mentre diventa bolsa se dilatata nelle due ore e mezza di uno spettacolo che il progresso della tecnica e della virtualità ha reso, per quanto complicato, indubbiamente più comodo da realizzare. “E fu sera e fu mattina, primo giorno” è una formula senz’altro più efficace di “E fu sera e fu mattina, eccetera eccetera, omissis, bla bla bla”. 

La seconda conseguenza è dovuta al fatto che la storia di Noè ha un nocciolo narrativo che si sviluppa in un tempo limitato rispetto a quello enorme dell’attesa nell’arca, fra i complessivi centonovanta giorni di inondazione e gli otto mesi dopo i quali iniziarono a rivedersi i cocuzzoli delle montagne. Un regista che volesse impostare un film sul rispetto di queste proporzioni otterrebbe un film cupo, claustrofobico e ripetitivo ai limiti dello sfibrante oltre che umidissimo. La più urgente necessità di Aronofsky, una volta deciso di voler fare un kolossal della breve ma intensa storia di Noè, era di riempire i vuoti che il resoconto biblico lasciava inevitabilmente. Per questo ha dovuto integrare quello che la Bibbia dice con chiarezza – ben poco, in verità – galoppando con la fantasia; e, poiché per quanto giovane non è uno sprovveduto, ha deciso di affidare il riempimento ai ben noti gusti del pubblico. A fare un film possono essere buoni quasi tutti ma non altrettanto a riempire le sale.

Alla gente piace anzitutto l’azione, vedere altra gente che si mena: donde le numerose scene di guerra di tutti contro tutti, che andavano intese come un omaggio al filone di Braveheart piuttosto che di Thomas Hobbes. Alla gente piace l’amore: donde la tormentata storia d’amore fra Sem (personaggio biblico) e Ila (non sono riuscito a rileggere la Bibbia per intero prima di mettermi a scrivere ma penso di poter arguire che si tratti di un personaggio immaginario). Alla gente piacciono i bambini: dunque, si è detto Aronofsky, facciamo un drammone familiare in cui Ila ha una ferita al grembo che le impedisce di far figli, salvo poi miracolosamente partorire due gemelle e venire minacciata da Noè che vuole ucciderle a nuda lama. Alla gente piace la magia: quindi diamo ad Anthony Hopkins il ruolo di Matusalemme dotato del potere di rendere feconde le sterili e soprattutto di praticare l’anestesia totale su minori premendo loro la fronte con un dito. Ai bambini piacciono i mostri: allora popoliamo la terra di giganteschi Guardiani che sembrino dei Transformers di pietra e che in primo piano mostrino la faccia lacrimosa di ET.

In quest’ottica va letto secondo me il messaggio etico contenuto in Noah che ha commosso i fan di tutto il mondo, quelli abituati a twittare ai profili delle star i commenti sui film in cui li hanno visti recitare: il mondo è in pericolo, l’uomo è nemico dell’ambiente, se non facciamo qualcosa la terra gli si rivolterà contro. Non so, non credo, anzi non mi interessa che Aronofsky o i produttori pensino davvero che questo fosse il messaggio sotteso al testo biblico e che l’ira di Dio nei confronti dell’uomo fosse dunque dovuta allo scarso ambientalismo dei contemporanei di Noè, nel tentativo di comunicare allora ai pochi giusti del genere umano un messaggio simile a quello che il Signore sta oggi faticosamente tentando di farci capire riguardo al riscaldamento globale per bocca di Al Gore. A guardare il film con occhi appena appena smaliziati è evidente che il messaggio ambientalista è un riempitivo né più né meno come le scene truculente, le scene d’amore, le scene drammatiche e le scene magiche: è stato calcolato a tavolino cosa piace al pubblico e gli è stato dato in pasto come materia di riflessione e discussione.

Di conseguenza non mi interessa nemmeno la protesta degli ultracristiani per i quali il film puzza di blasfemia perché travisa il messaggio divino. Gli autori del film non sono irriguardosi; piuttosto li accuserei di essere dei fregnacciari. Si sono vantati di avere condotto le riprese su base filologica, evidente ad esempio nella composizione dell’arca che nell’immaginario di tutti noi è una barcona ma invece è effettivamente un parallelepipedo, un container ligneo come l’hanno ricostruita loro secondo le indicazioni che il Signore da a Noé: trecento cubiti di lunghezza, cinquanta cubiti di larghezza e trenta cubiti di altezza (Genesi 6, 9) ossia, dicono gli esperti, 130x22x13 metri. In compenso mostrano Iafet ancora bambino quando secondo il Vecchio Testamento, pur essendo il figlio minore, al momento del diluvio doveva avere più o meno cent’anni. Se anche vogliamo considerare che gli ebrei calcolavano gli anni in modo dieci volte più frettoloso del nostro (ma allora questo ridurrebbe il diluvio a temporale estivo di una mezz’oretta), non si spiega perché Cam e Iafet entrino nell’arca uno in preda ai tormenti ormonali dell’adolescenza e l’altro in piena innocenza infantile, ed entrambi single, quando Genesi 6, 18 dice esplicitamente che nell’arca entrano otto persone: Noè e sua moglie Jennifer Connelly, i tre figli e le loro tre mogli. Nell’arca di Noah rinveniamo invece sette persone: oltre al patriarca e alla patriarchessa ci sono Sem e la sua moglie immaginaria, Cam, Iafet e Tubalcaino. Sorpresa. Questi, primo fabbro, inventore del martello e secondo la tradizione anche della musica (l’iconografia lo mostra mentre, primo percussionista della storia, batte il ritmo sull’incudine), è il personaggio più riuscito del film: si proclama re del circondario e dev’essere anche l’inventore della tartare in quanto mangia animali crudi staccandone la testa in un boccone come l’Ozzy Osbourne dei tempi migliori. Noè lo fronteggia dichiarandosi figlio di Lamec, ed è giusto, dimenticando però che stando a Genesi 4, 22 fu figlio di Lamec pure Tubalcaino, il quale viene affrontato e sconfitto in un combattimento finale degno della scena della salamoia di Chi ha incastrato Roger Rabbit.

Noè passa invece per inventore dell’aborto selettivo: non se ne vanta, in verità, ma promette a Ila che farà vivere il frutto del suo grembo se sarà un maschietto e lo ucciderà se è una femminuccia, la quale potrebbe generare altri figli. Il cardine del film è proprio questo: Noah si sente incaricato da Dio del compito di sterminare gli uomini, la principale colpa dei quali non è che “ogni pensiero del loro cuore era di continuo al male” (Genesi 6, 5) ma di mangiare carne anziché nutrirsi di bacche. Ciò che nella Bibbia è trascendente viene tradotto in immanenza perché così deve essere, perché nella cultura di massa la religione è impronunciabile se non viene ridotta a spiritualità vagamente fru-fru così come il patto che lega l’uomo a Dio può essere comprensibile solo in termini di attivismo superficiale. Altrimenti il film non vende e le sale restano vuote. Ho come il sospetto che gli evidenti anacronismi – la gente si veste come nell’alto medioevo, a parte Noah che di tanto in tanto indossa una polo, mentre una foglia di alloro cangiante serve a Ila come test di gravidanza – potessero volutamente essere finalizzati a camuffare il travisamento del senso del testo sacro. Nella Bibbia Noè appare ancora oltre i quattro capitoli che raccontano la sua storia, in riferimenti del Nuovo Testamento che le danno profondità teologica e dottrinale, naturalmente del tutto assenti nel film. Inoltre Noah rispetta le dimensioni dell’arca ma tradisce il comandamento di Dio: secondo Noah “il Creatore” gli rivela espressamente che l’acqua separa il puro dall’impuro, salvando il primo e affogando il secondo, quando invece il Signore comanda a Noè di portare nell’arca sia gli animali puri sia quelli impuri (Genesi 7, 2), a significare che sulla terra la giustizia non è da una sola parte e che la purificazione, quando verrà, sarà oltremondana. Senza questa prospettiva la storia di Noè è decapitata come una pietanza di Tubalcaino e resta semplicemente la storia di Noah, ambientalista vegetariano pluriomicida che crede di essere sempre dalla parte del giusto e ignora come invece il patriarca era stato scelto da Dio perché era giusto per la sua generazione (Genesi 6, 9) ossia era giusto in relativo, non in assoluto. Noè era il meno peggio e per questo Dio volle salvarlo insieme a quanto di puro e impuro si trovava sulla terra.