venerdì 29 agosto 2014

Fra i candidati (un po' troppi) alle primarie PD per la Regione Emilia-Romagna, l'outsider è Roberto Balzani, che è stato sindaco di Forlì dopo avere vinto a sorpresa le primarie comunali ma che ha poi reso testimonianza di un'esperienza amministrativa sconfortante in un libro che autocertificava il fallimento del tentativo: Cinque anni di solitudine, edito da Il Mulino. All'uscita del libro, due anni fa, scrissi sul Foglio che la cosa aveva a che vedere non con Prodi e con D'Alema ma con Machiavelli e con Rousseau. Ecco qua.

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Roberto Balzani, sindaco di Forlì, soffre d’insonnia; trova difficoltà a concentrarsi, mangia disordinatamente e passa metà delle sue giornate a ripetersi che non deve impazzire. Questi sintomi preoccupanti – che lui stesso racconta in Cinque anni di solitudine: memorie inutili di un sindaco (Mulino) – sono iniziati dopo che aveva vinto per quarantaquattro voti le primarie comunali del Pd, sconfiggendo il sindaco uscente Nadia Masini e trovandosi di fronte alla necessità di impegnarsi in prima persona nell’esercizio politico. Era il dicembre 2008 e i forlivesi non sapevano di star scegliendo fra due modelli che nel giro di pochi anni si sarebbero trasformati in un’alternativa draconiana: da un lato un politico di lungo corso, la Masini, già parlamentare Pci-Pds e sottosegretario nei governi Prodi e D’Alema, capace di amministrare per esperienza e abitudine; dall’altro un professore universitario, uno storico della contemporaneità e studioso dei meccanismi della politica, capace di amministrare per radicate cognizioni teoriche.

Il destino ha voluto che il libro del sindaco di Forlì uscisse quest’autunno, quando ormai da un anno tutta Italia è abituata a considerare la soluzione tecnica dei problemi amministrativi come la strada maestra per sopperire al famoso vuoto della politica. Intanto Balzani continua a mangiare male e dormire peggio, senza darsi pace per il “Congresso di Vienna permanente” al quale è sottoposto nel suo ruolo di primo cittadino tramortito dal continuo “incremento della litigiosità” istituzionale. La sua insonnia certifica la trasformazione in incubo del sogno di Rousseau. Dando alle stampe il Contratto sociale questi scriveva: “Mi si domanda se sono principe o legislatore per scrivere di politica. Rispondo di no, ed è per questo che scrivo di politica. Se fossi principe o legislatore, non perderei tempo a dire quel che bisogna fare; lo farei, o tacerei”. La consultazione popolare ha dato a uno studioso la possibilità di fare ciò che riteneva si dovesse fare; lo sconforto che permea le pagine del libro di Balzani dimostra che, almeno a Forlì, l’esperimento è fallito.

Il parallelo con Rousseau non è peregrino in quanto più volte Balzani sottolinea la “impostazione illuminista” del suo progetto: riunire le componenti della città attorno a un tavolo su cui analizzare dati certi per trarne un’unanime decisione orientata al bene comune, ossia al massimo vantaggio per il maggior numero di persone. Poi, entrato in municipio, Balzani ha scoperto che tutte le parti in causa sono soggette a un “cupo egoismo” e che “le istituzioni mentono”. Si potrebbe ridire su uno studioso di politica che ha bisogno di entrare nell’agone a cinquant’anni per scoprire che gli uomini sono egoisti e mendaci, ma colpisce soprattutto la sua sorpresa di fronte al fatto che “tutti litigano e non sanno neppure perché”. Viene da immaginarsi il sindaco-studioso che prima cerca di spiegare ai litiganti i motivi per i quali dovrebbero andare d’accordo e poi si accascia sulla poltrona sconfitto dalla testardaggine dei fatti che, duecentocinquant’anni dopo Rousseau, ancora non si lasciano ridurre a teorie. Gli sarebbe forse convenuto rileggere un famoso aneddoto raccontato da Matteo Bandello. Dopo la pubblicazione di Dell’arte della guerra, a Machiavelli fu concesso l’onore di sostituire Giovanni dalle Bande Nere nello schieramento di tremila fanti; falliti tanti affannosi tentativi, lo scrittore dovette gettare la spugna e in un batter d’occhio l’esercito fu schierato dal solito e un po’ annoiato condottiero, a riprova che i teorici della politica sanno sempre perché ma non riescono a capire come mai.