Passata l'ondata di entusiasmo? Bene, ora potete concentrarvi su un aspetto negletto durante il fine settimana di celebrazioni arcobaleno, dalla sentenza della corte suprema degli Stati Uniti che ha sancito che il matrimonio è un diritto costituzionale, indipendente dal genere dei contraenti, al gay pride che a Milano ha fatto sfilare migliaia di cartelli con la scritta "Sì" su corso Buenos Aires. Non so se sia stato un caso la scelta della strada dello shopping compulsivo ma dozzinale, col palco proprio sotto il punto in cui le luminarie dello scorso Natale recavano la scritta lampeggiante "Esaudisci i tuoi desideri".
Alla base della campagna per i diritti lgbt vige lo stesso principio - "Esaudisci i tuoi desideri" - che in piccolo regola lo shopping su corso Buenos Aires e in grande il gorgo del capitalismo. Si tratta di un anelito neutro e vago benché insistente, che non prende in considerazione l'ipotesi che i desideri di un tizio possano contraddire i desideri di un altro ma che ci tiene a dare a entrambi l'impressione che i propri desideri siano diritti e valgano quindi come legge universale. Il capitalismo si regge sull'ideale dell'uniformità dei desideri individuali (a differenza del comunismo che si regge sull'uniformità dei desideri collettivi): ciascuno deve avere eguale diritto ad acquisire ciò che lo differenzia dagli altri, che sia lo sposare chi gli pare oppure lo shampoo utile esattamente al tipo di capelli che ha in testa o lo smartphone personalizzato oppure una lattina col proprio nome sulla confezione.
Questo spiega perché i più grandi festeggiamenti per la sentenza americana, presto trascolorata nella parata italiana, siano arrivati da aziende con fatturati iperbolici: la Coca Cola, Facebook, Google; in Italia, uno dei principali e sottili martellatori sui diritti lgbt è il giornalone borghese par excellence, il Corriere della Sera. Questo tuttavia spiega meno perché la sinistra, che un tempo avrebbe sfruttato lo scorso fine settimana per organizzare la rivoluzione proletaria in Grecia, si sia allineata così ciecamente a una battaglia che ha come lampante scopo precipuo la creazione e il lenimento di una clientela, uniformata nella convinzione di eguaglianza e unicità di ognuno dei suoi membri, nella pretesa di esclusività rispetto a chi non ne fa parte (un po' come negli anni '80 senza lo Swatch non eri "giusto") e nella persuasione che i diritti siano un genere di conforto disponibile all'acquisto su vasta scala.
Da Washington a corso Buenos Aires questo fine settimana è stato inscenato lo sghei pride, una manifestazione di massa rivolta a individualisti appartenenti alla borghesia media e medio-alta, disinvolti nell'utilizzo totalitario dei social network (tutti hanno colorato d'arcobaleno la propria immagine su Facebook grazie a un'applicazione prodotta apposta) e felici di correre incontro alle fauci spalancate di creatori professionali di clientele ottuse. I manifestanti dello sghei pride hanno a disposizione una certa somma di denaro che certo non li rende ricchi ma garantisce un margine di sicurezza e sono lieti di investirla nel foraggiare aziende che avrebbero appoggiato senza remore i colori di qualsiasi bandiera garantisse loro di raggiungere la clientela più vasta e desiderosa di sentirsi blandita, anche qualora al posto dell'arcobaleno ci fosse stata la svastica: il denaro non solo non puzza ma non ha nemmeno ideologia. Altro che #loveislove, la campagna doveva chiamarsi #loveismoney. In Grecia e altrove, intanto, i poveri non hanno tempo di essere gay.