sabato 11 luglio 2015

Stanotte è morto il cardinal Giacomo Biffi, uno degli ultimi italiani intelligenti, vescovo di Bologna per vent'anni, prima che scoccasse la ventitreesima ora. Dei tanti motivi per ricordarlo ne scelgo uno secondario: un pamphlet (L'Unità d'Italia, Cantagalli) in occasione delle celebrazioni per il centocinquantesimo del quale avevo parlato in questi termini su Tempi:


Il Risorgimento italiano non è finito nel 1861, con l’unificazione del Regno, né nel 1870, con la presa di Roma, né nel 1918, quando le trincee insegnarono al popolo a parlare quasi la stessa lingua, e nemmeno con l’istituzione della Repubblica corrente nel 1946. Il Risorgimento italiano è finito nel 1954, quando alcuni proprietari terrieri siciliani si videro recapitare dei vaglia di rimborso per i danni che erano stati causati ai possedimenti dei loro nonni dalle scorribande garibaldine del 1860: a quasi cent’anni di distanza dai fatti questi rimborsi irrisori e offensivi, poiché calcolati in base alle lire del secolo prima, diedero ai discendenti dei siciliani che videro passare i Mille l’idea tangibile della sperequazione fra intenzioni e risultati che caratterizza il Risorgimento. A uno sforzo immane che costò ideali e sangue ha fatto seguito un effetto sempre più ridimensionato rispetto alle ambizioni dei patrioti di ogni ordine e grado. Coloro che oggi festeggiano il centocinquantesimo anniversario dell’unificazione sembrano piuttosto essere i detentori di un’eredità inadeguata: sembrano sventolare esultanti un vaglia da lire centocinquanta.
Il cardinale Giacomo Biffi ha ben intuito questa sproporzione nell’agile volumetto L’unità d’Italia (Cantagalli). Le pagine-chiave del suo pamphlet sono dedicate alla “fine del primato” degli italiani che sembravano funzionare meglio quand’erano divisi: lo testimonia la vitalità del nostro Settecento nella musica, nell’arte, nell’architettura. Sarà un caso ma senza l’Italia una e indivisibile gli italiani erano molto più richiesti alle corti estere, dove riuscivano a incamerare e migliorare generi esistenti e a inventare dal nulla generi sempre nuovi, tornando entro i confini della Penisola e producendo nuove generazioni di musicisti, artisti, architetti italiani che nuovamente volavano da una corte all’altra, di qua e di là dalle Alpi, perpetuando questo circolo virtuoso. Sarà un caso ma il Risorgimento sembra avere ucciso la creatività italiana, sembra averla canalizzata in strettoie impreviste, impigrendo il genio nazionale nonostante si proponesse tutto il contrario. Il card. Biffi avanza l’esempio illuminante della nostra letteratura. In quarant’anni a ridosso del Risorgimento si colloca la produzione di Foscolo, Leopardi e Manzoni, ma dopo la letteratura italiana non raggiungerà mai più risultati paragonabili per qualità e densità. E i musicisti, gli artisti, gli architetti italiani – forse satollati dall’avere una nazione nella quale ostacolarsi e invidiarsi a vicenda su vasta scala – detteranno sempre meno la propria legge oltralpe.
Non si tratta ovviamente di un principio di causa-effetto: la coincidenza temporale può essere anche derivata da una contingenza storica; però via via che s’andava definendo l’intenzione di rendere l’Italia una nazione a sé stante, la speranza era etimologicamente quella di un ri-sorgimento, di una risurrezione, di un popolo che avrebbe rialzato la testa per tornare a occupare presso il consesso delle nazioni il ruolo primario che storicamente gli spettava. Oggi possiamo festeggiare quest’anniversario consapevoli che ciò non è accaduto.