lunedì 26 febbraio 2007

Adversus progressistas: imperite considerazioni teocon sugli effetti del pasolinismo

(mercoledì 19 aprile 2006, copyright Ore Piccole, anno I, numero 2: luglio-settembre 2006)

Com’è bella l’Italia! Sembra che il tempo non vi passi mai. Ad avere per le mani gli Scritti Corsari di Pier Paolo Pasolini (precisamente nell’edizione Garzanti del 1993), ci si accorge subito che dal triennio ’73-’75 non sembrano affatto trascorsi trent’anni e rotti. Allora come ora, c’era un referendum trasformato in una guerra di religione. C’era uno spot scandaloso che mobilitava gl’intelletti. C’era il Corriere della Sera che azzardava endorsement progressisti. C’era addirittura Marco Pannella. E più in generale c’era, recita la copertina stessa del volume, “un momento critico della vita italiana” e “un poeta [che] conduce una battaglia profetica contro l’involuzione conformista che cambia il volto del Paese”.
Forte della consapevolezza che la storia d’Italia, già da prima del 1861, è stata eterna storia di momenti critici e di poeti e di profeti, mi sono accinto a leggere la raccolta di scritti occasionali (usciti per lo più su Il Tempo e sul CorSera) secondo l’indicazione che Pasolini stesso sembra dare, ovvero come i grani di un unico rosario, in cui ogni articolo avrebbe presupposto o sottinteso l’altro, e che alla fine avrebbero tutti insieme costituito il romanzo dell’Italia di trent’anni fa, di oggi e di sempre.
Così, ho letto. Due considerazioni preliminari: innanzitutto ho letto ad aprile, sotto la duplice suggestione dei giorni elettorali e del progredire della Settimana Santa, e devo riconoscere che la tensione e le polemiche da un lato, i digiuni e le preghiere dall’altro hanno creato una cornice in cui idealmente Pasolini sorgeva a parlare direttamente di ciò che avevo davanti agli occhi, come se il mio diario lo stesse scrivendo lui. Di più, prima della settimana scorsa non avevo letto una sola riga di Pasolini, avendone quasi un rigetto istintivo: le poesie in generale le detesto, il friulano non lo capisco, le quarte di copertina dei suoi romanzi mi spingevano a riporli senza indugio sul primo scaffale che capitasse e, se in televisione trasmettevano un suo film, cambiavo canale mettendomi a cercare le evoluzioni delle procaci sacerdotesse delle chat erotiche (quelle stesse che stavano indovinando i risultati delle elezioni).
Non ero l’unico, d’altronde, a cambiare canale. Anni fa, la notturna trasmissione su Rete4 di Uccellacci e Uccellini, nonostante la nobilitante presenza di Totò, segnò lo zero assoluto dell’auditel: nemmeno uno spettatore, meno della rubrica Protestantesimo alle sei del mattino su Rai2. Peggio ancora, un mio conterraneo politically incorrect (la provincia di Bari è la culla dello scetticismo tagliente e rassegnato), capitato di fronte a una rivista che allo scorso novembre titolava “Trent’anni senza Pasolini”, commentò che a dire il vero gli pesavano di più sette mesi con Nichi Vendola. Quanto a me, anni fa avevo dovuto fidanzarmi con una tale pur di avere una scusa congrua per sottrarmi a un mio amico che soleva propinare universalmente la reiterata visione de La Ricotta in vhs.
Certo che avrei dovuto vergognarmi di questa carenza incolmabile, che mi portava a cambiare discorso ogni volta che - negli ambienti intelligenti - capitava l’argomento e, di fronte alle incalzanti domande che ardimentose filosofe mi ponevano nei rari intervalli in cui non erano impegnate a raccoglier firme per qualcosa, mi vedevo costretto a schermirmi svicolando, e ad assicurarle che non si trattava di pregiudizio nei confronti degli iscritti al PCI, ovvero d’idiosincrasia verso i frequentatori del lido di Ostia, o d’invidia per gli scrittori veri che giocavano a calcio meglio e più spesso di me.
Così, dunque, ho letto gli Scritti Corsari con lo stesso atteggiamento del cagnolino di fronte al grammofono, forte dell’assoluta ignoranza che, elegantemente riproposta quale completa assenza di condizionamenti culturali, di fronte a un limitato scorcio aiuta a penetrare mirabilmente il mistero del tutto. Non ho penetrato un accidente. Gli articoli che, uno via l’altro, dovevano gettare luce nuova sulla consuetudine della politica, della religione, del referendum e di Pannella hanno emanato fetore di stantio. Allora mi son detto: è perché sono prevenuto, ho torto e voglio aver ragione; perciò ho fatto voto di arrovellarmi, ho tentato di calarmi nello Zeitgeist; ho rispolverato il certificato di laurea per ricordarmi che la formazione umanistica m’impone il dovere della coscienza critica, della consapevolezza e dell’indignazione. Nonostante l’impegno profuso, niente. È stato come visitare la tomba della bisnonna. Che le racconti? Che ti racconta?
A costo d’incorrere nel perenne disprezzo delle mie colleghe dottorande (sono già sulla buona strada, d’altra parte, per cattiva condotta filosofica), oserò dire che i contenuti di Pasolini mi son parsi sideralmente distanti da me, da oggi, per via della spasmodica ricerca di un nemico. Il nemico è, ça va sans dire, il fascismo; il fascismo è l’insieme di fascisti, antifascisti, capelloni, ecclesiastici, qualche giornalista, molti pubblicitari, Nixon e i suoi epigoni, San Paolo, Aldo Moro, Fanfani, Rumor, Gronchi, Segni e, sebbene di straforo, Saragat e La Malfa. Natalia Ginzburg lo è per proprietà transitiva: se De Marsico è fascista, la Ginzburg è demarsichiana, ergo. Chi è contrario al divorzio ha buoni margini di fascistizzazione, così come chi è favorevole all’aborto. Moravia e Ferrara père, accusato quest’ultimo di essere rozzo, rischiano più d’una volta di finire nel calderone indistinto.
L’antifascismo di Pasolini è polidirezionale, dunque, ma assume una più spiccata baldanza quand’è diretto contro il fascismo clericale (o clericofascismo), secondo la sua più frequente aggettivazione. “La Chiesa”, scrive Pasolini, “ha insomma fatto un patto col diavolo, cioè con lo Stato borghese”, e spiega: “il Concordato non è stato un sacrilegio negli anni trenta, ma lo è oggi”, e ancora: “l’accettazione della civiltà borghese capitalistica è un fatto definitivo, il cui cinismo non è solo una macchia, l’ennesima macchia nella storia della Chiesa, ma un errore storico che la Chiesa pagherà probabilmente con il suo declino”.
Ora, a detta di parenti e amici io non capisco niente, ma ho un’idea ben precisa (una sola, mi basta e mi avanza): lo scrittore deve pensare a scrivere, il poeta a poetare e il cineasta a cineastare, avendo delle idee politiche (come tutti) ma evitando di esporle, mal che vada limitandosi alla politichetta (voto per Tizio, vota per Caio) ma senza andarsi a infilare nelle grandi teorie, nella prosopopea faziosa, nella rivendicazione di un’inammissibile verginità. Chiesero a Joyce negli anni venti: “Cos’ha fatto lei negli ultimi tempi?” “Ho scritto l’Ulisse.” “Intendevamo dire: cos’ha fatto in guerra?” “Ah sì, mi hanno detto che c’è stata una guerra in Europa”. Lo scrittore dev’essere il dio che limandosi le unghie guarda il mondo che ha creato e non, poniamo caso, il manifestante in kefiah e bandiera arcobaleno. In tal caso, si corre il rischio di ripetere cose già dette da altri o, peggio ancora, che altri ripetano cose dette dallo scrittore, imbarbarendole, insozzandole, magari sbagliando i congiuntivi e piegandole al proprio fine che sicuramente non è quello, nobilissimo fra tutti, di scovare un bell’avverbio. La cosa più umiliante per l’artista stesso è - non so dirlo generalizzando, quindi faccio un esempio pratico: il giorno in cui è uscito, sono andato a vedere Il Caimano in un gruppo di sette persone. Io ero andato a vedere un film di Nanni Moretti. Gli altri sei a vedere un film contro Berlusconi. Io l’ho trovato molto gradevole. Gli altri sei l’hanno trovato troppo morbido. Guai se si va a finire che il pubblico non accoglie un’opera come un bello e inutile regalo, ma si mette a sindacarne i contenuti come se fosse la qualità del servizio in una pizzeria - o, come direbbe più finemente Henry James, a confondere i meriti di un artista coi meriti della sua opera.
Se invece lo scrittore intende politicheggiare, o peggio ancora filosofeggiare, deve assumersi le proprie responsabilità e, in quanto maître à penser, è bello e giusto fargli ricadere addosso le colpe dei suoi figli, è divertente scomodarlo dopo morto per dimostrare che i tempi gli hanno dato torto. Butta male per Pasolini quando il lettore di oggi, non necessariamente sanfedista come me, si trova di fronte all’esordio: “Ho visto ieri sera (Venerdì Santo?) un mucchietto di gente davanti al Colosseo (…). Ho creduto in un primo momento che si trattasse del gesto di qualche disoccupato arrampicato in cima al Colosseo. No. Era una funzione religiosa a cui doveva intervenire Paolo VI. C’erano quattro gatti”. Butta malissimo se il medesimo lettore, com’è capitato a me, si trova a leggere il tutto proprio al Venerdì Santo, con il televisore che diffonde muto l’immagine del Papa prostrato davanti all’altare, con il sottofondo dell’oceanica processione di paese che accompagna il Crocifisso al sepolcro, tre ore prima che al Colosseo stesso una folla immensa segua la Via Crucis stazione dopo stazione, il tutto in diretta in prima serata sulla prima rete della tv di Stato.
Tanto più che, nei quattro gatti al Colosseo, Pasolini scorge la profezia della vittoria al referendum del ’74 sul divorzio. Trent’anni fa, riteneva di aver assistito al definitivo distacco della Chiesa dalla gente e dal presente: “Paolo VI ha ammesso infatti esplicitamente che la Chiesa è stata superata dal mondo; che il ruolo della Chiesa è divenuto di colpo incerto e superfluo; (…) che i problemi sociali vengono risolti all’interno di una società in cui la Chiesa non ha più prestigio”. Non è vissuto abbastanza a lungo, Pasolini, da poter leggere il testamento di Paolo VI (“Sul mondo: non si creda di giovargli assumendone i pensieri, i costumi, i gusti, ma studiandolo, amandolo, servendolo”); né da assistere ai suoi eredi in intellectu che per due mesi hanno vaticinato il trionfo del laicismo e dell’anticlericalismo nel referendum, alla resa dei conti, peggio riuscito della storia: una perdita di soldi, una perdita di tempo tale che, se io mi fossi anche timidamente azzardato a sostenerlo, per la vergogna mi sarei eternamente nascosto non aspettando altro che di essere sollevato da questa vita.
Quando uno scrittore alza l’indice per giudicare, invece di farlo scorrere su un vocabolario, è responsabile di tutti coloro i quali alzano l’indice per imitarlo. Pasolini è responsabile di tutti i saputi che vedono nell’ottima salute della Chiesa un rigurgito di populismo, una riedizione delle adunate (clerico)fasciste, un effetto di una politica esclusivamente mediatica - lo è quando rimprovera alla Chiesa, tre decenni or sono, “l’assenza totale di ogni forma di Carità” e “l’assenza totale di ogni forma di Cultura”. Avesse avuto ottantaquattro anni, oggi, che faccia avrebbe fatto non dico dopo Giovanni Paolo II o Madre Teresa di Calcutta, ma anche soltanto dopo l’elezione al Soglio del più sensazionale teologo sulla faccia della terra - a ben guardare, l’unico Capo di Stato di solida formazione culturale, insomma l’unico re filosofo al mondo?
Probabilmente avrebbe fatto finta di niente e avrebbe seguitato indefesso a darsi ragione da solo. Pasolini si arroga il diritto esclusivo all’interpretazione della parola di Dio, additando una sorprendente new entry nella lista dei sostenitori della non ingerenza ecclesiastica sullo Stato; ai fedeli, ai biblisti, al Papa stesso Pasolini spiega: “Cristo non poteva che voler dire: distingui nettamente fra Cesare e Dio”. Aveva ragione? Aveva torto? Non ne ho idea; è che trent’anni dopo non so se il riso o la pietà prevalga di fronte alla processione di laicisti che si affidano a un’occasionale esegesi biblica per dimostrare inoppugnabilmente che gli esegeti di professione sono in malafede, o s’ingannano; di fronte ai saltimbanchi che spiegano in quattro e quattr’otto che Dio non può volere ciò che vuole la Chiesa, ma che - se interrogati - rifiutano di fornire il numero telefonico col quale consultano direttamente il Padreterno.
Ho letto Pasolini nei giorni in cui i miei amici rosapugnoni non rispondevano agli sms coi quali li interrogavo sul loro risibile risultato elettorale (qualche deputato, nessun senatore), a fronte dell’impegno di rovesciare l’Italia clericale come un calzino, di farsi interpreti di una voglia di laicismo diffusa in ogni strato sociale, tanto più fra i giovani. A uno ho fatto notare che avevano ottenuto meno elettori under 25 dei partecipanti italiani alla Giornata Mondiale della Gioventù di Colonia: come la mettiamo? La risposta è stata scioccante. Sosteneva, nel rapido volgere di un messaggino, che i tempi non erano ancora maturi, che non ci si era affrancati dal dominio televisivo col quale la chiesa esercita il controllo sociale, soprattutto che i ragazzi non erano diventati abbastanza intelligenti.
M’ha fatto venire in mente il più celebre, credo, passo degli Scritti Corsari, dal quale il suo messaggino pareva preso di peso: “il PCI è un paese pulito in un paese sporco, un paese onesto in un paese disonesto, un paese intelligente in un paese idiota, un paese colto in un paese ignorante, un paese umanistico in un paese consumistico”. Su Il Foglio Quotidiano del 14 marzo, Ruggero Guarini ha grossomodo sostenuto che, trent’anni dopo, questo passo fosse vergato a lettere d’oro nel cuore di ogni left-winger, con il solo aggiornamento del nome del partito. Quando l’ho letto ho pensato: “Ma va’, è roba vecchia”. Poi ho sentito un candidato premier definire gli avversari “il partito di chi vuole parcheggiare in seconda fila”; ho letto, sul Manifesto del 10 aprile, l’orrore di Rossana Rossanda di fronte all’eventualità di trovarsi a dividere lo stesso tram con un cinquanta per cento circa di elettori dissenzienti; ho ricordato la minaccia, giocosa ma minacciosa, di Umberto Eco di fuggire all’estero in caso di sconfitta elettorale.La stessa prospettiva era stata paventata dagli intellettuali americani, che due anni fa sostenevano Kerry, in caso di vittoria di Bush: non sarebbe restato loro che prender l’aereo e andare a vivere a Londra, per dimostrare che loro e non altri avevano ragione in un paese che, a maggioranza, aveva torto. Tom Wolfe, sempre impeccabile nel bon ton, ha reagito pregandoli di avvisarlo della data della partenza, così che si sarebbe presentato volentieri in aeroporto per fare ciao con la manina. Ma si sbagliava, come mi sbaglio io. Dietro le mie spalle sento infatti avvicinarsi l’archetipo della collega dottoranda, d’incrollabile formazione pasoliniana anticlericale antifascista, la quale sbircia sullo schermo del portatile, scuote il capo e mi spiega che lei è pulita e io sono sporco, lei è onesta e io sono disonesto, lei è intelligente e io sono idiota, lei è colta e io sono ignorante, lei è umanista e io sono consumista. Pazienza: tutte cose che sapevo già, anche senza leggere Pasolini. Scrisse Oscar Wilde questo dialoghetto: “Lei non penserà di certo, Lord Illingworth, che le persone prive di istruzione debbano avere diritto di voto.” - “Penso invece che dovrebbero averlo solo loro”.

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