lunedì 26 febbraio 2007

Sugar & co. (Quando gli uomini non erano metrosexual)


(mercoledì 2 agosto 2006, copyright Ore Piccole)


La recensione è un venticello. Passa e va con rapidità, e si pretende che sia il più possibile breve, puntuale, rapida e indolore; la si esige per i libri appena usciti, e al contrario la si ritiene superflua e, in qualche modo, superata per i libri dell’anno precedente. Che senso ha, ci si chiede, recensire un libro che tutti hanno già letto o, peggio ancora, di cui tutti hanno già sentito parlare? La presentazione, invece, può essere fuoco fatuo, fumus e scoreggia. C’era un libro meraviglioso di Raffaele Nigro, Viaggio a Salamanca, che conteneva un racconto meraviglioso su un critico che incontra nell’oltremondo il meraviglioso Schnitzler, che adora, e sulla delusione che inevitabilmente sgorga a fiotti dall’incontro stesso. Oggi come oggi, a guardarci bene in faccia, capita ben di rado che incontrando un autore, spingendosi fino a chissà dove per sentirlo parlare (magari addirittura in una Feltrinelli), ritrovandosi in dieci o undici per udire la cadenza della sua viva voce, si torni a casa con la convinzione che ne sia valsa la pena. Sarà che invecchio, ma più passa il tempo più mi convinco che alle presentazioni farei meglio a non andare affatto - soprattutto se l’autore è giovane e italiano, e anche nel caso estremo in cui a parlare sono io. Anni e anni di autori inseguiti con l’illusione di sentirli come libri stampati mi hanno rivelato che, tranne rare e felici eccezioni, dalla mezz’oretta in libreria si ereditano tre cose: la convinzione che l’autore non ha nulla da dire se non ritrite battutacce già sentite in tv o predigerite opinioni variopinte; il rimpianto di aver comprato il libro, di averlo letto e talvolta di averlo gradito; la certezza che il pubblico è sempre piuttosto stupido e io non di meno.
La recensione, dunque, è un venticello. Ha senso sprecare altre parole per un romanzo uscito quattro anni fa in Iscozia e tre anni fa in Italia? Un romanzo tradotto in ventidue paesi, di cui stanno per compiere la versione cinematografica (speriamo con Nicole Kidman: Nicole Kidman ci vuole sempre) e la cui edizione tascabile, nel giro di un anno, inizia a diventare difficile a trovarsi? Stupidaggini. Quando vado in giro per librerie con le mie amiche, sicuramente non le trattengo dal riporre un volume ancora contrassegnato dal prezzo in lire, né - se mi chiedono un giudizio - non le aggredisco rifiutandomi perché sono passati più di sei mesi dall’uscita. Quando, spero abbastanza in là, uscirò dall’eremo gravinese e ricomincerò ad andare in giro per librerie con tutte le mie amiche in massa, a ciascuna di loro imporrò l’acquisto, per soli dodici euro, de Il Petalo Cremisi e il Bianco di Michael Faber (Einaudi 2005) e le subisserò di dettagli non richiesti, incurante dell’evenienza che ne abbiano già sentito parlare in abbondanza.
La recensione è un venticello: l’avrete capito, visto che è la terza volta che lo ripeto. Se sono in gran forma, riesco a buttare giù diecimila caratteri in tre quarti d’ora. Il romanzo, invece, è un iceberg, e perché ne emerga una puntina c’è bisogno del decuplo della fatica. Tutte le mie amiche sono abbastanza sveglie da rendersi conto che, per un romanzo di circa mille pagine, ne sono probabilmente state scritte, cesellate e buttate via altre novemila. Posto che Michael Faber non soffra di artrosi (ciò che invece mi affligge); posto che non sia meteopatico, che non faccia mai file in posta o in banca e che sua moglie Eva, cui dedica il volumone, l’abbia amorevolmente assistito come solo Maria Vergine può fare, le mie amiche possono lanciarsi nelle più disparate ipotesi su quanto tempo l’autore abbia perso (pardon, impegnato) nella costruzione del romanzo - quasi - perfetto.
“Un paio d’anni”, postula Robi che ha senso pratico. “Non più del necessario”, dice Aislinn che è inappuntabile. “Tre mesi”, spera Annie che erediterà il regno dei cieli. “Tre secoli”, rilancia Snupi che ama esagerare. “Meno di quanto ci ho messo io a leggerlo” lamenta Vicky che se no non è contenta. “Nulla in confronto all’eternità”, correggerebbe Lu se non avesse fatto voto di clausura.
Fatto sta che per scrivere un romanzo come quelli di una volta Michael Faber ci ha messo vent’anni: dieci per la sola stesura, a cui vanno aggiunti altri dieci di ricerche per conferire verosimiglianza storica all’ambientazione vittoriana (dalla fine del 1874 all’inizio del 1876). Per verosimiglianza storica non intendo ciò che perfino io sarei in grado di scoprire aprendo un qualsiasi atlante (nel 1874 tornano al governo i tory; nel 1875 muore l’imperatore della Cina, T’ung-Chih, e gli succede Kuang-Hsu; nel 1876 viene fondato il CorSera) ma una cura del dettaglio che rasenta il - e sfora nel - maniacale.
Nei lunghi anni di stesura, nella settimana necessaria per leggerlo a buon ritmo, nello scandito succedersi di tre parti, trentacinque capitoli e novecentoottantun pagine, si crea un’indissolubile sinergia fra lo scrittore e il lettore; il primo si prende cura di quest’ultimo (sin dalla prima parola: “Attento”), gli parla costantemente, lo guida per le strade di Londra, si mimetizza negli anfratti bui e negli specchi lucenti, non manca di rimbrottarlo e, al momento della necessaria separazione, lo abbandona non senza rimpianti (“Ma adesso devo proprio andare.”). Il lettore, dal canto suo, ne ricava un romanzo che è una visione prolungata, dettagliata, coerente; la sensazione di essere stato condotto per mano dove non avrebbe immaginato e di aver visto cose che non avrebbe sognato; il rimpianto che il libro sia finito, il rimorso di non averlo letto con abbastanza attenzione, la speranza di tornare a incontrare tutti i personaggi chissà come e chissà dove, la rassegnazione alla compagnia di parenti, amici e conoscenti in carne ed ossa (il lettore è un po’ come il feticista che, diceva quello, desidera un piede ma deve accontentarsi di un corpo intero).
Per i pochi che non lo sapessero, è la storia di una prostituta dal nome zuccherino (Sugar, appunto) che ha corpo e cervello sufficienti a tentare la scalata al bel mondo e coraggio sufficiente a prendere in considerazione l’ipotesi del fallimento. È la storia di un fumoso perdigiorno (William Rackham) che in cerca di piaceri sempre meno raffinati s’imbatte in Sugar, se ne innamora e per mantenerla prende le redini dell’azienda paterna (produce saponi, Dio solo sa quanto l’Inghilterra ne necessiti). A questo punto insorgerebbero le amiche: “Novecento pagine per parlare di un capitalista che va con una puttana? E vorresti propinarcele proprio ai tempi delle belle porcelle, dei sofà dei produttori, delle intercettazioni selvagge?”. Macché. Se non fossero necessari alla trama, di Sugar e Rackham si potrebbe anche fare a meno. Il Petalo Cremisi e il Bianco è la storia di Agnes, moglie di Rackham, che parla con gli angeli e aspetta la salute in forma di morte salvifica; di Henry Rackham, fratello, che non si crede santo perché tormentato dalla carne; di Emmeline Fox, che per aver forza di aiutare il prossimo ricaccia indietro la tisi; di Bodley e Ashwell (Ashley e Bodwell?), sempre troppo ubriachi per riuscire a comporre un compiuto sistema anti-sistematico; di Micia, la gatta che poi viene scoperta essere un gatto; di Sophie, che crede di aver avuto un solo compleanno in sei anni; di Cheesman, il caronte-cocchiere depositario di tutti i segreti di famiglia; del colonnello Leek, entusiasta dei segni della prossima fine del mondo; di… Continuo?
Non continuo. Era per rendere l’idea di come - una volta che i soliti intelligentoni hanno certificato la morte del romanzo per i motivi più vari, dall’11 settembre al forno a microonde - bastino ancora silenzio e metodo (Faber, apprendo dalla quarta di copertina, vive isolato in una stazione ferroviaria chiusa) per riuscire a comporre un romanzaccione dal quale il lettore emerge con la sensazione di avere avuto a che fare con personaggi troppo ben definiti per non essere reali. Perché questo accada, il capolavoro dev’essere nel dettaglio. I dieci anni di ricerche, spesso e volentieri dimenticati da chi scrive romanzi storici, hanno consentito a Michael Faber di accumulare una serie di nozioni quotidiane che ha spalmato lungo l’arco di tutto il racconto, rendendo a ogni classe sociale le sue usanze, le sue manie, i suoi vizi, i suoi odori - quasi meglio di uno che si fosse trovato effettivamente a passeggiare per Silver Street o Notting Hill centotrent’anni fa. Il procedimento è stato questo: le cose si sono trasformate in parole (romanzi vittoriani, diari vittoriani, ricettari vittoriani, sussidiari vittoriani, giornali vittoriani, breviari vittoriani e così via); Michael Faber ha letto le parole, ha visto le cose, le ha descritte in parole talmente bene che, lette dal lettore, tornano a essere viste come cose presenti e vive (gli stronzi di cavallo, i guanti di capretto, valige, pentole, bambole, tutto).
Ora, a differenza dell’accademico, al narratore che si proponga di affrontare il corso della Storia non è mai concesso il beneficio d’inventare qualcosa, per il semplice motivo che - mentre all’accademico ognuno presta fiducia perché il suo lavoro presuppone un corso di studi che nessuno mai, sano di mente, sognerebbe di compiere per svergognarlo - il narratore è vittima dello scetticismo generale, peraltro ben a ragione perché sconfina in un campo che non è il proprio. La critica più facile che gli si possa muovere è quella che lo attende al varco col cronometro in mano, non solo per rimproverargli sempre di aver impiegato troppo poco tempo nella composizione (fossero anche dieci e vent’anni: lo studio non è mai sufficiente e si dovrebbe continuare a limare in eterno), ma anche perché si sa che l’anacronismo è l’errore più diffuso. Pensate ai film, che dovrebbero essere sottoposti a controlli più accurati dei romanzi, se non altro per il maggior numero di persone che vi collaborano: corrono il rischio, ogni volta, di far indossare un Rolex al centurione o di pubblicizzare uno show di gladiatori mediante un ciclostilato dall’impaginazione veterocomunista.
Tuttavia, dall’altro versante, la critica è pronta a sparare a zero su chi si attiene esclusivamente alla ricerca storica e non consente margini ai voli di fantasia. “Troppa accademia”, dicono, “non è un romanzo ma un saggio coi dialoghi”. Va bene Manzoni, va bene la lettera a Fauriel (“Faccio ciò che posso per penetrare nello spirito del tempo che devo descrivere, per viverci… Quanto all’intreccio, credo che il modo migliore di non fare come gli altri sia di sforzarsi di considerare nella realtà la maniera d’agire degli uomini e di considerarla soprattutto in ciò che ha di opposto allo spirito romanzesco.” - non cito a memoria, copio dal manuale del liceo); ma - insistono - “il mercato, il pubblico, la fruizione!”. I critici, spesso, dimenticano di usare i verbi.
(Io non capisco la gente. Si mette in coda sull’A1, si sfracella sull’A14, pernotta sulla Salerno-Reggio Calabria per andare a sciogliersi e rosolarsi in compagnia di persone che già frequenta quotidianamente o che se non frequenta ci sarà pure un motivo. Discorso a parte per gli esaltati che d’estate hanno l’esplicito intento di rimorchiare, tralasciando che d’estate rimorchiano tutti, che tutte si fanno rimorchiare e che l’unico artifizio per sconfiggere la noia dell’altro è riuscire a incunearsi fra le pieghe degli autunni piovosi, dei mesti inverni, dei sollievi primaverili. D’estate l’amore è sempre sudato; d’estate l’evasione è troppo nazionalpopolare. Io non capisco la gente che sotto questo sole non si barrica in casa a leggere, pregare e meditare, evitando di rivolgere la parola anche ai parenti stretti, per poi risorgere a settembre più forte e più superba che pria.)Il lettore è fortunato, perché Michael Faber gioca scoperto e ammette che in tutto il suo romanzo ha detto qualche bugia, ma solo una, due tutt’al più. Bene? Malissimo. Dicendo così, l’autore vi sta coglionando; è il solito cretese che si lamenta perché tutti i cretesi sono bugiardi. Per scrivere un bel romanzo storico è infatti necessaria, oltre a un talento fenomenale, un’inveterata abitudine a spacciare il vero per falso e viceversa. Suppongo che a Michael Faber vi riesca tanto facilmente quanto sono certo che vi riuscisse Anthony Burgess, il mirabile grafomane, il quale sosteneva di aver mentito in sole tre circostanze: mentre scriveva, mentre parlava, mentre dormiva. Da ciò una mia amica trasse la conferma del monopolio che le donne esercitano sulla sincerità dei loro mariti, perché agli uomini più di ogni altra cosa piace mangiare e fare l’amore: forse per questo Michael Faber dedica il suo romanzaccione alla moglie Eva, che porta il nome dello stampìno di tutte.

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