martedì 27 novembre 2007

L'esegeta sempre, costantemente incazzato

Buongiorno Giobbe, amico mio.
(Voltaire)

Evviva Gioele Dix! Perché mi ha salvato dall’ennesimo sabato sera trascorso a guardare impotente l’Inter che sconfigge avversari inadeguati come l’Atalanta (che palle, e poi dicono che alla fine il bene vince sempre…). Il bello dell’abbonamento a Sky, infatti, è che uno lo fa pensando di ammazzarsi di partite di calcio, poi va a finire che si annoia e cambia canale in continuazione; così gli capita di scoprire che su Canal Jimmy, invece della consueta marea di scemenze, sta andando in onda un’estrema difesa del patto fra uomo e Dio. E pure divertente.


La Bibbia ha (quasi) sempre ragione è il one man show con cui Gioele Dix (che quand’ero bambino faceva fortuna col personaggio dell’automobilista sempre, costantemente incazzato; e che qualche venerdì fa mi è capitato di sbirciare in Zelig nel personaggio dell’automobilista nuovamente, costantemente incazzato) si libera della maschera che il tempo e il pubblico gli hanno cucito addosso (l’imitazione di Alberto Tomba o di Fabrizio Ravanelli ai tempi di Mai Dire Gol) e dà briglia sciolta alla propria capacità di comico intelligente, colto, profondo, nella miglior tradizione (soprattutto ebraica) degli stand-up comedians.

“In principio”, inizia citando Genesi 1,1 – e lo fa pronunziandolo come un’unica parola, così come l’ebraico Bereshith, a sé stante e avulsa dal resto del testo biblico, la parola che segna l’inizio del tempo ed è quindi parola creatrice, unica, irripetibile – “In principio”, inizia Gioele Dix e il pubblico si aspetta, se non lo conosce, la solita parodia ritrita della Bibbia, della fede, della religione; una spruzzata di anticlericalismo, magari. Ma subito Gioele Dix spiazza, e inizia il commento alla Creazione spiegando che Dio gli è simpatico perché un po’ gli somiglia (ed è una cosa seria, poiché c’è scritto lì: “facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza”). Se non che il pubblico non se ne accorge, parte l’applauso facile, si ride sguaiatamente, non si suppone nemmeno che in questa somiglianza originaria risieda il senso di due ore di spettacolo. E invece.

La parte su Giacobbe, ad esempio, è teatro immortale. Lo è dal versante comico, con Giacobbe che vede Rachele, se ne innamora e subito rimuove un gigantesco masso dalla bocca di un pozzo, “così, per fare il brillante con la cuginetta gnocca”. Dal versante umano, con Giacobbe costretto a scappare da Labano, con impermeabile e valige, che dorme scomodo come un attore in tournée con la pizza sullo stomaco, con un sasso come cuscino, ma in tutto ciò che cosa sogna? Una scala dalla quale salgono e scendono gli angeli, e lassù in cima il Signore in persona, luminoso, consolatore, fermo immobile e a portata di mano. Dal versante satirico, infine, quando lo show che il pubblico s’immagina rivolto contro la Bibbia all’improvviso si rivolta e si ritorce contro il pubblico stesso, portandolo a scegliere fra Giacobbe che attende sette anni più altri sette per avere in sposa Rachele e i giorni in cui dopo due ore del primo appuntamento, si chiede preoccupati a una ragazza: “Ti ho offerto la cena, perché non me la dai?”.

La dirompenza di Gioele Dix risiede nell’assoluta mancanza di moralismo e ipocrisia; presenta una Bibbia per uomini che vivono, mangiano, scopano, soffrono e inevitabilmente prima o poi contravvengono ai comandamenti. Il paradosso, nel quale risiede la grandezza della rivelazione giudaico-cristiana, è che non per questo la Bibbia è distante dagli uomini che più o meno volutamente si allontanano dai suoi precetti. Anzi. L’ultimo episodio, la lettura dal Qoelet, fa accapponare la pelle, travolge ogni confine prestabilito fra comicità, sacra rappresentazione, satira ed esegesi.

“Parola di Salomone, figlio di David, re di Gerusalemme”, ricomincia – e il pubblico tace assorto, non sa più se sia il caso di ridere come preventivava a inizio spettacolo. “Vanità delle vanità”, ripete, “vanità delle vanità, tutto è vanità”. Racconta la storia del re potente, longevo, sapiente, pacifico, ricchissimo, mangione, amante del gentil sesso (settecento mogli e trecento amanti – frèchete!, direbbero a Pescara); che dopo quarant’anni di gloria e bagordi si chiede “quale utilità ricavi l’uomo da tutto l’affanno per cui fatica sotto il sole”. E racconta, al contempo, il peso vuoto che ogni uomo si porta dentro, sia re o attore comico, la forza gravitazionale diretta verso il cielo che rende insufficiente il benché piacevole accumulo di beni materiali; perché insomma – e qui si chiude il cerchio con la Creazione – tutti quanti somigliamo a Dio, anche gli atei.

Grandioso, Gioele Dix prosegue e rincara. Si scopre incontestabilmente che la risata, la satira, l’incazzatura dell’esegeta non sono rivolte contro la Bibbia, ma contro chi se l’è dimenticata. Alla fine, sopraffatto da tanta incontestabile verità, il pubblico esita per un poco, lì per lì quasi non applaude: l’attimo di silenzio è la testimonianza che il pubblico è smarrito, che l’attore ha vinto la sua battaglia. Evviva Gioele Dix!

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