Ma tu come t’antitoli?
(Carlo Verdone, Viaggi di Nozze)
(Carlo Verdone, Viaggi di Nozze)
Una considerazione spesso sfuggita al mercato editoriale è che il titolo è l’unica parte di un libro che venga letta da tutti. Il paradosso estremo è anzi che uno sa di non aver letto un libro solo se ne conosce il titolo, e quindi di conseguenza tutti i libri che non abbiamo letto sono libri dei quali abbiamo letto solo i titoli, e che senza leggere nemmeno il titolo – tecnicamente – non possiamo dire di non aver letto questo o quel libro. Come faccio io a sapere, nell’arsura meridiana di Gravina, di non aver letto un libro di cui non conosco il nome, se non sapendone il nome non posso nemmeno conoscerne l’esistenza? È tutta la mattina che vado avanti con questo giochino maieutico in cui torturo mia madre: “Da cosa distingui i libri che hai letto rispetto a quelli che non hai letto?” “Elementare, o Socrate: non ho mai letto i libri che non ho letto.” “Quindi un libro che non hai letto è quello di cui non hai mai letto nulla?” “Esattamente, o Socrate, altrimenti l’avrei letto, tutto o in parte.” “Mi dici il titolo di un libro che non hai mai letto?” “Il Nome della Rosa, e non ho intenzione.” “Ma se sai come si chiama vuol dire che almeno il titolo del libro l’hai letto, quindi in parte hai letto il libro.” “Ih, è vero, o Socrate.”
Quindi, a ben guardare, se sappiamo di non aver letto un libro vuol dire che un po’ l’abbiamo letto. Ed è un bel guaio: significa che la lettura è un’arte che procede per levare, e che dalla tabula rasa dell’ignoranza dell’innocenza e della felicità complete (purtroppo irrimediabilmente perdute nel giorno in cui la maestra ci mette in mano la matita e ci costringe a vergare insulse asticelle diritte coricate o diagonali) sottraiamo qualcosa perfino leggendo di sfuggita le parole scritte sulla costa di un libro che sporge colpevolmente da uno scaffale.
Leggendo un titolo, si ha la stessa reazione che Proust aveva quando, da bambino, trascorreva intere notti insonni a consultare l’orario ferroviario (infanzia infelice, presumo) e a immaginare se un paese che si chiama Balbec sia meglio di uno che si chiama Combray: si inizia non tanto a fantasticare quanto a cucire attorno alle parole un abito che, pur prendendo spunto e ispirazione dalla traccia fissa del titolo, risponde ai nostri gusti, riproduce il modo in cui noi scriveremmo il libro di cui conosciamo solamente le generalità – il modo ad esempio in cui mia madre scriverebbe Il Nome della Rosa o io scriverei Tre Metri sopra il Cielo, plausibilmente meglio dell’originale. Accade grossomodo l’inconveniente che avevo sentito riferire da una Tedesca la quale, rendendo onore alla conclamata brillantezza dei suoi connazionali, arrivando dal Brennero aveva visto l’indicazione autostradale con la scritta A22 MODENA che sovrastava enorme quella A1 MILANO-ROMA, e ne aveva dedotto che Modena fosse grande quanto Milano e Roma messe insieme.
Il problema sorge quando
Il titolo è una promessa; se un autore è veramente grande, allora riesce a mantenerla. Accade piuttosto di rado che un libro sia all’altezza del suo titolo, però accade. Fra i fenomeni che abitualmente nobilitano con dell’alta letteratura titoli irraggiungibili, vanno segnalati André Gide (I sotterranei del Vaticano, La porta stretta, L’immoralista), Giorgio Manganelli (Hilarotragoedia, La palude definitiva, Lunario dell’orfano sannita), Michele Mari (Euridice aveva un cane, Io venìa pien d’angoscia a rimirarti, Tu, sanguinosa infanzia) e Guido Morselli (Dissipatio HG, Contropassato prossimo, Roma senza Papa) – senza dimenticare Pirandello perché, non ci fosse lo studio e l’abuso che se ne fa, titoli come Il fu Mattia Pascal e Quaderni di Serafino Gubbio operatore conserverebbero tutt’oggi il loro effetto dirompente.
Sei e Settecento sono stati secoli ai quali la titolistica deve molto (Bruno, Spaccio della bestia trionfante; Sterne, Vita e opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo; Swift, Modesta proposta per prevenire che i figli degli Irlandesi poveri diventino un fardello per i loro genitori, e per renderli anzi un beneficio pubblico), ma il Novecento s’è difeso egregiamente sia in Italia (Arbasino, SuperEliogabalo, Flaiano, Frasario essenziale per passare inosservati in società; Gadda, La cognizione del dolore;
Eppure, con tutti questi ottimi libri che ho letto innanzitutto perché innamorato del titolo, man mano che procedevo avevo l’impressione di essermi perso qualcosa. Ogni titolo apre una rosa di possibilità infinite e ogni libro, per quanto si sforzi di onorarne la migliore, necessariamente lascia perdere tutte le altre e quindi necessariamente delude. Quando una bella ragazza si presenta, rivelandosi come Giulietta o Valentina o Ilaria o chissà chi, segue un periodo compreso fra i cinque minuti e la settimana intera in cui si resta rapiti dalla sua manifestazione spinoziana di giuliettità o valentinità (ilarità?) potenzialmente infinita. Si gioca con questa fantasia e si finisce per chiedere un secondo, un terzo incontro alla medesima signorina. Man mano che il tempo passa, l’apertura di possibilità si richiude ed emerge progressiva, netta, inesorabile l’essenza di questa singola Giulietta o Valentina o Ilaria o chissà chi, che le impedisce di essere qualcun’altra che avevamo sperato, auspicato, supposto. Coi libri accade lo stesso: il meglio della vita ce lo immaginiamo.
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