lunedì 26 febbraio 2007

Ian McEwan e il male domestico


(lunedì 9 gennaio 2006, copyright Ore Piccole)
Avendo voglia di sognare Nicole Kidman, ieri sera con notevoli sensi di colpa mi son messo a guardare un’altra volta ancora Moulin Rouge di Baz Luhrmann. C’è una scena, prima ancora che il film ingrani, in cui una fatina sul genere di Campanellino/Trilli/Tinkerbell (presa di peso da Peter Pan) svolazza intorno alla Torre Eiffel intonando “The hills are alive / with the sound of music…” (ovvero il ritornello di Tutti insieme appassionatamente). Per uno strano effetto di distorsione, la sintesi fra due dei più rassicuranti film per tutta la famiglia diventa né rassicurante né tanto meno familiare, con la fatina che si moltiplica nell’aere lasciando dietro di sé un’inconfondibile scia color verde assenzio. Allora, poiché per difetto professionale tendo a ricondurre tutto ciò che vedo a qualcosa che ho già letto, ho atteso la comparsa delle giarrettiere di Nicole Kidman pensando a Sabato, l’ultimo romanzo di Ian McEwan.
Se si prendono due elementi narrativi tradizionalmente rassicuranti e, fondendoli, si ottiene un risultato inquietante è come se, prendendo due numeri pari, si fosse bravi abbastanza da ottenerne una somma dispari. Il protagonista di Sabato, Henry Perowne, è vergognosamente felice: neurochirurgo di specchiata fama, non solo lavora con sincera passione ma è addirittura sposato all’unica donna che abbia mai amato; sua figlia ha appena pubblicato una raccolta poetica d’imponderato successo e lui non sembra infastidito dall’evenienza che suo figlio paia vivere secondo un diverso fuso orario, anzi lo ammira quale musicista e, con una punta di sana invidia, ne segue le evoluzioni durante le prove. Riesce ad essere agonisticamente valido nello squash, contro un collega più giovane e per giunta americano, e sa cucinare sapientemente il pesce, evento davvero raro in Inghilterra. Attende a cena il suocero, poeta laureato, che per l’occasione si riconcilierà inevitabilmente con la nipotina neofita; nel giro di ventiquattr’ore fa l’amore due volte con la stessa persona, senza mostrare né noia né disgusto.
Ian McEwan fa la cosa più difficile, ovvero accompagnare una persona durante l’intero arco di una giornata dando pari dignità a tutti gli eventi, descrivendo minuziosamente gli ambienti più diversi, senza lasciarsi prendere dalla foga di raccontare (“Non pensare alla trama; la trama non conta”, diceva Virginia Woolf) ma lasciando che il lettore abbia l’impressione di un succedersi di fatti lentamente, naturalmente, quasi inevitabilmente collegati. Senza presentare alcuno sbalzo stilistico, però, la sua descrizione della realtà ha lo stesso effetto di uno specchio incrinato: la superficie liscia della felicità perowniana, come se non potesse essere altrimenti, d’un tratto si spezza e vacilla.
È il 15 febbraio 2003 (un sabato, appunto) e il fatto del giorno è la mastodontica manifestazione pacifondaia che attraverserà Londra col dichiarato intento di mutare la politica estera di Tony Blair e sortendo l’unico effetto di bloccare il traffico. Per i milioni di persone che sfileranno nel televisore di Perowne, il male ha un nome e un cognome precisi e si maschera da bene universale (la democrazia) per combattere un male assoluto (Saddam Hussein o, più in generale, la tirannide). Perowne non è così massimalista e non si sentirebbe di sottoscrivere che il vero, unico e non dichiarato scopo dell’attacco alleato all’Iraq è il petrolio, non solo perché è in possesso di un’automobile potente, unica sua concessione machistica; in particolare, da neurochirurgo, lo preoccupano gli inequivocabili segni di tortura che rinviene sul cranio di un profugo iracheno suo paziente.
È sabato tuttavia, giorno che l’Inghilterra tradizionalmente dedica alla pace domestica e al campionato di calcio. Il male macroscopico, sia che risieda nell’attacco sia che risieda in Saddam (Perowne, persona saggia, non prende una posizione netta), e la sua contestazione nel serpentone del corteo restano sullo sfondo: l’occhio del narratore non diventa mai interno alla sfilata; il figlio di Perowne la sostiene ma non vi partecipa e le posizioni della figlia, che vi ha preso parte, sono presentate in una forma dialogica volutamente confutativa (che ricalca il resoconto della guerra in Vietnam in Pastorale Americana di Philip Roth). Altro provvede a turbare la serenità di Perowne, che si sveglia prima dell’alba in preda a un ingiustificato senso d’euforia e, completamente nudo, si affaccia alla finestra.
Il passaggio nei cieli di un aereo in fiamme, oltre ad essere la scena su cui si apre il romanzo, è il demone che perseguita Perowne per quasi trecento pagine. McEwan lo definisce “la sua notizia”, inevitabilmente oscurata tanto dal pacifismo dilagante quanto dalla sua stessa inconsistenza (non si tratta di un attentato, forse non è nemmeno stato trovato un Corano a bordo del velivolo). Pure, il bagliore nel cielo di Londra si infila nelle lenzuola del neurochirurgo, lo turba e lo inquieta; gli dà la sensazione di un qualcosa che deve prima o poi accadere un po’ come, potrei dire approfittando del clima natalizio, una stella cometa che si porta dietro tre Magi.
I Magi sono, nella circostanza, tre balordi che tentano di aggredire Perowne per la strada e che si rendono protagonisti di un colpo di scena finale. Irrompono, fra l’altro, nel presepio della famiglia felicemente riunita e scompaginano le riconciliazioni in atto; si ha l’impressione di una pubblicità del Mulino Bianco che diventa d’un tratto Arancia Meccanica. È così che McEwan, a furia di accumulare fortuna, felicità e buon senso non comuni ha ottenuto la somma dispari dell’apparizione del male.
È fuori di dubbio che il più morbido dei liberaldemocratici, trovandosi in casa uno squilibrato che gli minacci la figlia o il figlio o il nonno o il maggiordomo, diventi sull’istante conservatore. Se l’aereo in fiamme fosse stato diretto su Westminster, con ogni probabilità la manifestazione pacifista sarebbe andata a ramengo - non solo perché sarebbero serviti soccorsi e non fiaccolate, ma perché sarebbe venuta meno l’intima convinzione che sorreggeva i più. Da essere qualcosa di potenzialmente enorme ma decisamente lontano e conseguentemente rassicurante, il male sarebbe diventato limitato ma infinitamente dannoso. Perowne, così come si trova di fronte a Baxter, il capo dei guitti, è abituato dalla sua professione ad affrontare il male localizzandolo e debellandolo, ove possibile. Capisce, se non lo sapeva già, che teorie e discorsi non servono e che si deve intervenire: il meno dolorosamente possibile, ma intervenire, con le lame sterilizzate e non coi manuali di neurochirurgia. L’eroismo di Perowne è tanto più apprezzabile su scala microscopica. Dopo 250 pagine appare un personaggio a sorpresa: Walter Veltroni, “uomo quieto e cortese, appassionato di jazz”, nell’esercizio delle sue funzioni di sindaco di Roma. Perowne ricorda che ospitando un convegno Veltroni aveva fornito l’immagine degli artisti della Domus Aurea che “avevano trapanato quel cranio in mattoni per conoscere la mente della Roma antica”, forse non immemore dei neoplatonici che tracciavano una fitta rete di corrispondenze fra l’anima del singolo e quella della città. Ian McEwan non disconosce quest’interrelazione di proporzioni diverse. Contrapposto e per certi versi ostacolato dalla pachidermica manifestazione volta a risolvere d’un botto i problemi del mondo intero, il dottor Henry Perowne combatte per tutto l’arco della giornata contro un piccolo male domestico e concreto; sacrifica il suo sabato sera per operare lo stesso Baxter che poche ore prima minacciava di ucciderlo ed estirpa, così, un minuscolo grumo di male londinese: così un altro giorno passa, e la fine di tutto si avvicina. (Quanto a me, invece, prima di vedere Moulin Rouge avevo incocciato un’intervista a Veltroni su Rai3, così invece di sognare Nicole Kidman ho sognato lui - pazienza).

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