lunedì 26 febbraio 2007

Posologia del romanzo-ventiquattrore

(lunedì 16 gennaio 2006, copyright Ore Piccole)

“Noi farfalle”, scrisse genialmente Francesco Tullio Altan, “noi farfalle si vive un giorno solo, e verso le sei di sera si ha già le palle piene”. E se la portata esistenzialistica della sentenza è lampante ai più, da quando l’ho letta una decina di anni fa ho sempre voluto vedervi una dichiarazione di poetica del vignettista costretto fisicamente dai confini quadrati entro cui deve esprimere tutta la propria arte e il proprio talento. Come dire: io farfalla (vignettista), per oggettivi limiti di tempo (spazio) non potrò mai vivere (disporre della mia arte) potendomi organizzare sulla lunga scadenza (dipingendo La Stazione di Perpignano). Ai tempi avevo quindici anni, ero moderatamente soddisfatto, e affrontavo la prima lettura dell’Ulisse di Joyce capendoci, com’era prevedibile, poco e niente.
Ai miei occhi ingenui di giovincello la portata principale del romanzo parve l’ardita sperimentazione stilistica, e sussultavo per ogni incomprensibilità; solo coll’andar del tempo, e con l’incremento delle riletture, mi venne in mente che la sperimentazione era sensata e valorizzabile solo tenendo conto della cornice del romanzo: l’andirivieni di un giorno solo, per le strade di Dublino, dalle 8 del mattino alle 3 di notte del 16 giugno 1904. Basta aver seguito dormicchiando qualche lezione al liceo per rendersi conto che Joyce riproponeva riviste e corrette le unità di tempo e di luogo codificate da Aristotele per la tragedia greca; contravveniva così all’idea stessa di romanzo, che nel Settecento era stato inventato come testo in prosa teoricamente infinito e autoalimentato (nel caso limite, Tristram Shandy di Laurence Sterne, in nove volumi venivano narrati i primi quattro anni di vita del protagonista). Riduceva la Cappella Sistina al quadratino di una vignetta.
Nella ventiquattrore, per definizione, si infila di tutto ma niente più del necessario; in caso di protrarsi della permanenza, foss’anche per tre quarti d’ora in più, il proprietario era ineluttabilmente votato al decesso. Col diffondersi dei voli aerei, la ventiquattrore è tramontata a tutto vantaggio del bagaglio a mano, che consente di sopravvivere anche per una settimana ma costringe il proprietario a trascinarsi a un convegno un poco elegante bauletto. Il pregio del romanzo-ventiquattrore, per non dire la sua sine qua non, consiste nel potersi aprire con un solo scatto, a fronte delle cerniere temporali dei romanzi-valigia (banalizzando: “Al mattino seguente pensavo ancora a cosa mi era accaduto a pagina trenta”) o delle infinite ante dei romanzi-armadio (“Nel 1815 il protagonista capì che aver salvato la vita di Napoleone, alla fine del secolo precedente, era in fin dei conti stato inutile”). L’incosciente esordiente che volesse scrivere un romanzo, ambientandolo in un sol giorno avrebbe l’indubbio vantaggio di poter conferirgli un inizio e una fine segnati dal naturale corso del sole e di poterne scandire i momenti salienti appuntandoli, con precisione entomologica, ognuno a un’ora esatta.
La struttura è, o dovrebbe essere, la cosa più facile, se non altro perché deriva atavicamente dal tema dell’esame per la licenza elementare: Il candidato esponga un resoconto della sua ultima domenica: la messa mattutina, la passeggiata al corso, il pranzo dai nonni e le partite alla radio. L’incosciente esordiente, però, dopo il primo entusiasmo si troverebbe in difficoltà: che giorno scegliere? Scegliere un giorno eccezionale (la domenica della vita, il matrimonio, il giorno della morte propria o di un congiunto, e così via) presenta il rischio oggettivo di lasciarsi trasportare dagli eventi e, poiché nulla di importante si esaurisce in un sol giorno (ma deriva da cause precedenti, che vanno illustrate, e giunge a maturazione solo quando, nei giorni successivi, se ne comprendono gli effetti), a meno di talento straordinario l’incosciente esordiente finirebbe per perdere il filo del gomitolo e maledire il giorno (!) in cui gli è venuta l’idea di costringersi entro i confini dell’unità spaziotemporale. A voler insistere, rischierebbe stucchevoli flashback (“Ma quella era Rosina! La rivide quando, nel fiore della gioventù, le era apparsa in una vestaglia ciclamino…”) o un’invadente tendenza della voce narrante a spiegare pedissequamente qualsiasi cosa il protagonista sottintenda (“Guardò meglio la foto spiegazzata caduta sul pavimento. Rosina. Rosina era la sorella del suo affittuario e l’aveva vista per la prima volta nel 1983, avvolta da una vestaglia ciclamino appena acquistata dalla Upim per tredicimila lire. I saldi.”).
Meglio scegliere un giorno in cui non accade niente? Qui sta il busillis. Da un lato è impossibile che in un’intera giornata non avvenga niente (paradossalmente, se anche così fosse l’unico avvenimento degno di nota sarebbe che non è avvenuto niente), dall’altro un romanzo che narri minuziosamente lo zero assoluto delle trame (la giornata di un vecchio costretto a letto in stato vegetativo) è estremamente difficile e quasi impossibile a scriversi, oltre che intuibilmente non scatenerebbe risse all’ingresso delle librerie per accaparrarsene le ultime copie.
Facciamo un giorno in cui non accada nulla di particolare; un giorno tipo; routine. In questo caso l’incosciente esordiente, raccontando ad esempio la mia entusiasmante giornata di ieri (far colazione; scrivere; smistare la posta; pranzare; leggere; fare due telefonate; cenare; guardare la tv; coricarmi) dovrebbe guardarsi da un lato dal rischio di annoiarsi raccontando l’equivalente spaziotemporale di un encefalogramma piatto (e quando l’autore si annoia, i lettori chiudono il libro e non lo riaprono mai più); dall’altro dovrebbe stare attento a non cadere in un eccesso di bozzettismo, di caricaturismo, o addirittura di neonaturalismo, che lo porterebbe dritto dritto ad essere invitato nottetempo su Rai Educational a spiegare perché ha scritto: “Gurrado, consuetamente oberato dagli impegni intellettivi, si sedette al computer, un portatile Acer Aspire 1304LC, 15 pollici di schermo, 256 MB di RAM, con lettore DVD/CD-RW incorporato, grigio scuro come un mattino invernale”.
E ora, rivelazioni sconvolgenti: l’incosciente esordiente sono io, in carne ossa e barba. Subito dopo aver letto l’Ulisse m’era presa la smania di scrivere anch’io (cos’ho meno di Joyce?, mi chiedevo quand’ero quindicenne) un romanzo che sorgesse col mattino e si spegnesse col sonno notturno. Gli evitabili eccessi che ho narrato sopra li ho patiti ahimè sulla mia pelle, con gran dispendio di inchiostro inutile. Sono riuscito, nel ragionevole intervallo di dieci anni, a dare alla luce un romanzo vero ambientato in un sol giorno (ma a partire dalle sette di sera, ché di più mi sarei stancato troppo) solo quando ho compreso l’accorgimento che - credo - costituisca il discrimen e che procedo a spiegare. Un romanzo-ventiquattrore finisce necessariamente per essere un romanzo sul tempo; poiché qualsiasi romanzo - bella scoperta - è formato esclusivamente da parole che s’inseguono l’un l’altra, l’incosciente esordiente (non io, non più) che desideri scrivere un romanzo del genere deve prima di tutto, tracciata la struttura generale, individuare un metronomo. Può trattarsi di un personaggio secondario incontrato di frequente, di un motivetto che non esce dalla testa del protagonista, di un episodio (del passato o della giornata stessa) che si ripropone in varie sembianze nel corso della storia, ora ingigantito, ora parodiato, ora sottotraccia. Sempre, si tratta di una parola (o di un gruppo di parole) leitmotiv, che segna l’ombra del tempo che si allunga sul romanzo a orologeria.Allora, qual è la bravura (se mai ve n’è una peculiare) di chi - Joyce, La Capria, McEwan, Virginia Woolf, non Gurrado - scrive un romanzo d’un sol giorno? Ho appreso da fonte autorevole - la pagina scientifica di TeleSette - che l’astronomo americano Carl Sagan ha inventato il “calendario cosmico”, ovvero ha ridotto la storia dell’universo al corso di dodici mesi, in cui il Big Bang è Capodanno e l’uomo si presenta al mattino di San Silvestro, in attesa dei botti per la mezzanotte. Lo stesso talento nell’infilare di tutto e di più in un arco di tempo più limitato possibile, capendo cosa serve e cosa no; stupendo il pubblico nell’esagerare le proporzioni senza al contempo perdere di vista il poetico dettaglio; ironica indifferenza nel condurre il protagonista per mano nei momenti più bassi della sua vita (in bagno, ad esempio) e capacità di mostrarne di straforo la grandezza d’animo, così come da un pertugio del Priorato dei Cavalieri di Malta, a Roma, si distingue lontanissima la cupolona di San Pietro: questo si richiede all’autore del romanzo ventiquattrore, questo è il percorso a ostacoli della trama a breve termine. D’altra parte, considerava John Maynard Keynes, “a medio termine saremo tutti morti”, né più né meno delle farfalle.

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